(24.09.11) Un convegno ricco di stimoli che ha in larga misura smentito l'immagine di una cucina povera e senza scambi con la cultura gastronomica 'alta' e che ha lanciato molti suggerimenti per utili riscoperte agroalimentari
La cucina delle Alpi tra tradizione e rivoluzione
di Michele Corti
Le rivoluzioni attualmente in corso, caratterizzate dalla omologazione di stili alimentari e dalla apparentemente inesauribile disponibilità di prodotti alimentari provenienti da ogni angolo del pianeta, sono radicali ma forse non più della 'rivoluzione colombiana' che ha profondamente modificato i sistemi agroalimentari alpini imponendo il ruolo dominante di mais e patata. Oggi si apre una nuova fase di innovazione in cui nuovi prodotti potrebbero essere adattati alla cultura gastronomica ma in cui è possibile anche la 'riscoperta' di prodotti che per lunghi secoli hanno fatto parte del codice alimentare alpino
Quando un convegno si può dire riuscito? Quando resta alta sino alla fine l'attenzione dei presenti, quando parecchi partecipanti sono coinvolti nei dibattiti che seguono ciascuna relazione, quando dall'insieme delle relazioni emergono indicazioni comuni e ciascuno torna a casa convinto di 'saperne di più'. A giudicare da questi 'indicatori' il convegno che si è svolto ieri nel paesino di Carcoforo alla testata di una delle convalli della Valsesia è stato un successo, rafforzato dal fatto che alle spalle c'è stato un grosso lavoro che ha saputo coinvolgere molte espressioni della comunità locale di Carcoforo e della Valsesia.
Dietro al convegno c'è stato un grosso lavoro locale
Non solo lavoro organizzativo intendiamoci. Anche lavoro culturale, con attività didattiche nelle scuole e un forte impegno degli insegnanti. Un lavoro che viene avanti da anni e che si è caratterizzato sui temi dell'agricoltura, dell'allevamento e dell'alimentazione che erano stati già al centro di un precedente convegno svoltosi a Carcoforo nell'agosto 2007 (La gestione delle risorse nellle comunità di frontiera ecologica. Allevamento e cerealicoltura nella montagna valsesiana dal medioevo al nuovo millennio). Tra i protagonisti di queste iniziative che vedono Carcoforo protagonista di eventi culturali importanti non si può fare a meno di citare Jonny Ragozzi del Gruppo Walser Carcoforo e il geologo milanese Roberto Fantoni (sul ruolo dei 'milanesi' - anche neoosti e neocaprai e non solo animatori culturali - avremo modo di tornare) . Ad essi il comune con il sindaco Marino Sesone, e la pro Loco hanno fornito un convinto ed entusiastico appoggio.
L'evento di quest'anno ha coinvolto anche Varallo, la capitale della valle e numerosi altri centri con una serie di inziative musicali, artistiche, gastronomiche, zootecniche (mostre e 'transumanza'). Un programma davvero ricco che si è sviluppato durante il week-end.
Lavoro locale e rete inter-alpina
Oltre ad un vasto coinvolgimento della valle l'evento ha visto la partecipazione della rete dei 'Tra-montani', un circuito di associazioni culturali di area alpina che ogni anno organizza un convegno su un determinato tema. Gli incontri 'Tra/montani' sono arrivati alla ventunesima edizione. Non è poco per una aggregazione informale che opera esclusivamente sulla base del volontariato. Il successo della formula, che ha saputo contobilanciare con l'entusiasmo le oggetive difficoltà di collegamento tra realtà locali sparse da Cuneo al Friuli, è dimostrato dal fatto che - nonostante la chiusura dei rubinetti delle sponsorizzazioni pubbliche - c'è la gara tra le nuove e vecchie associazioni aderenti per organizzare i prossimi incontri. Una circostanza che ho potuto constare di persona durante la cena di venerdì sera presso l'Istituto Alberghiero.
