Ruralpini  resistenza rurale

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 Produzione cibo sempre indispensabile

cosa mangeremo? Intanto se non hai
la partita Iva e codici Ateco vietato coltivare



di Michele Corti

Riflessioni sul rapporto tra pandemia e cibo. Inutile negare "per non fare allarmismo" che ci siano tensioni sui prezzi e che alcuni paesi stiano chiudendo l'export. Inoltre ci sono rischi da chiusura di frontiere e da divieto di attracco di navi che hanno fatto scalo in Italia. Quel mondo a tinte rosee che ci dipingevano i fautori della globalizzazione non esiste più. Ogni stato pensa prima di tutto al suo interesse; quando questo "esempio" viene dai più ricchi e potenti allora l'Europa unita e il mondo iperconnesso del free trade e delle delocalizzazioni appaiono  pericolosi inganni tesi dai potenti a danno degli ignari sudditi che "stanno in basso".

(29.03.20) La politica e le elite economiche e intellettuali, dopo lo tsunami sanitario (cui seguiranno conseguenze imprevedibili sul piano economico, alimentare, sociale), saranno chiamate a rendere conto di scelte di sistema che, alla prima crisi drammatica, hanno rivelato tutta la loro fragilità e pericolosità.  Una di queste consiste nell'illusione di un mondo felicemente e armoniosamente interconnesso capace di far fronte, con il sostegno internazionale, a ogni evenienza. Le considerazioni circa la necessità strategica del mantenimento di un certo grado di autosufficienza alimentare sono liquidate come  "sovranismo alimentare", qualcosa che puzza  di autarchia e "fascioleghismo". In effetti certi atteggiamenti pro Made in Italy sono troppo ingenui e ruffiani. Bisogna guardare cosa c'è dietro il prodotto finale etichettato italiano (con la pasta, superando la resistenza degli industriali, qualcosa si è fatto).  Siamo nell'Europa unita, in un mondo aperto al commercio, che bisogno c'è di coltivare il proprio cibo? Dicono il Gatto e la Volpe. Dicevano gli adepti della "open society" (che basta sapere che razza di speculatore avvoltoio la promuova...).  Già ma ora questa sicumera la si pagherà a caro prezzo.



C'era una volta la "sovranità alimentare"

In realtà di sovranità alimentare si parla da tempo, anche se oggi la parola d'ordine è passata di moda, per paura di "confusioni ideologiche". Questo mette in luce tutta l'ambiguità del movimento "no global", la sua subalternità all'establishment borghese, dopo tanti proclami contro le multinazionali, il mercato, il neocolonialismo. Finché si trattava di giocare con gli slogan pseudo "antagonisti" i no global, venivano blanditi dalla sinistra austeritaria neoliberale di governo. Ma quando il tema del sovranismo (politico, economico, culturale, alimentare) ha assunto una nuova dimensione, chi nella società sta in basso, ha capito che lo smantellamento di confini, delle identità locali e nazionali, l'immigrazione senza freno, il peso crescente di organismi sovranazionali, le Ong, lo smantellamento di ogni sistema solido di valori, , di tradizioni, rappresentano altrettanti fattori di smantellamento - per il precariato, la classe operaia residua, i ceti medi impoveriti, dei gusci protettivi, delle protezioni sociali che si erano costruiti e altrettanti fattori a favore del capitale. La ricreazione è finita. Il movimento no global, temendo la scomunica dell'ortodossia progressista, temendo di confondersi con i "razzisti" si è dissolto. Altrimenti, si è etichettati "di destra", appestati.
 
 


Chi è a favore dei diritti dei popoli, come i brutti e cattivi "sovranisti" (brutti e cattivi ma nulla a che vedere con quel nazionalismo egoistico e aggressivo che la borghesia ha praticato così a lungo - fino a che le ha fatto comodo - e che oggi scopriamo redivivo nei rapporti inter europei), non può non essere d'accordo sul diritto alla sovranità alimentare, nelle formulazioni che gli avevano dato fonti insospettabili (dal punto di vista "antifascista-antirazzista"). Nel 1996, l'organizzazione di sinistra Via campesina - di certo più combattiva dei suoi pallidi emuli nostrani di marca buonista e terzomondista - formulò in questo modo la "sovranità alimentare": 

il diritto dei popoli, delle comunità e dei Paesi di definire le proprie politiche agricole, del lavoro, della pesca, del cibo e della terra che siano appropriate sul piano ecologico, sociale, economico e culturale alla loro realtà unica. Esso comprende il vero diritto al cibo e a produrre cibo, il che significa che tutti hanno il diritto a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato, alle risorse per produrlo e alla capacità di mantenere se stessi e le loro società.

