Ruralpini  resistenza rurale

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cultura ruralpina (in valle Imagna)

Linguaggio e cultura del fieno: come cambiano


Epoca di sfalci in montagna. C'è chi utilizza le attrezzature più moderne, chi va ancora all'antica e chi utilizza soluzioni "miste", adatte alle dimensioni dei fondi e alla struttura aziendale. In un contesto lavorativo in cui è ancora molto usata la lingua dei padri, anche il lessico si evolve. Gli antichi attrezzi per il trasporto sulla persona (tipici dell'area alpina) sono hanno nomi intraducibili in italiano. Ma oggi, utilizzando la lingua locale, si pone il problema (opposto) di tradurre vocaboli che nascono in italiano (o in inglese). L'evoluzione linguistica, tenendo il passo con la trasformazione tecnologica, dimostra che la lingua ancestrale è viva. Un fatto importante perché dove c'è la capacità di selezionare, assimilare, adattare l'innovazione, in una parola capacità di "tradurla" nella realtà locale (anche nelle sue dimensioni immateriali e simboliche importantissi me quanto i dati socio-economici), c'è ancora una cultura agricola, non solo un'attività agricola che va avanti per inerzia. Quindi c'è un futuro.


di Antonio Carminati
 

(09.06.20) Scrivere non è solo un utile esercizio letterario. In effetti basterebbe il desiderio della bella scrittura per giustificare il leggero peso della penna impugnata nella mano mentre, sguainata come fosse una spada, si agita su questo foglio bianco, tracciando segni e linee di inchiostro. La mia penna non è un fioretto, non nasce nelle accademie dove si insegnano le lettere e come abbellirle, anche se riconosco il valore dei maestri, ma la paragono piuttosto all’arma di un cavaliere errante, un po’ alla Don Chisciotte, durante il suo viaggio alla scoperta della conoscenza. Un po’ visionario, un po’ contadino. Con i piedi per terra, ma con slanci - lancia in resta – verso personali interpretazioni del mondo circostante. Parole e interpretazioni a volte strane e insolite, al punto forse da suscitare l’ilarità o la compassione di coloro che, pazientemente, leggono queste divagazioni e seguono il mio peregrinare nel contesto rurale, eternamente attratto dagli estremi: tradizione e innovazione. Impugnare la penna equivale ad affrontare un confronto serrato, come durante un combattimento, con le vicende quotidiane che richiedono di essere interpretate e conosciute nelle loro diverse componenti evolutive. La scrittura non è altro che l’atto finale di un processo di riflessione personale e di rilettura del proprio vissuto, in relazione dialogica con la vita della natura e dell’umanità. Non è certo la scrittura a fare la storia, poiché le lettere si limitano a interpretarla e codificarla, ma senza di essa la storia non esiste e non sarebbe trasferibile. Dunque, se a sprigionarla è innanzitutto un bisogno che nasce dalle modalità riflessive ed espressive di un individuo, nel suo manifestarsi si trasforma sino ad assumere una dimensione più generale, che risponde alla necessità di fissare nella storia, locale e generale, fenomeni sociali troppo importanti per essere trascurati o addirittura dimenticati. Come quello della fienagione.


