Il lupo non
aiuta la biodiversità alpina
materiali per un manifesto pro
pastoralismo, contro la diffusione del lupo sulle Alpi
Meno pastori,
più animali da pascolo confinati in spazi ristretti (e di notte in
recinti di protezione), più pascoli a rischio (lupo) abbandonati, più
mute di cani da difesa (che predano i nidi) significa meno
covate, voli, coppie, condanna a morte della tipica
avifauna montana e grave impoverimento delle
reti ecologiche alle quali gli uccelli partecipano interagendo con gli
insetti e le piante. Tra le specie a rischio di estinzione, a causa
della regressione del pastoralismo alpino e appenninico, vi è la Coturnice, la cui principale
popolazione mondiale è in Italia. Ma del resto cosa interesserà
mai della biodiversità a chi gioisce del meticciamento del lupo
appenninico con quello balcanico, baltico ecc.? Pur che il lupo avanzi,
pur che l'ideologia lupista trionfi. Pur di far cessare le attività
tradizionali e costringere all'abbandono delle montagna, all'attuazione
di una "pulizia etnica" senza sporcarsi le mani. In nome di quella
Natura che gli interessi economici che assecondano le ideologie
animal-ambientaliste stanno sistematicamente avvelenando, depredando.
Solo per l'uomo bianco
la natura è una "wilderness"
Per noi è mansueta...
La terra è ricca di doni
e noi siamo circondati
dalle benedizioni del Grande Mistero
Orso in piedi, capo Lakota
di
Michele Corti
(26.12.18)
Grazie
ai potenti megafoni mediatici del potere economico, all'egemonia
culturale di cui l'ambientalismo urbano gode in quanto "costola" della
sinistra progressista, alle solide posizioni nel mondo accademico e
dell'editoria e, last but not least, grazie ai molti milioni incassati
dai progetti europei pro lupo (spesi in generosa misura in propaganda),
la strategia di diffusione del canide - perseguita dalle lobby
internazionali secondo un preciso copione - gode di ottima fama. Fin
che la presenza non si concretizza tutti plaudono alla reintroduzione.
Salvo poi, come accade in intere provincie (Bolzano e Trento), cambiare
velocemente idea.
Il pubblico sprovveduto, quasi per
riflesso pavloviano, la associa alle ormai note giaculatorie della
nuova religione: "biodiversità", "riparazione dei danni inferti
all'ecosistena", "miglioramento ambientale". Ciò ha, oltretutto, la
benedizione della chiesa cattolica (allo sbando).
Sono assiomi che non richiedono
dimostrazione; sono, anzi, dogmi che nessuno deve osare mettere in
discussione. Se lo fa è un bestemmiatore, un blasfemo. Socrate si
guadagnò un infuso di cicuta per le sue "bestemmie", oggi si
accontentano di attribuire marchi di infamia preconfezionati
"ignorante", "troglodita", di "tagliare fuori". In Italia ben pochi
esemplari appartenenti al genere Intellectualis,
stante il particolare conformismo della specie italica, osano manifestare idee
etrodosse in materia. Diversamente stanno le cose in Francia, ma lì
hanno un diverso dna, hanno i gilet
jaune,
un mondo rurale reattivo, persino degli intellettuali che
si schierano con la plebe. In Italia chiunque si sente un minimo
acculturato deve aderire al dogma: "lupo è bello, pastore è
zotico ignorante". Per lo stesso motivo per il quale in Italia, quasi
ovunque, il contadino - a detta del famoso etnografo Scheuermeier - si
vergognava di esserlo (a differenza dell'orgoglioso bauer
dei paesi di lingua tedesca) e, la domenica, cercava di cammuffarsi da
cittadino. Lo stesso meccanismo di subalternità sociale porta il
piccolo borghese a identificarsi in atteggiamenti radical-chic (tra cui
l'ambientalismo da salotto dal forte connotato ideologico).
Articolo
contro il lupo dell'organo del partito comunista francese. Va notato
che anche l'appello lanciato nel 2014 da un gruppo di intellettuali e
specialisti a favore del pastoralismo e contro il lupo apparve su
Liberation,
quotidiano dell'estrema sinistra. In Francia, sia a destra che a
sinistra, la difesa dei contadini, dei pastori, del paesaggio, delle
produzioni tipiche è elemento imprescindibile della difesa
complessiva dei valori e dell'identità nazionali. Una storia ben
diversa porta in Italia gli intellettuali, ma anche il ceto medio - i
cui complessi di inferiorità portano a emulare gli atteggamenti
radical-chic della borghesia - a disprezzare i valori rurali
apprezzandone semmai i soli prodotti alimentari come elemento
snobistico ed edonistico (tipico l'atteggiamento di Slow food
che apprezza e afferma di sostenere i formaggi a latte crudo di pascolo
ma che poi difende il lupo). L'ambientalismo da salotto perpetua il
conflitto tra città e campagna. Oggi c'è da sperare che, con
l'affermazione di idee populiste e sovraniste anche in Italia si
diffondano sentimenti e atteggiamenti simili a quelli francesi.
Quindi chissenefrega se i lupi stanno mettendo in
ginocchio interi territori (vedi Maremma ma anche Lessinia). In
Francia, correva l'anno 2014, un gruppo nutrito di studiosi e specialisti di
materie umanistiche, sociali, agricole e biologiche firmarono un appello
a favore dei pastori,
denunciando che la pressione predatoria che
mina la biodiversità, il paesaggio, i prodotti alimentari più
autenticamente "legati al territorio". Tra loro Carlin Petrini,
fondatore di Slow Food. La difesa della biodiversità rappresenta in
Francia un argomento forte e trasversale contro una reintroduzione del
lupo, una reintroduzione che, peraltro, neppure l'indagine parlamentare
sul tema ha potuto chiarire se di natura spontanea o meno.