Il paese di Carcoforo visto dalla sala del convegno
Prima della cena, presso Palazzo d'Adda di Varallo (centro congressi del comune) si è tenuta la conferenza di inaugurazione. In questa sede il presidente della Comunità Montana, Pierangelo Carrara ha dovuto manifestare il proprio rincrescimento per non aver potuto sponsorizzare il convegno. C'è di buono che, al di là delle lamentele da 'sindacalista' (come lo stesso Carrara ha qualificato l'azione cui sono attualmente costretti gli amministratori locali), egli ha ricordato che è tutta la montagna a soffrire, con le banche, le poste, le scuole che chiudono.
Montanari per scelta
Interessante l'intervento-testimonianza di un oste molto apprezzato di Rima, Eugenio Pol che da alcuni anni svolge anche attività di panificatore a Fobello. La sua attività è denominata “Vulaiga”; panifica rigorosamente con pasta madre e le sue farine sono biologiche, spesso usa prodotti della terra di Fobello nei suoi pan che vengono utilizzati in un ristorante stellato di Milano (Aimo e Nadia) e volano anche in Giappone
Eugenio, che ra un chimico si colloca nella non folta ma comunque significativa schiera dei 'montanari per scelta' che si integrano nell'ambiente locale e rilanciano tradizioni di eccellenza della montagna. Gente che lascia le professioni 'di concetto' per mettersi a lavorare con le proprie mani, in cucina ma anche nelle stalle. Una piccola rivoluzione tra le tante della montagna. Non è sempre vero che l'ambiente di montagna è impermeabile, che i 'nuovi montanari' non riescono ad integrarsi.
'Milanesi' e 'Piemontesi'
Qualificandosi 'milanese' il barbuto oste si è ricollegato ad una gustosa notazione del preside dell'alberghiero che, trattando delle origini del turismo in valle, ha ricordato come i forestieri che venivano a visitare il Sacro Monte erano classificati dai locali in due categorie: 'piemontesi' e 'milanesi'. I primi lasciavano generose offerte ai preti,i secondi arrivavano con vistose carrozze, più interessati al cibo che alle pratiche devozionali. Inutile dire che i locandieri e gli osti preferivano i milanesi. La sede dell'Alberghiero, nel maestoso Splendid Park Hotel, è essa stessa un pezzo di storia del turismo, testimonianza di quando le terme di Varallo facevano parte del circuito frequentato dall'aristocrazia e dalla borghesia europee. I fasti della Belle epoque però sono molto lontani. L'albergo che aveva fatto furore prima della Grande guerra, venne già ristrutturato e declassato subito dopo la guerra stessa. Parco e esterni sono rimasti uguali, l'interno purtroppo no. Va detto che altri alberghi dell'epoca hanno subito sorti anche peggiori, basti pensare al Grand Hotel di S.Pellegrino Terme.
Era meglio una cena valsesiana 'integrale'
All'ex Park Hotel si è svolta la cena del convegno. Il salone era gremito. La cena è stata interessante per le conversazioni, allietate anche da musica e balli alpini. Quanto ai piatti l'idea un po' 'scolastica' ma forse troppo ambiziosa degli organizzatori del convegno di un menù rappresentativo di Valsesia, Valtellina e Carnia (ogni portata prevedeva un tris) ha fornito esiti un po' deludenti. Tra l'altro al convegno non c'erano valtellinesi o carnici, ma trentini, camuni, lessini e non si capisce il senso della scelta delle cucine locali alpine che, oltretutto, avrebbe avuto un significato se si fosse potuto contare su materie prime di provenienza diretta. Non posso valutare i piatti carnici e nemmeno quelli valsesiani, ma se devo giudicare sulla base di quelli valtellinesi che conosco bene... Peccato per l'impegno di studenti e insegnanti. Per preparare un piatto tradizionale non basta seguire una ricetta o attuare un programma.
Dalla relazione di Roberto Fantoni. L'identificazione con la 'Fontina' delle grosse forme sul tavolo secondo alcuni è da mettere in discussione data la relativa 'modernità' della Fontina stessa
La vita alpina è sempre stata in evoluzione (e anche la cucina)
Ma veniamo al convegno vero e proprio, quello svoltosi a Carcoforo durante tutta la mattinata e tutto il pomeriggio del sabato. Nell'impossibilità di riferire i singoli interventi mi limiterò ad indicare alcune indicazioni emerse da più interventi. Per chi è interessato gli atti in versione provvisoria sono già disponibili online ( PDF ).