Fienagione 2020 a Cà Berizzi

Abbiamo lasciato alle spalle – l’ultima settimana di maggio – un’intensa attività agreste connessa all’avvio del taglio della prima erba. Un vero tripudio per tutta la valle. Si tocca con mano l’esuberanza festosa della natura, vestita con i suoi abiti migliori: i prati indorati, impreziositi da millefiori, attendono ormai solo il momento della messe. Una sorta di apoteosi della natura. Sono soprattutto le manifestazioni di gioia e l’esultanza dei contadini e piccoli allevatori di monte a destare la nostra meraviglia: attratti da un lavoro sfrenato, come in una corsa contro il tempo, per catturare persino l’ultimo raggio di sole, essi sono dediti, da mane a sera, allo sfalcio, all’essicazione, all’imballaggio e al trasporto del foraggio dai prati ai fienili delle loro stalle. Sono bastati quattro o cinque giorni di sole per accendere la miccia e innescare il processo, come un rituale che si rinnova tutti gli anni. I prati intorno al villaggio e alle sue principali contrade sono i primi a essere falciati, poi si sale nei löch (prati-pascoli con stalle-fienile) in quota utilizzati per gli alpeggi estivi: è un rincorrersi di suoni e rumori di motofalciatrici, ranghinatori, trattori, imballatrici,… quale espresso invito a spessegà (affrettarsi), per fàgola (fargliela) a qualche nuvola passeggera, dai colori grigiastri e minacciosi e dal possibile improvviso temporale. Suoni e rumori di festa, come quelli delle campane, e di contentezza, graditi a tutta la popolazione, anche a coloro che non sono direttamente coinvolti. È il contagio della fienagione, il rinnovarsi di una tradizione antica, che sa esprimere ancora oggi una forte carica emotiva e di condivisione. Il villaggio e la valle si illuminano di luce nuova, fresca, trasparente. Il profumo intenso dell’erba appena falciata si confonde con gli aromi del fieno essiccato e frusciante che, nella sua movimentazione, dal prato al fienile, trasmette sensazioni di benessere. Nei prati è un movimento incessante di uomini e macchinari, durante l’esecuzione delle varie attività. Ancora oggi la montagna, durante la fienagione, sa esprimere una vivacità straordinaria, nonostante la meccanizzazione agricola abbia un impiego parziale, poiché la conformazione del terreno e la sua distribuzione assai frammentata richiede di frequente l’esecuzione di lavori manuali, gli stessi che si ripetono da millenni, caratterizzati soprattutto dall’uso di ranza (la falce fienaia., oggi sostituita in molti casi dal decespugliatore) e rastèl (rastrello).


 Fienagione 2020 a Cà Berizzi. Il Pierino.

L’attuale letteratura del fieno è cambiata rispetto a quella vissuta da chi scrive durante l’infanzia e, negli ultimi cinquant’anni, l’insieme delle azioni connesse alla fienagione, avviate dal richiamo dei grilli canterini del prato, ha subìto una significativa evoluzione. Il linguaggio insegue le varie modalità di lavoro, evolve in continuazione e nuovi vocaboli ne sostituiscono altri definitivamente accantonati. Non si formano più quelle caratteristiche andàne nel prato, lasciate alle spalle dal coraggioso segadùr (falciatore), che già alle prime luci dell’alba si apprestava a falciare il dorato maggengo, così da ottenere a metà mattina, dopo quattro o cinque ore di duro lavoro, prima che la calura del sole diventasse opprimente, un consistente appezzamento di foraggio da fà secà (essiccare). Armato di ràs-cc (forca bidente), dovevo spànd i andàne (spandere le andane), seguendo a distanza il papà o lo zio impegnati nel gravoso lavoro di taglio, per distendere in modo uniforme quei mucchi d’erba e favorirne così l’essiccazione. Le andàne formavano nel prato ampie parabole simili alla falce di luna. A metà mattina, per rinnovare le energie dei valorosi combattenti nel prato, sö a l’Era o sö en Pradicù (località), giungeva una zia col tulì de rosömàda (una lattina con la rusumada)(1) . La mamma, qualche anno dopo, negli anni Settanta, faceva lo stesso sö en dol prat di Calf (nel prato di una località). Ol segadùr (il falciatore) portava con sé gli attrezzi occorrenti per tenere in ordine la falce fienaia: se tenuta bene affilata, come un rasoio, avrebbe alleviato la fatica. Innanzitutto ol codèr con dét la sò prida (il porta cote con la relativa pietra), agganciato con un uncino alla cinghia dei pantaloni: ol segadùr estraeva regolarmente, con movimento rapido e preciso, la pietra cote, tenuta bagnata nell’acqua, con cui affilava la lama della falce; in mancanza dell’acqua nel codèr, bastava un veloce e preciso sputo. Riposti in un sachilì de pèzza (sacchetti di pezza), non potevano mancare martèl e ‘ncöden (martello e incudine), necessari per ribattere il filo di taglio della falce, che l’sé ‘ntepàa (rovinato) quando batteva inavvertitamente contro un sasso, oppure si conficcava nel terriccio accumulato da öna tópa (una talpa) vicino alla buca d’ingresso del suo cunicolo sotterraneo.

