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Autori:
Antonio Carminati e Michele Corti
Editore: Centro studi valle Imagna
Anno
di edizione: 2018
Collana:
Gente e terra di Imagna
Prezzo: 20,00 euro
Pagine: 648
Formato: 17x24 cm
Carta: Munchen
da 100 grammi
Confezione:
brossura cucita con filo refe
Stampa:
monocromatica
Sovracoperta a
colori con alette
SOMMARIO
Una
terra in grado di dare grandissime soddisfazioni di Luca Mocarelli
La
montagna è servita di
Silvia Tropea Montagnosi
Gente
alpina
Retroterra della
ricerca - Incontri con gli
artigiani del cibo di territorio - La cucina delle Alpi nel contesto
della montagna lombarda - D i m m i cosa produci e ti dirò cosa mangi -
Un viaggio per immagini e racconti nel patrimonio immateriale ed
esperienziale di alcuni protagonisti della cultura alimentare sulla
montagna lombarda - Gente alpina
Avvertenze -
Abbreviazioni
PARTE
PRIMA
Prodotti del
territorio e base alimentare delle p o p
o l a z i o n i della montagna lombarda di Michele Corti
Il
percorso di
definizione del modello alimentare
tradizionale della montagna lombarda (e il
senso di una ricostruzione)
La castagna - Il mais -
Il grano saraceno - Il pane (frumento e segale)
- Cereali minori (la base delle minestre) - La rapa - La patata - Vite
(e vino) - Altri alimenti vegetali - La vacca - Il maiale - La pecora -
La capra - Altri alimenti animali
PARTE
SECONDA
Racconti e testimonianze locali di Antonio Carminati
Valle Camonica
(Brescia)
Cultura
del cibo, della terra e del lavoro in montagna di Giancarlo
Maculotti
Val Cavargna
(Como)
L'arte
e il coraggio di saper realizzare molto dal poco di
Gloria Mancassola
Val Chiavenna
(Sondrio )
Cibo
e territorio, ma con creatività e armonia di pensieri e
azioni di Mario Pighetti
Valtellina (Sondrio)
Insegnante
e contadina per amore del territorio di Giancarla
Maestroni
Val d 'Esino (Lecco)
Per
un "rinascimento" rurale dell'agricoltura di montagna di
Emiliano Invernizzi
Val Gandino
(Bergamo)
Alla
ricerca di un sistema integrato di valori e opportunità
di
Giovanni Savoldelli
Val Veddasca
(Varese)
Una
scelta di libertà all'ombra della montagna di Albino Gatta
altri libri
(19.02.15)
Il valore sociale e culturale del cibo locale trova una
definizione
"Cibo e identità
locale"
ricostruisce il "modello" sul quale si basano alcuni casi dove la
difesa e la valorizzazione del patrimonio dei sistemi agroalimentari
locali tradizionali innesca processi
di rigenerazione comunitaria. Il volume tratta sei esperienze lombarde
che vengono
messe confronto attraverso una ricerca partecipata. Presentazione di
A.Magnaghi, fondatore della scuola
territorialista" leggi
tutto
(18.08.14)
La
civiltà dei
bergamini. Un'eredità misconosciuta
I montanari, i
'trogloditi', ignoranti,
arcaici,
superstiziosi, patriarcali, montanari hanno, in larga misura,
creato le attuali strutture agrozootecniche e agroalimentari della
Lombardia. Il libro solleva la cortina che oscurava un capitolo della
storia sociale lombarda e contribuisce alla
riscoperta di una ruralità orgogliosa che contraddice gli schemi
storici e ideologici della cultura urbano-industriale dominante leggi
tutto
Articoli per argomenti
|
La dieta alpina ora in
un libro
(13.05.18)
La dieta salutare che rinasce nel
campo e
sul pascolo, occasione di rinascita agricola per la salute del corpo e
delle comunità
di Michele Corti
Il
volume firmato con l'amico Antonio Carminati
(direttore del Centro studi valle Imagna) di cui - qui a fianco - si
riportano caratteristiche e contenuto, è costituito da due
parti che avrebbero potuto diventare due libri a sè. Ma la genesi
comune del progetto (e lo spirito che ha ci ha animato) hanno fatto si
che due approcci differenti allo stesso tema: il primo
storico-etnografico, il secondo improntato all'attualità (e al suo
approfondimento attraverso storie di vita e di territorio), abbiamo
prodotto un risultato unitario che ci ha riempito di soddisfazione e
che speriamo venga apprezzato nella sua originalità.