Lungi dall'essere connotata come una cucina 'povera', 'immutabile', di pura sopravvivenza la cucina alpina va collocata in una dimensione storica. Fondamentali sono le scansioni costituite dalla 'piccola era glaciale' e dalla 'rivoluzione colombiana'. Ad esse vanno aggiunti i movimenti migratori e demografici del secolo XIX e la 'fine della civiltà rurale' verso gli anni '60 del XX secolo. In realtà ogni secolo ha portato cambiamanti. Alcuni sono stati bruschi (come il peggioramento climatico alla fine del XVI secolo), altri graduali (come l'introduzione della patata). La 'piccola glaciazione) che Roberto Fantoni indica iniziare nel 1560 in Valsesia ebbe effetti sconvolgenti: l'agricoltura passò in mano alle donne perché gli uomini dovettero emigrare. Gli alpeggi restarono in buona parte deserti e vennero utilizzati da pastori bergamaschi con i loro greggi. Dal momento, però, che l'emigrazione valsesiana era qualificata (erano maesti muratori, pittori e decoratori come nella comasca valle Intelvi) fu possibile mantenere un buon regime alimentare acquistando cereali dalla pianura (novarese).
Il ruolo degli scambi, della caccia e della raccolta
Scambi tra aree a diverse condizioni climatiche avvenivano anche all'interno delle stesse valli sulla base del baratto. Le alte valli erano spesso più provviste di latticini che scambiavano con i prodotti delle medie e basse valli. Non solo le castagne, necessarie ad integrare la ridotta produzione cerealicola delle terre alte (specie dopo la recrudescenza climatica di fine cinquecento) ma anche frutta e ortaggi. La cucina alpine, però, era arricchita di prodotti che per noi sono diventati poco 'convenzionali'. Tali prodotti contribuivano a integrare in modo significativo l'apporto proteico ma anche vitaminico. Un grande rilievo, forse non ancora pienamente valutato, hanno avuto nella dieta alpina la caccia e la raccolta. Oggetto di caccia nelle terre alte erano soprattutto i camosci e le marmotte (queste ultime utilizzate non solo per la carne ma anche per il grasso). Il fortissimo aumento delle popolazioni di ungulati selvatici nelle nostre montagne assegna a queste osservazioni un significato particolarmente attuale. Oggi la montagna è spesso 'assediata' da una fauna selvatica che provoca danni gravi alle attività agricole e scoraggia anche il rilancio delle piccole coltivazioni (dati i costi della protezione delle colture). Una diversa impostazione della caccia rispetto ad una anacronistica concezione 'sportiva' e dell'altrettanto anacronistico concetto di res nullius ovvero proprietà pubblica potrebbe trasformare la caccia in una risorsa economica e occupazionale. Una risorsa che può ben essere valutata se si sommano i danni al costo delle importazioni per rifornire la miriade di locali che propongono sulle Alpi 'piatti tipici' a base di cervo e capriolo. Qualcosa si sta muovendo (vedi un interessante progetto in val Varaita - Cn - per la lavorazione di carni di ungulati selvatici oggetto di prelievo in loco).
Vi erano, però, anche una 'caccia' minore. Quella ai gamberi di fiume, alle lumache. Anche questa raccolta contribuiva all'apporto proteico ed era così importante che in Valcamonica pene severissime (sino alla galera) colpivano chi osava raccogliere gasteropodi immatuti al di fuori dei tempi prescritti. Un altro capitolo importante era rappresentato dalla raccolta delle erbe spontanee. Oggi la cultura salutistica (ma anche del km 0) stanno rilanciando l'alimurgia (utilizzo piante spontanee commestibili) quale fenomeno che va al di là del costume per aprire prospettive economiche sia nel campo della coltivazione che della cucina.