Questa definizione viene ripresa nel 2007 dalla dichiarazione di Nyéléni (villaggio nel comune di Sélingué, Mali) a conclusione del forum sulla sovranità alimentare:  la sovranità alimentare è il diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente ad
eguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica, ed anche il diritto di poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo. Parole sacrosante,che  non sono di destra o di sinistra, sono sacrosante e basta. La definizione di sovranità alimentare era stata elaborata in risposta a quella, riduttiva e inaccettabile, di "sicurezza alimentare".

La sicurezza alimentare esiste quando ciascun individuo, in ogni momento, ha accesso ad una quantità di cibo sufficiente, sicuro e nutriente in modo da soddisfare i bisogni dietetici e le preferenze alimentari per garantire una vita sana e attiva
(FAO 1996).

Come è evidente a tutti nella formulazione Fao ci può stare una totale dipendenza dagli approvvigionamenti delle multinazionali, ci possono stare le monocolture da esportazione e la distruzione dell'agricoltura contadina che è tutt'uno con la distruzione di strutture sociali, culture, legami, controllo delle proprie risorse. Si può accettare che, pur di essere sfamati, gli esseri umani accettino un cibo "sicuro e nutriente" ma estraneo alla propria cultura, ottenuto da sistemi agricoli che scardinano valori ambientali, sociali, culturali? Si può accettare la dipendenza dagli approvvigionamenti internazionali, dal mercato globale controllato dalle multinazionali? Si possono accettare le colonizzazioni e i ricatti alimentari? Non c'è libertà e indipendenza senza la possibilità per popoli e le comunità di organizzare i propri sistemi agricoli, senza saldare produzione, distribuzione, consumo in fattori che ricreano legame sociale e territorializzazone. Questa è la vera "sostenibilità" agroalimentare. 



L'approccio a senso unico della sinistra globalista alla sovranità alimentare: nella mensa hamburgher di legumi e cous cous. Niente di male se fosse concordato e non imposto in stile totalitario.

Però se un popolo, una comunità, un paese ha diritto alla propria cultura alimentare, alla propria terra. come è conciliabile questo con la negazione del diritto a non emigrare, con il diritto dei popoli a non essere invasi, a essere costretti a vivere in quella che era (una volta) casa loro secondo leggi e costumi imposti dai nuovi arrivati (a loro volta usati cinicamente come pedina, come una volta il capitale classico descritto da Marx, usava il lumpenproletariat). Il diritto illimitato alla mobilità delle persone (oltre che delle merci) - il trucco "liberal-comunista" consiste nel considerare solo il livello individuale dell'esistenza sociale - comporta l'annullamento - se questo diritto è esercitato in massa - del diritto alla propria cultura. A volte la perdono gli immigrati, a volte la perdono le comunità che "accolgono" (in Italia succede così per espiare gli errori del regime mussoliniano e dei suoi vaneggiamenti razzisti, dai quali fu peraltro esente sino al 1937), normalmente la perdono entrambi, che è poi la soluzione preferita dal globalismo mondialista, un mondo omogeneizzato, senza differenze, senza culture, senza passato, senza religioni.Poltiglia sociale amebica alla mercé dell'elite mondialista Un mondo di numeri intercambiabili.
Per l'establishment la discriminante è quindi l'affermazione del cosmopolitismo come valore assoluto, lo spappolamento delle istituzioni preglobali (famiglia, genitorialità, funzione educativa, chiesa, comunità di vicinato, categorie economiche e professionali). 
Fin che i movimenti no global restavano nell'alveo del terzomondismo, non osavano mettere in discussione i dogmi fondamentali del progressismo andavano bene, ma insistendo a parlare di sovranità... sono stati scomunicati. Di qui gli alti lai dell'intellighentsia progressista che lamenta il ritorno alla contrapposizione sociale: elite e popolo. Che rozzezza, che mancanza di gusto, di stile.
Ulteriore considerazione: non solo ogni ragionamento sulla "sovranità alimentare" viene sterilizzato quando essa entra in conflitto con l'immigrazionismo ma anche con l'ambientalismo urbano che, con i contadini ci azzecca talmente tanto che Vandana Shiva, una che non si fa mettere nel sacco da Slow Food (in India lo tiene fuori), ha sentenziato: L'unico ecologismo è quello contadino. Le dichiarazioni di adesione al gretismo, al parchismo, al lupismo sono una "parola d'ordine" che viene richiesta per avere accesso agli ambienti progressisti e non subire pericolosi stigma di abominio. Ma se le superfici agricole si sono ridotte in modo drammatico è responsabilità anche dell'ambientalismo urbano. Se la sovranità alimentare è sempre più compromessa in Italia i verdi hanno una parte non da poco. Con le loro concezioni distorte di natura come qualcosa di contrapposto e di non comprensivo dell'umanità. Posizioni ideologiche che servono a contrappore non già alla natura minacciata un sistema sociale basato sulla ricerca del profitto e della crescita senza limiti, ma l'uomo in quanto specie. Il risultato: nuove occasioni di profitto e crescita imponendo soluzioni green, più o meno false, che spostano la ricchezza verso chi è già ricco e tolgono reddito, protezione sociale, la stessa vita (nella prospettiva malthusiana e eugenista) a chi è "alla base".