Un filo che non si
è spezzato
Le testimonianze raccolte nella seconda parte
dell'opera, anche se non provenienti da persone nate tutte dopo
l'ultima guerra, mettono in evidenza il sussistere di una memoria
ancora viva. Al centro di importanti esperienze di rilancio
dell'agricoltura di montagna (in parte già oggetto della ricerca alla
base dell'opera precedente Cibo
e identità locale), i sette protagonisti
della seconda parte del volume rappresentano la prova di una continuità
- solo in parte spezzata- tra una storia di lungo periodo e i
movimenti contemporanei a carattere neorurale e
neocontadino. Tra la ricognizione storico-etnografica presentata nella
prima parte (che si prefissava di illustrare il sistema agroalimentare
proprio della montagna alpina lombarda tra inizio Ottocento e gli anni
Sessanta-Settanta del Novecento), e i racconti dei testimoni si è registrata una buona
sovrapposizione.
Questa constatazione si accompagna anche con la
verifica dei forti limiti di una ricostruzione basata solo su fonti
orali o anche su fonti scritte di carattere biografico (individuale,
famigliare, comunitario). Difficilmente le testimonianze restituiscono
una descrizione attendibile del passato che va al di là della realtà
vissuta dalla generazione precedente. Così si finisce per non rendersi
conto che il maiale, oggetto di quello che si ritiene un "rito
contadino" per eccelenza (la maza),
poteva essere allevato solo dai contadini più ricchi mentre gli altri o
vi dovevano rinunciare (perché gli scarti che i ricchi destinavano al
suino li consumava la famiglia) o dovevano "consorziarsi". Se di
maiali ve ne erano pochi, di ovicaprini ve ne erano tanti. La capra era
il "caposaldo della cà", tanto più preziosa per il povero contadino
quanto più osteggiata dallo stato e dalla élite economia del tempo. Le
pecore erano preziosissime per la lana
(costosissima), ma erano anche molto spesso munte, dopo lo svezzamento
dell'agnello. La poca carne era carne secca o salata (ovicaprini e
bovini vittime di incidenti e malattie). Grandi furono le differenze
tra i primi dell'Ottocento (quando le
condizioni del contadino erano ancora discrete) e gli ultimi decenni
del secolo, ma anche tra questo periodo triste e quello tra le due
guerre che viene ricordato come epoca di scarsità. Retrospettivamente
si è scambiata una vita parca con la "miseria". Ma quella vera, la
fame, la dieta ipocalorica, ipoproteica, ipovitaminica, nel Novecento
divenne, per fortuna, un ricordo.
Con
queste precisazioni è possibile sostenere l'esistenza di un modello di
approvvigionamento alimentare e di consumo
tradizionale? L'opera tende a fornire una risposta positiva. Quello che
può essere - senza tema di caduta in essenzialismi - definito il
"modello agroalimentare alpino tradizionale" emerge tra due grandi
trasformazioni: una più graduale ma comunque dalle profonde
conseguenze, l'altra repentina, drammatica. Ci riferiamo alla
"rivoluzione colombiana" e alla "grande trasformazione" che ha segnato
la "fine della civiltà contadina". Tra queste "cesure" è esistito un
periodo di trasformazioni graduali, compatibili con uno schema di
fondo. Uno schema che differenzia la montagna dalla pianura, dove
l'alimentazione dei contadini (con esclusione dei grossi mezzadri) era
molto più povera.
Non si può non precisare, però, che, anche nell'ambito della montagna,
vi erano differenziazioni. La disponibilità di ampie distese di pascoli
favoriva le comunità delle alte valli che potevano allevare più
bestiame, ma spesso anche l'abbondanza di castagneti creava le
condizioni per un equilibrio alimentare meno precario, grazie alla
possibilità di allevare maiali con gli scarti. Pur in un contesto di
autarchia sostanziale non mancavano degli scambi tra le regioni del
castagno e quelle dei pascoli, tra chi produceva vino e chi (alle quote
superiori) le patate. Una certa articolazione del modello dipendeva
anche dalla presenza (molto limitata sino alla seconda metà
dell'Ortrocento) di collegamenti stradali e dalla collocazione
lungo assi commerciali (una circostanza che spiega la differenza tra
Valchiavenna e Valtellina).