Alimurgia
La 'riscoperta' di spinaci selvatici, rabarbaro alpino, borragine, silene, crescione, polmonaria, tarassaco, farinello e decine di altre piante rappresenta una carta importante della cucina alpina per differenziarla dal fast food e comunque da una ristorazione omologata. L'uso delle piante spontanee commestibili conferisce un tocco 'esotico' e al tempo fortemente locale ai piatti a costi contenuti sfruttando la loro facilità di reperimento (a volte a pochi passi dalla cucina). Un vantaggio comparato rispetto ai ristoranti di città. L'alimurgia, però, presuppone una cultura dell'utilizzo alimentare di piante che possono presentare anche controindicazioni. Nel convegno si sono fatti più volte riferimenti allo Spinacio selvatico (Buon enrico, in molti dialetti lombardi Perüch) e al Rabarbaro alpino (lavazze in area lombarda e sino alla Valsesia dove molte voci locali sono di matrice lombarda). Lo spinacio selvatico è senz'altro di moda e si stanno moltiplicando le riproposizioni di piatti in cui entra come ingrediente importante (basti pensare agli gnocchi di mascherpa e Perüch). A Rasura, in Valtellina, è stata anche istituita la Sagra del Parüch. In Valsesia è emerso un utilizzo importante anche delle lavazze. Alla stessa cena della sera prima un piatto prevedeva un involtino di lavazze (sostituito poi per mancanza di materia prima - ma se sono piene le montagne! - dalla più convenzionale verza). Qui si inserisce un dato culturale perché altrove le lavazze erano spesso considerate solo cibo per i maiali (cotte) o utili solo per avvolgere i panetti di burro al fine di mantenerli freschi. Sull'uso del Rabarbaro alpino in cucina varrebbe la pena approfondire gli studi anche perché è pianta che contiene (come altre della famiglia quali l'acetosella - peraltro molto gradevole nelle insalate -) un eccesso di ossalati. Il consumo deve essere limitato è precluso in caso di insufficienza renale. La 'commestibilità' non è comunque un dato eclusibamente fisiologico. Il consumo dei funghi a questo proposito è emblematico considerato che in alcune aree l'uso dei funghi, anche i più pregiati, era tabù.
Giancarlo Maculotti
Patate
Diversi reatori hanno dedicato le loro attenzioni alle conseguenze della 'rivoluzione colombiana' che ha portato sulle tavole mais, patate e pomodori. Con modalità molto differenti e in tempi molto differenti, però. Nelle valli alpine hanno impiegato secoli ad arrivare. Giancarlo Maculotti, animatore degli Incontri Tra/montani sin dalla prima edizione (foto sopra durante la relazione) ha messo in evidenza come la patata ha 'sfondato' in Valcamonica solo nei primi decenni del XIX secolo. Datazioni simili sono state riportate anche da altri relatori mentre in Valsesia l'introduzione è stata un po' più precoce (alla fine del XVIII secolo). È stato sottolineato il paradosso di un prodotto che è entrato solo da meno di due secoli nella cucina alpina ma che ne è diventato un elemento essenziale connotandola prepotentemente. Un caso che si presta a considerazioni di ordine generale e teorico sulla dialettica tradizione-innovazione che era poi al centro del convegno. La patata ha trovato molta resistenza culturale tanto che per lungo tempo era considerata cibo adatto solo ai maiali.
Le patate di Rima (alta Valsesia)
L'introduzione nel XIX secolo, secondo Maculotti, è da mettere in relazione con la terribile carestia del 1816 (l'anno senza estate) che fece milioni di morti in Europa e che colpì con maggiore virulenza le popolazioni che avevano rifiutato la patata. Va anche ricordato, però, che ogni medaglia ha il suo rovescio e che in Irlanda la catastrofe del 1847 fu causata da un eccessivo affidamento sulla patata e dall'utilizzo di una varietà 'selezionata' (Lumper) ad elevata produttività ma sensibile alla Peronospera della patata (Phytophthora infesetans) che distrugge non solo le foglie ma anche i tuberi . Il legame tra Alpi e patata si spiega con l'origine andina del tubero che, in montagna, è meno vulnerabile ad alcune malattie ed esente da virosi (è questo il motivo per cui le patate da seme sono sempre state prodotte in montagna rifornendo in un contesto di scambio le località di bassa montagna e collina). Molto diffuso in montagna - anche se solo alle quote più basse - fu anche il mais.