 

Sant'Omobono Imagna, 1927. Bàt la ranza. Fotografia di Paul Scheuermeier.

Ho ancora davanti agli occhi l’immagine del nonno, seduto nel prato, fò dri a la cà, (dietro la casa) a cavalcioni del grosso noce, dentro il cui tronco conficcava di norma l’incudine: indossati gli occhiali da vista con le spesse lenti, batteva il filo di taglio della lama, facendola scorrere pian piano sulla base dell’incudine. Era un lavoro preciso e delicato, che non tutti sapevano fare. La gestione del prato aveva le sue regole e nel tempo si sono perfezionati strumenti e attrezzi particolari per specifiche funzioni. Per tagliare di fino l’erba söi rìoi (sulle sponde) più ripidi, il nonno si avvaleva anche del seghéss (falcetto). Attualmente la ranza (falce fienaia) è stata, per così dire, “rottamata”, sostituita dalle moderne motofalciatrici rotanti, agganciate e trainate da robusti trattori. Dove non giunge il nuovo macchinario, soprattutto nei prati più scoscesi, ci si avvale del decespugliatore. Quello del segadùr era un mestiere stagionale vero e proprio e diversi contadini prestavano il loro servizio anche nei poderi altrui, dietro una piccola remunerazione, o in cambio di giornate di lavoro. I Créoi (una famiglia), una volta terminato il taglio dell’erba nei loro prati di San Simù (Corna Imagna), salivano sino nel villaggio dirimpettaio di Costa, per falciare i prati di altri, situati alle altitudini superiori, dove erano ricercati e attesi quali valenti segadùr. Così pure, nel passato, diversi contadini si trasferivano persino in Svizzera, nei Grigioni, per offrire tali prestazioni di fatica.


La fienagione sulle Orobie (anni Settanta). Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria e dell'Identità. Fondo Emilio Moreschi.

Nel novero delle molteplici azioni connesse alla fienagione, è pressoché scomparsa anche l’espressione montonà sö ol fé (allestire cumuli di fieno). Non si vedono più nei prati i muntù de fé (mucchi di fieno), poiché i moderni ranghinatori, sempre al traino di trattori, avanzando spostano la massa di foraggio lateralmente, sino a formare lunghi accumuli longitudinali (còle de fé - file di fieno); il loro impiego polivalente consente di utilizzarli anche quali spandifieno. Fa sö i muntù de fé, anticipando il sopraggiungere improvviso di un temporale estivo, oppure la sera, per contenere l’attacco della rösàda (rugiada) notturna, coprendoli sulla cima rotondeggiante con vecchi tacù o tochècc de plàsteca (teloni o fogli di plastica), è un’operazione ormai desueta, anzi superata. L’indomani, poi, besognàa spànd i muntù de fé (bisognava disfare i mucchi di fieno), non prima che il sole avesse asciugato la rugiada nel prato. Ormai gran parte delle azioni che si collocano tra lo sfalcio dell’erba e la raccolta del fieno (spànd, oltà e andanà ol fé - spandere, ricoltare, e sistemare in andane il fieno) sono effettuate con mezzi meccanici, almeno laddove la superficie poco inclinata lo consente. Quei modesti covoni, sparsi qua e là nel prato, disegnavano curiose e particolari geometrie e per noi bambini costituivano lo spazio privilegiato del gioco, verso sera, per correre, nascondersi, saltare, divertirsi in un ambiente particolarmente accogliente e positivo, nel quale era possibile vivere narrazioni fantastiche e costruire esperienze immaginifiche.

Gli attrezzi tradizionali per la fienagione. Da sinistra: sdìrna (2), codèr, prida, ranza, martèl per bàt la ranza, encöden, seghés, rastèl, ras-cc (telaio per il trasporto del fieno, porta cote, pietra cote, falce fienaia, martello per mattere il filo della falce, incudine, falcetto, rastrello, forca bidente). In primo piano: la bastìna (cuscino per il trasporto sulla testa, piccolo basto in analogia con quello utilizzato per la doma dei quadrupedi).

