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Articoli per argomenti
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I ribelli del bitto ora in
un libro
(10.09.11)
Testi:
Michele Corti
Titolo: I
ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa
eversiva
Collana: asSaggi
Prezzo: 14,50 euro - prezzo soci Slow
Food 11,50 euro
Pagine: 192
Formato: 13x21
La presentazione avverrà in
anteprima
il giorno 17 settembre alle ore 17 presso il Caffè letterario e
musicale nel cortile di Slow Food editore, durante la manifestazione
Cheese. L'indirizzo è via della Mendicità Istruita 45, BRA (Cn)
La ribellione anima
un’intera
comunità che si riconosce attorno a una specificità negata in nome
della standardizzazione
Prefazione di Piero Sardo a "I ribelli del bitto"
Perché lo fanno? Perché questo gruppo di malgari
valtellinesi da
anni si rifiuta di assecondare le indicazioni delle istituzioni –
consorzi, assessorati, sindaci, ministero – e rivendica
orgogliosamente la sua diversità? Sarà questa la domanda che vi
porrete quando avrete letto le pagine di questo libro, quando avrete
seguito capitolo per capitolo gli eventi narrati da Michele Corti, le
tappe di un decennale conflitto che è stato sintetizzato nel titolo
I ribelli del bitto. Per lo meno è la domanda che io mi sono posto,
non certo per dubitare della straordinaria valenza politica di questa
battaglia, alla quale non posso che applaudire, ma per tentare di
capire le opzioni psicologiche in gioco, le ragioni sociali di questa
gente e di queste comunità.
Va detto che nella vicenda non sono neutrale: il
rapporto che lega
Slow Food ai ribelli del bitto è di antica data e di grande
condivisione. Ma molti, moltissimi lettori meno coinvolti, invece, se
la porranno la domanda, non tanto per capire, ma per dar sfogo,
magari inconsciamente, alla solita italianissima dietrologia,
all’immancabile «cosa c’è sotto?».
In questi anni abbiamo assistito a gesti di
reazione assai più
eclatanti di questa ribellione: operai su torri e ciminiere, digiuni
devastanti, dissidenti che hanno sacrificato la vita per un’idea,
giovani che sfidavano la repressione più violenta per manifestare il
loro dissenso. Ma in questi casi i termini della questione erano
chiari, era in gioco il lavoro, la libertà di espressione, la
dignità sociale e politica: si poteva essere d’accordo o no con le
proteste, ma non vi era dubbio sulle ragioni delle stesse.
Nella vicenda del bitto e dei suoi protagonisti
le ragioni del
conflitto sono chiare e il libro ben le sottolinea, ma la posta in
gioco non pare così evidente. Loro continuerebbero comunque a fare i
malgari, a produrre bitto come meglio credono, a venderlo alla sempre
più folta schiera di appassionati e conoscitori, anche rientrando
nei ranghi, anche accettando le regole che altri hanno dettato per
questo antico formaggio. E infatti assessori e funzionari, ogni volta
che si vedono respinte le proposte di mediazione, scuotono il capo un
poco increduli: «cosa c’è sotto?».
Provo a spiegarla raccontandovi di mia nonna. Lo
so, raccontare della
famiglia è uno snodo usurato e retorico, ma l’esempio secondo me è
calzante e aiuta a comprendere.
Mia nonna Nina era una cuoca straordinaria,
cucinava un mix di piatti
liguri e monferrini che non ho mai più ritrovato a tale livello di
perfezione. Verdure ripiene, zuppe di legumi, torte verdi salate,
agnolotti quadrati, gnocchi, coniglio al barbera, cima alla genovese,
pollo alla cacciatora, subric, peperoni in
salsa, batsoà e così via, per un ricettario magari
non amplissimo, ma irresistibile. Tutti i giorni. Le materie prime
erano direttamente sotto il suo controllo: viveva in campagna e
allevava polli, faraone e conigli, coltivava l’orto, metteva via
personalmente frutta, verdure, conserve di pomodoro. E decapitava
oche, scuoiava conigli, tirava il collo a capponi con la pacata
indifferenza tipica dei contadini e del loro duro, a volte crudele,
rapporto con gli animali, anche se lei non era di famiglia contadina.