Riscopriamo i cereali minori e le rape
Esso sostituì i cereali minori che, in montagna, si erano conservati molto più a lungo rispetto alla pianura. Miglio panìco - oltre ovviamente alla segale e all'orzo - rappresentavano colture importanti in montagna dove la possibilità di coltivazione del frumento era limitata. I cereali ''minori' - a partire dal miglio erano utilizzati per minestre e pulmenti (dal latino puls) e il successo del mais (anch'esso molto tardivo) è legato alla continuità di utilizzo. Non solo la 'polenta' divenne quella di mais ma lo stesso cereale e i prodotti derivati da esso vennero famigliarizzati trasponendo nomi precedentemente assegnati al miglio o al sorgo (saggina). Da qui le denominazioni di melgun o melgozz per il mais (da meliga = sorgo), il pan de mei, la miascia valsesiana, ecc. Più di un relatore ha fornito numerosi esempi. Da tempo negli ambienti dei 'macrobiotici' e dei vegetariani cerali come il miglio sono tornati in grande auge. Pochi sanno che il miglio (e il grano saraceno) sono ricchi di proteinedi elevato valore biologicoi. La polenta di miglio (parlo per esperienza personale) è facile da preparare ed è gradevole (così come le crocchette di miglio ed altre ricette vegetariane. Solo le basse rese di questo cereale (che è però di facile coltivazione), spiegano perché è per lungo tempo uscito dalla nostra alimentazione.
A volte spadellando un po' in cucina si capiscono molte cose del nostro sistema alimentare ed economico (specie attraverso quello che - i signori del world food system non vogliono farci sapere).
Rilancio della pataticoltura in alta Valsesia
Mais e patata, grazie alle rese superiori e alla facilità di coltivazione (se non si tiene conto dell'impegno di manodopera molto elevato, specie nel caso della patata) determinarono un forte aumento demografico e consentirono anche allo stato di 'estrarre' con le crescenti tasse una quota cerscente del reddito dei montanari. Ma ci fu anche un altro risvolto spiacevole: le carenze nutrizionali. Mais e patata sono ricchi di amico ma, specialmente il primo, povero di proteine e vitamine. Le popolazioni di montagna, nonostante la grande diffusione della polenta di mais come base della dieta, non soffrirono mai come i contadini della pianura le conseguenze dell'alimentazione a base di mais che, alla fine del XIX secolo, comportò la diffusione epidemica della terribile pellagra (una patologia che porta alla pazzia e anche alla morte). In montagna, sia pure in forma ridotta, l'integrazione con altri alimenti non cessò mai. Diverse le cose in pianura dove mezzadri e salariati dovevano spesso accontentarsi della sola farina di mais. Da questo punto di vista l'alimentazione precolombiana non può che essere oggetto di rivalutazione. La 'cucina povera', caratterizzata da pochi alimenti è principalmente un retaggio ottocentesco. I cereali minori e la coltivazione dei legumi attuata in forme di coltura mista, intercalare assicuravano un apporto di proteine, aminoacidi essenziali e vitamine senz'altro più adeguato rispetto all'era della patata e del mais. In questo quadro diversi relatori hanno sottolineato l'importanza della rapa che sta alla patata come i cereali minori stanno al mais. Maggiormente conservatisi nei paesi d'oltralpe la coltura e la cultura della braSSICACEA è molto declinata nelle nostre valli anche se non è mai scomparsa (sono state ricordate le rape di Ossimo in Valcamonica, rinomate per la loro grossezza e gusto). Anche la rapa come le altre brassicace è però in fase di rivalutazione sulla base delle proprietà nutrizionali di queste piante (specie se consumate fresche). Un ruolo importante i cavoli e i crauti hanno continuato a svolgerlo in Lessinia così come in altre aree germanofone ma non solo. Basti pensare che a Livigno (con un fondovalle a 1.800 m), dove la segale - a differenza delle Alpi occidentali dove la coltura arrivava a 2.000 m - non poteva essere coltivata, e dove non era possibile neppure la coltivazione della patata, la rapa ha mantenuto un ruolo chiave nell'alimentazione tanto da essere utilizzata anche per la panificazione. Gli amici trentini hanno ricordato nell'ambito della interessante discussione che si è sviluppata sul tema che nel Banale si produce tutt'ora la Ciuìga, un salame impastato con le rape (per 'diluire' la preziosa pasta). Rivalutazione della rapa nella cucina alpina quindi.