Le moderne imballatrici hanno definitivamente messo da parte la vecchia sdìrna (il telaio apposito in legno per trasportare il fieno sulla persona appoggiato alla testa e alle spalle) e nessuno predispone più i brassöi de fé (letteralmente: le bracciate di fieno) nel prato, per quantificare e ordinare il carico di foraggio sul telaio ligneo finalizzato al trasporto e quale unità di peso. Le rotoballe di diverse dimensioni riempiono oggi i fienili, tanto nelle nuove stalle, quanto nelle antiche costruzioni, in molte delle quali sono state irrimediabilmente ampliate le aperture, già realizzate a misüra de fassì (a misura di fascio, ovvero di una quantità di fieno che, legata, può essre trasportata da una persona) e ora modificate per poter farci entrare i grossi balù (balloni). Sono scomparse le mìde de fé (gli accumuli di fieno sfuso e compattato) sulle stalle e quindi anche la màssa dol fé (tagliafieno) è stata mandata in pensione: se ne vedono ancora alcune superstiti nelle piccole aziende rimaste a conduzione familiare, poco meccanizzate e senza intenti produttivi. Nelle cascine della Bassa è avvenuta la stessa cosa e i lunghi loggiati al piano superiore sono rimasti sprovvisti dei caratteristici càss de fé (casseri di fieno, la porzione del grande fienile delle tradizionali cascine della bassa pianura lombarda, delimitato dallo spazio tra una campata e l'altra della struttura), che indoravano l’insediamento rurale e lo rendevano invidiabile agli occhi dei bergamini provenienti dalla montagna: con essi sono venute meno anche le squadre di taì (letteralmente 'tagliatori')(3) che provvedevano al taglio e alla quantificazione di quella enorme massa di foraggio.

Portà en cà ol fassì de fé co la sdìrna. Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria e dell'Identità. Fondo Santino Calegari.


Come non richiamare all’attenzione anche le pìrle, i grossi covoni di fieno ben raccolto e pressato attorno a un robusto palo centrale conficcato nel terreno, che fungeva da asse del grosso cono circolare retto, alto anche quattro o cinque metri e con diametro di base di tre o quattro metri. La conicità favoriva lo scivolamento dell’acqua in superficie. Da diversi lustri non si costruiscono più le pìrle, mentre un tempo, quando le stalle non erano sufficientemente capienti per accogliere tutto il foraggio del prato circostante, non rimaneva altro da fare che costruire questi grossi covoni destinati alla conservazione stagionale del fieno, che sarebbe stato successivamente tagliato con la massa (taglia fieno) e trasportato nel fienile nel corso della stagione invernale, nel momento in cui si fosse liberato lo spazio necessario. Ricordo una pìrla, forse l’ultima, che il papà costruì, ancora nei primi anni Ottanta, nel löch dei Crüsür, l’appezzamento di monte da poco acquistato dai Créoi, prima di ristrutturare la stalla, allora inagibile. Dopo aver selezionato e ben livellato, con badìl e zapù (badile e piccone) , un punto pianeggiante nel prato, conficcò un lungo palo nel terreno, attorno al quale predispose la base con pali e frasche, per tenere sollevato il fieno da terra: mentre lui scaricava sul perimetro assegnato ras-ciàde de fé (forvate di fieno), noi figli avevamo il compito de pestàl bé (di comprimerlo accuratamente), specialmente attorno al palo centrale, dove andava pressato maggiormente. Mano a mano che si saliva in altezza, il piano di calpestio del cono si restringeva e, per caricare il fieno sugli ultimi due o tre metri sommitali, bisognava avvalersi dello scalèt (scala a pioli), mentre chi stava lassù, in cima, addetto al calpestio, doveva attaccarsi al palo, girandogli continuamente attorno. Al termine del lavoro di accumulo, la parte residuale del palo veniva tagliata e ricoperta con d’ü tòch de làta (un pezzo di lamiera), per evitare le infiltrazioni dell’acqua all’interno. Col rastrello, infine, il papà girava ripetutamente attorno alla pìrla, pettinando per bene la superficie, rendendola così uniforme, in modo che l’acqua piovana vi potesse scorrere, come sopra una parete impermeabile, ed essere scaricata a terra. Con la stessa attenzione e l’amore con cui il Tata (il capo famiglia) , ormai non più giovane, pettinava la mida dol fé sul fienile di Pradicù.