Ma per cucinare bene le carni, diceva, gli animali bisogna ucciderli
di persona, senza farli soffrire, senza trasportarli, senza
spaventarli: così si capisce bene quanto vale quella carne e come
bisogna cuocerla. Tant’è vero che a casa nostra si mangiava
raramente carne bovina: perché arrivava da altre mani. E per far
questo tutte le sante mattine era in piedi alle sei, estate e
inverno, che dovesse cucinare per sé e suo marito o per venti,
quanti eravamo nelle feste del paese fra figli e nipoti. Alle sei e
mezza le pignatte erano sul fuoco e così per tutta la mattina era un
andare e venire tra orto, pollaio e cucina. Lo ha fatto sino a
ottant’anni, prescindendo da una ragione precisa: lo ha fatto
perché era il suo modo di concepire la cura della casa, di preparare
il cibo, la sua volontà di non cedere al supermercato, al pelato in
scatola, ai filetti di pollo, all’insalata in sacchetto. Non era
una ribellione, era un modo di essere, non aveva obiettivi da
raggiungere. A volte eravamo noi, i parenti, a dirle: «rilassati,
non è il caso, basta stare un poco assieme». Potreste addirittura
giudicarla una forma di pacata follia, e forse lo era, ma per lei era
nulla di più e nulla di meno di quel che andava fatto. E solo quando
non abbiamo più potuto godere di quella cucina ci siamo resi conto
di quanto avevamo perso. Mentre lei c’era e cucinava, a noi pareva
la normalità avere quei piatti e a lei pareva normale fare come
faceva.
Questa mia esperienza personale si lega alla
vicenda del bitto
storico perché l’unica spiegazione che può rendere conto dei
comportamenti di Nina e dei ribelli si basa su motivazioni non
economiche, ma direi – senza paura di esagerare – etiche. Il
lavoro dei malgari, di questi malgari – tra i più duri per fatica
fisica, impegno, tempo e competenze necessarie che oggi sia dato
conoscere – sopravvive per ragioni essenzialmente culturali ed
etiche. Certo, la remunerazione conta e ci mancherebbe: il bitto dei
ribelli, grazie anche al lavoro di Paolo Ciapparelli e
dell’Associazione, vale più del doppio del formaggio del
Consorzio, e questo è importante per rinsaldare motivazioni e
dettare strategie. Ma, come dicevo prima, potrebbero continuare a
produrlo anche se fossero all’interno del Consorzio, anche se
accettassero di sottostare a un disciplinare che non condividono.
Anzi, potrebbero usufruire delle elargizioni che molti promettono, a
patto che cessi il conflitto.
Non accettano di essere assimilati agli
“accomodanti” –
chiamiamoli così tanto per capirci – perché sanno benissimo che
così facendo alla fine il loro destino sarebbe segnato. Ma gari non
loro, ma chi verrà dopo di loro comincerà a chiedersi il perché di
tanta fatica, le ragioni di tanta intransigenza, e comincerà a
cedere, a usare fermenti e mangimi, ad abbassare la quota del latte
caprino, ad abbandonare la caseificazione nei calécc: insomma a
rinunciare piano piano alla monticazione tradizionale e al bitto
storico.
Per evitare proprio questo probabilissimo
cedimento, hanno deciso, da
anni ormai, di fare di questa loro opzione una scelta di vita, un
filo che lega un’intera comunità alla sua storia, al suo habitat,
al suo futuro. Non è una pura e semplice questione di identità da
preservare: troppe nefandezze vengono commesse nel mondo in nome
dell’identità, del localismo cieco, del particolarismo. Basterà
leggersi lo splendido libretto di Amin Maaluf, L’identità, per
comprendere a fondo quanti pericoli si celino dietro questo concetto,
che pure è sacrosanto rivendicare. Non vi diranno mai «noi siamo i
puri, gli altri hanno venduto l’anima». Sanno benissimo che anche
gli altri, gli accomodanti, vanno in alpeggio, faticano, credono
nella tradizione, producono buoni formaggi: ma hanno fatto un passo
indietro. Vi diranno: «noi facciamo così perché questo a noi pare
il modo corretto di fare, perché questo è quanto facevano i nostri
padri e i nostri nonni su queste montagne».
Ora, senza bitto storico si può certamente
vivere, se ne può fare a
meno. Come si può fare a meno di Mozart, delle chiese romaniche, di
Thomas Mann: ma la deriva che innesca questo fare a meno può avere
conseguenze catastrofiche, perdonatemi l’enfasi, per la nostra
umanità, per la nostra civiltà. Se vi pare eccessivo, sicuramente
avrà effetti deleteri per l’ambiente alpino e per l’eccellenza
casearia. Vi pare poco? Mi auguro di no. Per Slow Food questa è una
grande lezione, una fonte di ispirazione e di incoraggiamento, alla
quale non siamo disposti a rinunciare senza lottare con i ribelli.
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