Alpeggio di sussistenza in alta val Sessera (Biellese)
Dalle alte valli alle corti rinascimentali
Oltre ai contributi relativi a singole produzioni alcune relazioni hanno trattato dei cuochi alpini e dei ricettari alpini. Un argomento interessante perché smentisce l'idea di una cucina alpina 'impermeabile' ad influenze esterne. Nel rinascimento presso le corti principesche operavano cuochi di origine alpina. Sintomatici i casi del Maestro Martino de Rossi della val di Blenio (nell'alto ticino) che operò presso alcune corti italiane e di un altro bleniese, tale Giacomo, che il duca Filippo Maria Visconti nominò podestà di valle. Molto noto poi il caso di Bartolomeo Scappi, cuoco 'segreto' presso la corte papale. Questi cuochi avevano sviluppato le loro capacità professionali in un contesto di quelle importanti 'strutture turistiche' che rano rappresentate dalle stazioni di posta lungo gli itinerari principali, le vie di pellegrinaggio e commerciali. Gli ospizi alpini erano luoghi di transito importanti frequentati oltre che da mercanti da funzionari, diplomatici. Non era molta la gente che si muoveva attraverso i passi alpini ma era spesso gente di rango che desiderava ritrovare almeno in parte le proprie abitudini alimentari. I passi e le località alla loro base erano punti di passaggio obbligato dove gli scambi erano facilitati. Nel XVIII secolo quando esplose la moda del Grand Tour un nuovo impulso derivò dalla frequentazione degli itinerari transalpini e, in seguito, di alcune celebrate località delle alte valli da parte di un grande numero di nobili provenienti dall'Inghilterra e dalla Germania. Alcuni dei nuovi visitatori lasciavano anche ricette e ne derivarono nuove contaminazioni e comunque lo stimolo per gli osti locali a raggiungere un livello più elevato di tecnica culinaria.
Presente e futuro della cucina alpina
Oggi la cucina alpina si deve confrontare con le tendenze generali legate alla diffusione di nuovi prodotti secondo nuove modalità (cucina 'fusion', cucina 'molecolare'). Inserirsi, senza perdere di vista la propria identità, in queste tendenze è probabilmente più produttivo che insistere in un paradigma di 'tipicità' che spesso è frutto di invenzioni recenti, di estensione di tradizioni di aree determinate all'intero arco Alpino o quantomeno ad intere regioni. È il fenomeno della globalizzazione regionale che stravolge linguaggio e codici culinari (è non è meno deleterio della globalizzazione 'globale').
Si arriva a definire 'malghe' gli alpeggi delle alpi occidentali e centro-occidentali solo perché 'suona bene per il turista'. Lo stesso in cucina. Per non 'sciogliersi' in un melting pot dove ogni identità culinaria e, alla lunga, anche ogni appeal sono perduti è necessario studiare l'evoluzione della cucina delle alpi. Conoscere le sue rivoluzioni, saper distinguere invenzione da innovazione, saper riconoscere gli elementi di fondo che ne costituiscono l'identità. Nel corso del convegno ogni area ha dimostrato che ovunque, anche nelle valli più povere, esiste una varietà di preparazioni tradizionali. Povere a volte negli ingredienti, quelli facilmente reperibili sul territorio, ma ricche di gusti a volte perduti. Vi sono molte alternative all'adozione subalterna e massificata di modelli wok (world oriented kitchen) nella montagna alpina o al perdurante equivoco di una tipicità fossilizzata e falsa fatta di pochi piatti 'montanari' senza fantasia 'polenta e cervo', 'polenta e formaggio fuso', 'salamelle', 'costine', 'polenta concia', funghi e poco più.
Ciò che conta è che tra mondo della cultura (storici, etnografi, cultori di storia locale), della produzione e della scienza agroalimentare e chef si sono attivati canali di dialogo e occasioni di lavoro comune. Il convegno di Carcoforo va in questa direzione e si può solo auspicare che i suoi risultati, attraverso i ponderosi Atti, siano ampiamente diffusi e che stimolino altri progetti e iniziative nello spirito costruttivo di una rete inter-alpina.
L'intervallo del convegno con degustazione di prodotti carnei e latticini rigorosamente locali e artigianali