Come abbiamo perso la sovranità alimentare


Importiamo  tutto (le mascherine - tanto per uscire dall'alimentare -  facciamole produrre in Romania, tanto è una produzione a basso valore), espandiamo le "aree protette", abbandoniamo i campi, i prati, i pascoli alle boscaglie, lasciamo che la fauna selvatica - carnivori compresi - proliferino.  Nel frattempo il patto scellerato tra le due morse della tenaglia che stritola il mondo rurale determina la continua perdita di superfici agricole, del territorio edule, che produce cibo: da una parte l'industrialismo tecnocratico (con la sua appendice agrindustriale), lo sviluppismo, dall'altra l'animal-ambientalismo. Unite nell'avversità per il ruralismo, queste due componenti della cultura e del potere urbano agiscono di conserva: ai "verdi" viene concesso di estendere le aree protette (qualcuno vorrebbe estendere i parchi a più di metà del pianeta qui), allo sviluppismo speculativo e distruttivo non viene messo freno nella sua corsa al consumo di suolo.




Non va peraltro pensato che nei parchi si attui una "protezione della natura" sulla base di puri e immacolati principi. I parchi, nel mondo, sono la copertura per il business, dell'intreccio tra le multinazionali dell'ambientalismo istituzionalizzato e le multinazionali tout court. Coprono, con le foglie di fico delle "indulgenze ecologiche a pagamento"  l'estrazione di risorse (legname, minerali) il turismo insostenibile. Tutto benedetto dagli ambientalisti divenuti la nuova chiesa (cui non a caso si accoda Bergoglio).  Così i parchi diventano la base materiale e virtuale di traffici di strumenti finanziari basati su crediti di carbonio, titoli di biodiversità e altre espressioni "creative" del capitalismo finanziario. Un effetto collaterale è che si richiede l'espulsione, anche violenta, dei popoli indigeni e tradizionali che potrebbero accampare diritti (ne abbiamo parlato qui ).

 