Vita e lavoro sulle Orobie. Sullo sfondo: la pìrla de fé. Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria e dell'Identità. Fondo Santino Calegari.

La fienagione ha sviluppato nel tempo linguaggi diversi, nati e cresciuti in contesti culturalmente anche molto lontani. Sulle Orobie, fà ol fé (eseguire la fienagione) , per la generazione che mi ha preceduto, a maggior ragione nei secoli precedenti, occupava gran parte della stagione estiva: si falciava, di volta in volta, quel tanto di erba che rispondeva alla capacità di lavoro della famiglia e dei suoi componenti. Di norma occorrevano tre giorni: uno per falciarlo e distenderlo, il secondo per rigirarlo anche due o tre volte e farlo essiccare, il terzo per trasportarlo in fasci con la sdìrna (telaio per il trasporto del fieno su spalle e capo) nel fienile. I fienili delle antiche stalle andavano “caricati” gradualmente, un po’ al giorno, per evitare il surriscaldamento eccessivo causato dalla fermentazione del foraggio, che poteva anche provocare principi di autocombustione e bruciare persino la stalla. Le porte del fienile andavano tenute aperte e nei giorni immediatamente successivi il Tata (capofamiglia) effettuava diversi sopralluoghi in momenti distinti. La fienagione si trasformava in una grande festa per la famiglia, che nel prato si ricomponeva, resa ancor più augurale se accompagnata da vento e sole caldo. Perché… l’è ol sul che fà ol fé (è il sole che fa il fieno)! In quei giorni il prato diventava il centro della vita contadina di uomini e donne, bambini e ragazzi, e anche gli anziani si rendevano utili, col rastrello bene impugnato tra le mani, per terà ‘nsèma la tràgna (per raccogliere anche gli steli più tigliosi). Ol desnà (la colazione del mezzogiorno) si consumava seduti insieme nel prato, all’ombra di un noce, o fò al casèl (presso una piccola costruzione isolata), quando la Regiùra (la capofamiglia) giungeva con la polénta fumante torciàda sö en d’ü sögamà (avvolta in un asciugamano)  bastavano poche fette di stracchino o di salame per rendere quel pasto frugale particolarmente succulento, ma sempre guardinghi e alzando di frequente gli occhi al Cielo, per la paura di qualche improvvisa tronàdaz (serie di tuoni minacciosi).

La fienagione sulle Orobie (anni Settanta). Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria e dell'Identità. Fondo Emilio Moreschi.

Giugno era il mese del primo taglio (ol fé vero e proprio), dalla metà di luglio iniziava il secondo (ol còrt) e a settembre il terzo (ol terzöl), ma solo nei prati migliori, per lasciare nuove aree al pascolo autunnale dei bovini. Il tempo del fieno era assai diluito e durava diverse settimane, per più mesi. Attualmente si è molto ristretto e il principio della meccanizzazione ha innalzato le attese dei piccoli allevamenti di monte e aumentato enormemente la produttività. Come fanno i cacciatori, quando attendono impazienti la föria (la passata) ottobrina del passaggio di tordi sasselli e bottacci, allo stesso modo i contadini si fanno prendere dalla föria de fà ol fé (smania di procedere alla fienagione), cercando di sfruttare a più non posso le prime giornate di sole, come quelle della scorsa settimana, quando si è rapidamente passati dalle prime prove di fienagione alla föria vera e propria. Besógna spessegà (bisogna affrettarsi)! È il modello produttivistico, dell’agricoltura e degli allevamenti intensivi della Bassa, ad avere molte volte il sopravvento anche in montagna e una sola persona, prima con la falciatrice rotante, poi con gira-fieno e ranghinatore, infine con l’imballatrice, tutti attrezzi trainati di volta in volta dal medesimo trattore, attualmente è in grado di produrre in pochi giorni una quantità di foraggio decisamente superiore a quello tradizionalmente ottenuto dai diversi componenti della famiglia durante più settimane, impegnati con ranza e rastèl, ràs-cc e sdirna… Il tempo della fienagione è cambiato. I giovani attualmente sono animati da un acceso spirito di iniziativa, mentre gli anziani dispensano pillole di saggezza: Ardì che ol fé so l’à sémpre fàcc. Idirì che, pröma de Nedàl, i pràcc i sarà bèi nècc (guardate che il fieno si è sempre fatto. Vedrete che prima di Natale i prati saranno belli puliti)!... E’ un invito a non farsi prendere dall’ansia della föria e a recuperare una relazione umana complessiva, non solo produttiva, con il prato e le sue componenti.