Una "tradizione" che
è definita dal cambiamento graduale all'interno di un modello di base
La
prima delle "cesure" storiche dalle quali possiamo partire per definire
l'ambito temporale di un "modello tradizionale" è caratterizzata
da due importanti elementi di novità:
l'introduzione del mais e quella della patata. Caratterizzati, sul
piano sociale e culturale, da aspetti tanto diversi tra loro da
apparire antitetici (la patata è stata rifiutata a lungo quale "cibo da
animali" imposto dai "signori"). Nel contesto delle pratiche agrarie e
alimentari
contadine, mais e patata hanno comunque prodotto trasformazioni
radicali del modello alimentare che finirono per convergere e che si
sono tradotte nella riduzione
dell'estensione della cerealicoltura e nell'aumento dei prati e
dell'allevamento bovino.
Toccato il fondo della miseria a fine Ottocento
(con la
pellagra, l'emigrazione oltre-oceano, le odiose tasse sui consumi
contadini imposte dall'oligarchia liberale), vi fu poi un graduale
miglioramento accompagnato dalla disponibilità di redditi
extra-agricoli, dalla riduzione dei prezzi delle derrate in forza del
miglioramento dei trasporti e delle importazioni di alcuni generi
alimentari da altre regioni (così nel caso del vino, dopo che la crisi
della fillossera aveva determinato la fine della viticoltura in alcune
delle zone di montagna) e persino da altri continenti. Il cambiamento
fu però graduale, segnato dall'aumento della presenza delle botteghe
anche nei paesi di montagna. Gradualmente la produzione di cereali e la
panificazione casalinga furono abbandonate (non dovunque, però), le
selve castanili furono abbandonate, le massaie ebbero più tempo per
l'orto e ciò contribuì alla diversificazione della dieta
(rispetto ad un panorama precedente di soli cavoli, rape e fagioli).
Va precisato che le determinanti di tipo sociale
del modello
alimentare si sono fatte più importanti mano a mano che le produzioni
locali lasciavano il posto a beni alimentari importati (anche solo
dalla pianura, come nel caso del riso che ha soppiantato l'orzo nelle
minestre). In precedenza,
quando le botteghe nonb esistevano o erano molto limitate, i ricchi
potevano permettersi di consumare di più, ma senza grandi differenza di
"paniere". Solo la carne (selvaggina e vitello) e qualche prodotto di
raccolta (lumache, piccoli frutti, rane, uccelletti) o della pesca
marcava la differenziazione sociale in contesti autarchici. Il ricco
poteva pagare il povero per procurargli alimenti pregiati, per quanto
locali.
Il nesso
strettissimo tra politica e cibo
Giova precisare che le trasformazioni che hanno
accompagnato l'introduzione delle piante di origine americana non
sarebbero avvenute se non fossero state in qualche modo funzionali a
processi contemporanei di natura economica, sociale e politica. Oggi
appare scontato che il cibo rappresenti un fatto politico (oltre che
sociale e culturale), pensiamo alla Pac, alle multinazionali, alle
lobby,ma non sempre siamo consapevoli che così era anche in passato. Il
lettore quindi forse si stupirà leggendo come le vicende della patata
(e ancor più delle capre) siano state caratterizzate (nell'Ottocento ma
non solo) da elementi politici, istituzionali, ideologici.
Parlare di modelli alimentari non può, più in
generale, non rimandare alla realtà agricola, sociale e politica.
Oggi, in un mondo di multinazionali, di globalizzazione, ma anche ieri
in un mondo di autoconsumo, di agricoltura di sussistenza. Un modello
basato sulla capra, sulla castagna, sull'orticoltura promiscua, sui
cereali "poveri" garantiva - integrato dal lavoro extra-agricolo e
dall'emigrazione - l'indipendenza alimentare anche delle famiglie più
povere. L'imposizione da parte delle autorità politiche (e della "mano
invisibile" del mercato capitalistico) di nuovi modellitendenti a una
maggiore specializzazione e inserimento del mercato causò una forte
pauperizzazione ed emigrazione
in linea con le esigenze di trasformazione dei contadini in manodopera
a basso costo per le nascenti industrie.