Per non deludere nessuno è bene chiarire che la destra sviluppista, affarista ha responsabilità non da meno. Fuori dei parchi (insisto sul trade off tra verdi e cementificatori)  lo spreco di suolo continua: lo alimentano centri commerciali che poi si dimostrano in esubero, la piaga dei centri logistici (passa una moda bisogna inventarne un altra, l'importante è cementificare), autostrade inutili, speculazioni come quella del biogas che , nella provincia più interessata al problema, una provincia caratterizzata dalla produzione di latte (di cui importiamo la metà del fabbisogno dall'estero), hanno sottratto il 25% della superficie coltivata. Si è sottratta superficie agricola per alimentare ... una pura speculazione. Non ce la prendiamo solo con gli ambientalisti, che esultano per i campi occupati da boschi, in obbedienza all'ortodossia forestalista (la prima forma di ambientalismo, di stato, tecnocratico, autoritario e anticontadino; ne abbiamo parlato qui). Non si può non osservare, però, a conferma del "patto scellerato" che i verdi hanno siglato con il capitalismo neoliberale, che la loro protesta contro il consumo di suolo è molto soft e che sono stati loro stessi a giustificare quelle speculazioni come il fotovoltaico a terra (famoso progetto di Cutrofiano in Puglia di Legambiente) e  il biogas, pronti a fare da poliziotti e pompieri contro le lotte spontanee (schedate e marchiate con il marchio di infamia di Nimby)(vedi
qui).
Il risultato delle politiche di spreco del suolo (quello fertile di pianura) il disincentivo, quando non l'attivo contrasto alla piccola azienda (penalizzata da scelte europee e nazionali), il disinteresse per agricoltura di montagna, l'azione della burocrazia forestale, sanitaria (Asl), ambientalista (Parchi), hanno prodotto effetti cumulativi con il risultato della perdita di milioni di ettari. La perdita più drammatica si è osservata tra il 1970 e il 2000 (con un'accelerazione negli anni '90). Poi c'è stata una frenata (le terre meno facilmente oggetto di coltura meccanizzata erano già state perse)




Nonostante gli aumenti delle rese la perdita di notevoli superfici coltivate ha peggiorato, in modo accentuato l'autosufficenza delle produzioni agricole italiane. Il caso più clamoroso è quello del mais, per il quale sino all'inizio dello scorso decennio eravamo autosufficenti. Il crollo della produzione è stato legato ai prezzi internazionali che risentono della nuova variabile no food (bioplastiche ma, soprattutto, bioetanolo). La riduzione del favore per questa produzione, che non riduce di nulla l'effetto serra, ha portato alla chiusura di impianti negli Usa e si è riflessa in un calo di prezzo. Sono le incognite di mercati globali esposti a molti più fattori di rischio: la domande dei paesi "emergenti", gli usi alternativi a quelli alimentari.

Autosufficienza italiana per il grano e il mais (medie mobili triennali)


I principali produttori di mais sono Usa e Cina che sono anche i principali consumatori. Ucraina e Argentina esportano l'83% del mais. Il grano è ancora destinato all'alimentazione in toto ed è una commodities meno condizionata dai principali paesi produttori, consumatori ed esportatori. Russia, Usa e Canada  - grazie al riscaldamento globale - sono i principali esportatori anche se in Italia il massiccio import proviene da
Francia, Germania, Austria, Ungheria, Stati Uniti e Canada. Se la Russia, però taglia le esportazioni  ci sarà una tensione sui mercati. Quando nel 2010 la Russia bloccò l'export, vi fu scarsità e aumento dei prezzi in alcuni paesi che contribuirono alle rivolte delle "primavere arabe". Intanto Vietnam e Thailandia hanno bloccato l'export di riso. Una circostanza che non ci avrebbe neppure sfiorato anni fa.



Quanto agli altri cereali persino il riso (produzione 1,4 milioni di tonnellate), che era sempre eccedentario (nel 1987 il grado di approvvigionamento era pari al 234%) è sceso al 91% di approvvigionamento  causa del raddoppio delle importazioni dal Vietnam e dalla Cambogia nel 2019 (a causa della rimozione dei dazi Ue, nonostante lo sfruttamento del lavoro minorile in quei paesi). L'orzo, nel 2018, con una produzione di 1 milione di t, assicurava un approvvigionamento leggermente in crescita (64%). Quanto alla soia, base, come il mais dell'alimentazione zootecnica
,  la farina  è un ingrediente fondamentale nella formulazione dei mangimi composti, grazie al suo elevato contenuto proteico (oltre il 40 %), al contenuto di aminoacidi e alla sua disponibilità per tutto l'anno. La Ue dipende al 95% delle importazioni  (Usa, Sudamerica). La produzione di carne di maiale, avicola, le uova, il latte dipendono dalla farina di soia (tranne che, ovviamente nei sistemi estensivi che praticano il pascolo o in aziende che producono leguminose foraggere. Il 90% della sia per uso zootecnico è Ogm (0% in Svezia e in Ungheria, 50% in Germania). L'autosufficienza italiana per la soia è di circa il 40%.