La fienagione sulle Orobie (anni Settanta). Centro Studi Valle Imagna, Archivi della Memoria e dell'Identità. Fondo Emilio Moreschi.

Ancora una volta è la natura a restituirci la misura del tempo e a ricondurci entro i limiti della nostra dimensione: la settimana entrante, portatrice di piogge e temporali sparsi, afferma un naturale dettato alla moderazione e al riposo. I segadùr rimangono in attesa del sole rassicurante e duraturo per riprendere l’attività nei prati carichi di foraggio maturo… Mentre un tempo gli anziani interpretavano la meteorologia osservando i colori del cielo, il movimento delle nuvole, il tirare del vento,… ed alzavano di frequente gli occhi al Cielo, al giorno d’oggi l’attenzione è calata sui telefonini cellulari e le numerose App in grado di prevedere l’evoluzione del tempo e il sopraggiungere della pioggia… I contadini del bacino dell’Imagna rivolgono ancora oggi lo sguardo sospeso verso la loro montagna, interrogandola e attendendo da essa segnali rassicuranti. E’ ancora attuale il detto: Quande ol Resegù e l’gh’à sö ol capèl, mèt dó la ranza e tö sö ol rastèl (quando il Resegone ha il cappello - di nuvole - lascia giù la falce e prendi il rastrello) (4)!...

Fienagione a Cà Berizzi, 2018

Note

(1) La rüsumada è una preparazione tipica lombarda (almeno da quando lo zucchero e il vino rosso - prima bevuto solo dagli uomini adulti all'osteria - sono diventati di uso comune e accessibile alle tasche del popolo, quindi tra Ottocento e Novecento). Si prepara con uova, zucchero e vino rosso. Alimento energizzante.

(2) La sdirna (chiamata fras-chera in altre zone della Lombardia) non ha corrispettivo in italiano, così come il gerlo con le bacchette distanziate perché sono attrezzi per il trasporto sulla persona tipici dell'area alpina lombardofona. Come si sa l'italiano nasce come lingua letteraria, diplomatica, giuridica e prende a prestito, di peso, una quantità di voci della vita pratica dal toscano (che rifletteva una ben diversa cultura agricola).

(3) Il vocabolo è utilizzato nel contesto specifico dell'allestimento del "carotaggio" di fieno nel cassero al fine di stabilire su base campionaria il peso specifico della massa e procedere a stabilirne il prezzo al quintale. La delicata operazione (l'esecuzione approssimativa poteva causare interminabili contestazioni tra le parti dal momento che sia per chi comprava che per chi acquistava la massa dei fieno era in gioco una componente importante di ricavo/costo dell'esercizio annuale). Era così indispensabile ricorrere a veri e propri professionisti.

(4) Il  Resegone è la montagna alle spalle di Lecco, ben visibile da tutta la Brianza e da Milano. Prende il nome - grossa sega - dalla serie di punte rocciose che lo contraddistingue. Visto dalla valle Imagna ("da dietro") ha un aspetto piuttosto anonimo e verdeggiante.