Il mais che inizialmente (già nel Settecento) venne
accolto come uno strumento di indipendenza contadina (e di elusione di
diritti signorili e decime), pur espandendosi sin quasi alla fine
dell'Ottocento, pur considerato quale prezioso alleato contro la fame,
fu elemento di una semplificazione e impoverimento della dieta, con il
corollario - nei casi più gravi - del flagello della pellagra.
La grande
trasformazione
La "grande trasformazione", quella che portò nelle
botteghe di montagna i prodotti alimentari confezionati e finì per far
cessare ogni attività agricola tranne l'allevamento del bestiame
e la viticoltura (in Valtellina), fu però quella degli anni
Sessanta-Settanta.
Si chiudeva un ciclo che era iniziato nei primi anni dell'Ottocento con
l'esplosione della maiscoltura e l'affermazione (complice la carestia
del 1816) della patata (ma anche con una nuova presenza oppressiva
degli apparati di comando e controllo statali favoriti dal clima
politico napoleonico).
Per un secolo e mezzo, tra l'assestamento della
"rivoluzione colombiana" (mais, patata, ma anche zucche e fagioli) e il
boom economico (la tv con Carosello e il consumismo che presentava i
prodotti alimentari industriali quali status da raggiungere per
confermare il riscatto dalla miseria), i cambiamentio sono stati
graduali, poi si è verificato un terremoto, che ha lasciato non poche
macerie.
La dieta alpina
contadina: una riabilitazione a tutto tondo
Se
oggi parliamo di Dieta alpina è perché i nodi di
un modello agroindustriale e alimentare sono venuti al pettine. Il cibo
contadino, emblema di miseria, è diventato fattore di status. Ma questa
volta di status elevato. Non è solo "moda" e snobismo: i cereali
integrali, il recupero dei cereali "inferiori", del pane nero che, in
opposizione a quello bianco, rappresentava un marcatore di condizione
sociale, sono stati sospinti dalle acquisizioni della dietetica
("stranamente" funzionale a sostenere il mercato con abili
ribaltamenti). I formaggi di capra "cibo da miserabili che non avevano
i soldi per comprare il sale" sono avidemante ricercati. Il grano
saraceno, la "fraina", cibo di poveri montanari che non possono
coltivare il nobile frumento, oggi è considerato una alimento nobile,
con proteine che valgono più della carne e del latte, con una
"farmacia" di composti protettivi di vario genere. Si potrebbe
continuare con la superiorità riconosciuta della segale, del miglio,
dell'orzo (beta-glucani). Ci preme sottolineare anche come, dopo la
riabilitazione del formaggio (specie quello prodotto con foraggi
naturali e, in particolare, il pascolo), la dietetica abbia riabilitato
anche il burro. Inutile sottolineare, a tale proposito, che gli autori
ottocenteschi non mancavano di sottolineare la miglior salute delle
popolazioni che potevano arricchire la dieta di latticini.
Guardare al passato per operare consapevolmente nel presente
La ripresa della viticoltura in ambiti territoriali dove la crisi filosserica l'aveva cancellata,
la ripresa - sia pure ancora limitata - della cerealicoltura e della
pataticoltura, il recupero di selve castanili, rappresentano
altrettanti stimoli alla conoscenza di pratiche produttive, di
trasformazione e di consumodel passato . Le soluzioni escogitate un
tempo dai nostri contadini di montagna possono, adattate alla
disponibilità di nuovi materiali e tecnologie, fornirci indicazioni
utili anche per il presente. La conoscenza delle tecniche tradizionali
di coltivazione, ma anche di trasformazione e preparazione alimentare,
ci consente di apprezzare le specifiche caratteristiche e pregi di
varietà locali, di andare oltre il culto di una "biodiversità" fine a
sè stessa per far emergere il valore a tutto tondo delle varietà, delle
pratiche dei saperi contestuali locali.
Il percorso intrapreso nella realizzazione della
"Dieta alpina" si consiste, in definitiva, nel passaggio dalla "cucina
della nonna", da una "tipicità" troppo spesso declinata ad uso
turistico, alla consapevolezza che non è la "ricetta" che definisce la
cucina radicata nel territorio mala connessione con una pratica agricola viva.
Le immagini che
illustrano l'articolo sono tratte dal volume. Sono per lo più del
fotografo camuno Magnolini e sono state rese disponibili dal Museo
camuni della fotografia storica che si ringrazia per la preziosa
collaborazione.
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