Non intralciare l'auto produzione di cibo e intrecciare nuove relazioni tra contadini e consumatori "ruralmente consapevoli"

Indipendentemente da quello che avverrà nel medio termine, oggi si profilano rischi più immediati, specie se la fase emergenziale del contagio non rientra. Abbiamo visto come la solidarietà inter-europea è andata in pezzi. Blocchi di merci alle frontiere, sequestri, sospensione del trattato di Shenghen.  I trasporti via terra e via marittima sono ostacolati dai controlli e dalle quarantene. Le navi che hanno fatto scalo in Italia rischiano di non poter attraccare altrove a caricare (lo denunciano gli armatori italiani). Ma anche all'interno abbiamo assistito al balletto dei decreti e delle deroghe. Era gravissimo che non si potessero acquistare sementi in questo periodo. Fanno bene i previdenti a piantare patate e altri ortaggi che possono offrire scorte facilmente conservabili per gli incerti mesi che abbiamo innanzi. Ma se la questione sementi e florovivaismo è stata superata non ha trovato soluzione qualla degli "hobbisti", una qualifica che non corrisponde affatto a larga parte di una realtà di microproduzione per nulla insignificante.
La penalizzazione degli "hobbisti" (categoria che comprende la ricca signora con l'hobby dell'orto - molto meglio che altri frivoli, ben venga - e la famiglia rurale che ha bisogno di autoprodurre) è uno di quei finti obiettivi che la Coldiretti e le altre "grosse" hanno utilizzato per far credere ai loro di averli tutelati. Come se togliere piccoli incentivi al pensionato che ancora sfalcia regolarmente a mano o con la Bcs, lederebbe i sacrosanti diritti di imprenditori che,  intrappolati in una logica produttivista eterodiretta, i prati in pendenza li lasciano inselvatichire. Intorno alla vicenda dei piccoli contadini (che spesso restano fuori dall'ufficialità per non sottostare ad angherie burocratiche, sproporzionate al loro volume di produzione) si sono moltiplicate le interpretazioni.




Si gioca sulla "autocertificazione", contando sulla comprensione per la dichiarazione di attività di coltivazione "indifferibili". Ma perché rischiare un verbale salato, perché affifarsi alla cabala? Solo poche organizzazioni agricole hanno affrontato il problema (per corporativismo). Gli hobbisti contribuiscono all'autosufficienza di famiglie e vicinato, rappresentano un modello di economia informale e circolare che andrebbe premiato e non penalizzato. Sorge il dubbio, anzi, è molto di più di un dubbio, che la politica approfitti del contagio per "sradicare" le sane tradizioni di tante famiglie rurali (ma non solo) che hanno ripreso a coltivarse con le loro mani alcuni prodotti. Per la politica è preferibile far dipendere tutti dalle catene della grande distribuzione, dalle reti della logistica (con i suoi "centri" che divorano superfici agricole), dall'agroindustria e dalle multinazionali.




 Il virus aiuta a sanzionare il "sovversivismo" di chi difende la sovranità alimentare. I problemi non finiscono qui. Ci sono prodotti che si accumulano, altri che vengono gettati, altri che mancano. In compenso fioriscono iniziative di spesa in comune, di consegne a domicilio, di spesa a distanza contadina, che non vanno disperse una volta cessata l'emergenza.  Per alcune categorie non è facile, però affronate l'emergenza. La Pasqua si avvicina. Agnelli e capretti hanno un mercato fortemente stagionale (sarebbe bene ampliare il periodo di consumo valorizzando il prodotto locale). Cosa succederà? E il latte che molti piccoli allevatori trasformano direttamente in formaggi freschi? Si possono produrre stagionati, ma dove metterli. Cosa possiamo fare per darci una mano tra consumatori e contadini adesso nell'emergenza e, domani, a emergenza finita? Potete dire la vostra. Intanto ricordo che le bacheche ruralpine, per quanto possono, sono a disposizione di tutti. Qui























contatti: Whatsapp  3282162812    redazione@ruralpini.it

 

 

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