Serie di cultura ruralpina (in valle Imagna)

a cura di Antonio Carminati


Osterie: espressioni concrete del bisogno di stare insieme (ieri e oggi)
(25.05.29) La viva realtà delle osterie di contrada dell'alta valle Imagna. Esistite, sino agli anni '60, sul "modello" dell'istituzione medievale e poi scomparese. Oggi, però, lvi sono iniziative che cercano di tradurre quel modello nel contesto contemporaneo. Iniziative meritorie perché e di nuovo vivo il bisogno di un posto come le osterie di una volta.

Ol casèl dol lacc luoghi e manufatti dell'acqua
(19.01.20) Insieme alle cantine (caneve, silter, involt ecc.) e alle nevere /giazere (i pozzi per la conservazione della neve o ghiaccio), i casei del lacc rappresentano le "macchine del clima" della civiltà contadina, della civiltà casearia montana. Antonio Carminati presenta questi manufatti dell'ingegneria contadina nella tipologia della prealpina valle Imagna. 

I sègn de béen. Tra magia bianca e pratica teraputica popolare
(17.08.19) I "segnatori" erano guaritori popolari che operavano (operano) su patologie di diverso tipo: slogature, ustioni, contusioni, sciatica, verruche, herpes zoster ecc. Erano in genere specializzati e diagnosticavano e curavano un solo tipo di male senza chiedere compenso. Traspettevano il loro "potere" a qualcuno (famigliare o no) che ritenevano idoneo.  Vi erano anche "segnatori" per gli animali domestici. Segni rituali e preghiere erano a volte accompagnati dall'uso di rimedi fitoterapici o tratti dal mondo animale (il latte, il grasso), di cui oggi è provata l'efficacia farmacologica. 

Ol sègn di èrem. "Segnare" i vermi come pratica di guarigione popolare
(13.08.19)  I guaritori popolari operavano (operano) con varie modalità.  I gesti, i "segni", praticati sul malato (o su degli oggetti), sono tra quelli più caratteristiche. Una delle applicazioni più importanti dei "segni" era relativa alle verminosi, specie quelle che colpivano i bambini.

Quando i bimbi morivano in estate
(05.08.19) Ancora alla fine dell'Ottocento la mortalità infantile in Italia, nel primo anno di vita, era pari al 20%, senza grandi differenze tra la regioni.  Era causata in prevalenza da gastroenteriti, ma anche da affezioni respiratorie e setticemia.  I più piccini i patìa tant per ol prìm cold, soffrivano molto per le prime calure, tanto più che  - in tarda primavera - tutti soffrivano per la fine delle scorte alimentari accumulate per l'inverno

Vita e morte nella dimensione rurale
(03.08.19) Oggi la morte è stata rimossa dalla dimensione sociale, senza per questo allontanarne l'angosciosaincombenza. Anzi. 
L'individualizzazione esasperata la rende inaccettabile in quanto fine di tutto, nell'orizzonte materialista e narcisista della società attuale, limitato all'io, al presente, al piacere,all'efficienza. Nella dimensione rurale, vita e morte si confrontavano tutti i giorni. I cari defunti continuavano, in varie forme, a fare parte della famiglia, della comunità, attraverso varie forme di ricordo e di rito


Quel prato al centro del mondo
(15.07.19) Luglio è il mese della riconquista degli spazi rurali, che al termine della fienagione ritornano ad essere fruibili, con gioia soprattutto per bambini e ragazzi, che finalmente possono correre un po’ dovunque e dare spazio alla fantasia. Il prato era anche una palestra di vita, un prezioso ambito per avviare i fanciulli ai doveri e agli impegni degli adulti.


Giugno: tra intenso lavoro campestre e rito
(16.06.19) Nel mese di giugno, non possono essere dimenticati almeno tre eventi ricorrenti e particolari, assai sentiti e vissuti nel calendario rituale dei contadini: due di essi celebravano i poteri magici della notte, solitamente frequentata dagli spiriti che si volevano propiziare. Queste notti, che cadono nel periodo del solstizio

Il fienile come granaio (in montagna)
(08.06.19) 
Nella civiltà agropastorale alpina il fieno assume unaforte centralità. Dalla sua raccolta dipende la possibilità di mantenere più o meno animali durante l'inverno, animali da vendere oda utilizzare per il latte, animali produttori del prezioso letame. Dal fieno quindi dipendeva la ricchezza (o la minor povertà, per meglio dire) della famiglia contadina

Tempo di preparazione all'alpeggio
(18.05.19) A Corna Imagna, come in tante realtà delle prealpi, l'alpeggio è praticato spostandosi su maggenghi siti a diverse quote, sino a raggiungere i 1.000 m. Si reata, però, sempre a  moderata distanza dal villaggio. Così il contadino saliva  e scendeva ogni dai pascoli e la sua attività principale continuava ad essere la fienagione. Per le bestie, ma anche per gli uomini, era comunque un periodo atteso.

Maggio: natura fiorita e culto popolare 
(10.05.19) Quando la fede popolare umanizzava e santificava la natura in fiore, i campi, il territorio. Nel mese di maggio, oltre al culto mariano, erano importanti le preghiere e i riti di benedizione delle case, dei campi, dei raccolti ancora incerti. Lo spazio abitato, che andava ben oltre quello "urbanizzato", era presidiato da contrade e cascine e marcato da numerose presenze del sacro, prime tra tutte le  santelle per le quali transitavano le processioni delle rogazioni a marcare lo spazio simbolico della comunità da difendere dal disordine e dalla negatività

Quando la vacca deve partorire. Quand che la aca la gh'à de fà
(05.05.29) Per la famiglia contadina tradizionale, ma anche per il piccolo allevatore di montagna di oggi, l'attesa del parto della vacca è piena di trepidazione. Si spera che nasca una femmina ma si temono le complicazioni del parto. Ancor oggi tutto quello che ruota intorno alla riproduzione bovina nelle piccole stalle è oggetto di pratiche di solidarietà orizzontale che tengono insieme la comunità degli allevatori locali.

Hanno ucciso la montagna (la fine della grande famiglia del nonno)
(15.04.19) Nel racconto autobiografico di Antonio Carminati la "grande trasformazione" degli anni '60. L'entrata nella modernità, vista per di più come limitativa e negativa, attaverso l'esperienza di un bambino che vive il passaggio dalla vita patriarcale di contrada a quella della famiglia nucleare e dell'appartamento "stile città", una distanza di un km o poco più in linea d'aria che segna il passaggio traumatico tra due mondi.


Architettura identitaria. I tetti in piöde, bandiere di identità valdimagnina

(06.04.19) In valle Imagna  L'arte delle coperture, della posa delle piöde ha raggiunto particolare perfezione tanto da assumere i connotati di un emblema identitario. Non sono poche, però, le difficoltà nel conservare e far rivivere questo patrimonio di valori culturali (saperi, abilità) ed estetici. Un tema per un utile dibattito con il coinvolgimento delle comunità locali e non solo degli addetti ai lavori.

Pecà fò mars  Il rito della definitiva cacciata della cattiva stagione
(31.03.19) Dopo il carnevale, ancora una volta, per cacciare la brutta stagione, soprattutto la sua pazza coda di marzo, occorre produrre altro rumore, diffondere suoni anche strani nell’aria, insomma fare chiasso e… tanto baccano.  La funzione è sempre stata duplice: da un lato allontanare gli spiriti del male, dall’altro richiamare ad alta voce la bella stagione, facilitando così il risveglio della natura

Omaggio ai boscaioli emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19) Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso ricordarla.

La gestione del letame nell'economia agropastorale montana

(20.03.19) Lo spargimento del letame nei prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel passato.  quale fertilizzante, è forse una delle attività maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della conclusione di un ciclo.

La stalla e gli altri manufatti dell’edilizia tradizionale

(03.03.19) Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie, presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue caratteristiche naturali e antropiche.


La distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19) Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure, di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute", disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal Cinquecento).



La caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano [a caccia] di volpi).



L'economia delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta somma di denaro...


In morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) 
La triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna. Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a "uso vacanza". 



La méssa dol rüt
(08.01.19) La méssa dol rüt  (la concimaia) era l'elemento chiave di un paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e sprecare risorse


Il Natale dei contadini. Un rito che non scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18) Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori.  Quella che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza della macellazione con qualche immagine di insaccatura.

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