Paesaggio pastorale delle
Cevennes (Francia centrale). Il Parco nazionale delle Cevennes è il
primo che si schiera apertamente contro il lupo per la difesa della
propria mission: la tutela del paesaggio pastorale storico dichiarato patrimonio dell'umanità
Paesaggio,
cultura, biodiversità: se ne parlassimo seriamente invece che con le
formulette per la propaganda?
Grazie alla potenza di fuoco
dell'artiglieria mediatica amica, il partito del lupo è riuscito a
presentare la "necessità" della reintroduzione sulle Alpi del grande
predatore quale una priorità assoluta, riuscendo a mettere in ombra nel
dibattito le istanze di tipo non solo socio-economico ma anche
ecologico che inducono a non trascurare le conseguenze negative della
reintroduzione del lupo. Viene sempre citata la Direttiva habitat e la
Convenzione di Berna che hanno stabilito una super-protezione per il
lupo (in tempi in cui rischiava l'estinzione).
I patrimoni culturali, ambientali,
naturalistici che il lupo mette a rischio sono, come denunciato dal
manifesto pro pastori dei ricercatori e intellettuali francesi,
tutelati da strumenti (direttive, convenzioni, trattati) di pari se non
superiore importanza agli argomenti giuridici (peraltro anacronistici)
invocati a favore del lupo. Il paesaggio, elemento di fusione tra
dimensione culturale e naturale e pertanto in opposizione al concetto
mistificante di "natura selvaggia" è tutelato dall'art. 9 della
costituzione e dal Codice
dei beni culturali (D.L. 22.1.2004 n. 42). A tutela del
paesaggio è stata siglata la Convenzione
europea del paesaggio di Firenze (20 ottobre 2000). La tutela
specifica del paesaggio rurale tradizionale è stata oggetto del decreto
n. 17070 del 19 novembre 2012, che ha istituito l'Osservatorio Nazionale del Paesaggio
rurale, delle pratiche agricole e conoscenze
tradizionali (ONPR), ha contestualmente previsto, all'articolo
4, l'istituzione del "Registro nazionale dei paesaggi rurali di
interesse storico, delle pratiche agricole e delle conoscenze
tradizionali" che ha da poco presentato i primi
paesaggi inseriti.
Le
conoscenze e le pratiche agricole e pastorali tradizionali in quanto
patrimonio culturale sono tutelate dalla Convenzione per
la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (Parigi,
2003). L'Unesco, lo suddivide in cinque registri: il registro
dell’oralità è dedicato alle tradizioni orali, alle modalità
espressive, alle memorie collettive; il registro delle arti e dello
spettacolo, è rivolto alle performance artistico-espressive e racchiude
la storia lombarda della musica, del ballo, del teatro, delle arti
figurative; il registro della ritualità è dedicato alle pratiche
sociali e collettive e ricomprende anche riti religiosi e laici e feste
popolari. Interessano direttamente la pratica pastoralista il
registro dei saperi naturalistici, dedicato alle pratiche e alle
conoscenze legate alla natura e quello dei saperi tecnici dedicato alle
tecniche lavorative e ai saperi agricoli e artigianali ma anche i
registri dell'oralità e del rito sono ampiamente coinvolti nella
definizione di un contesto pastoralista che, ricordiamolo, comprende
gli inscindibili aspetti culturali e specificamente antropologici
dell'attività pastorale. Dal mio punto di vista il patrimonio
immateriale connesso all'attività pastorale si estrinseca in: 1) saperi
animali:
etologia, fisiologia di animali domestici
e selvatici; 2) saperi tecnologici alimentari:
caseificazione e conservazione dei
latticini, preparazione e conservazione
delle carni; 3) saperi vegetali:
proprietà tossicologiche, alimentari,
tecnologiche di piante e materiali
vegetali, ciclo vegetativo; 4) saperi ambientali:
idrologici, pedologici, geologici,
metereologici. Il patrimonio immateriale legato alla pratica
pastoralista oltre ai saperi comprende il patrimonio linguistico
composto dal lessico e dalla microtoponoimastica. In entrambi i casi
questo patrimonio si articola in un uso vivente (da parte della
comunità di pratica) e in una conoscenza inventariata che, nel caso
della microtoponomastica diventa un patrimonio legato al luogo allo
stesso titolo dei manufatti materiali. Patrimonio immateriale legato ai
complessi pascolivi sono anche le leggende e i fatti storici ambientati
nei singoli luoghi mentre ai sistemi pastoralisti di aree omogenee
possiamo ascrivere altri beni immateriali quali rituali di
propiziazione e fertilità, tabù, credenze
in forze soprannaturali ma anche le svariate forme di proprietà e
godimento dei beni collettivi e le connesse istituzioni.
Pastoralismo
e biodiversità
Il patrimonio legato alla pratica
pastoralista e all'allevamento estensivo comprende anche la
biodiversità, quella che il lupo - una volta introdotto - quasi
magicamente andrebbe a migliorare riportando salvificamente
all'equilibrio le reti ecologiche che l'uomo (i cattivi cacciatori, i
montanari ignoranti e gretti) ha sconvolto. Una narrazione religiosa,
decontestualizzata sul piano storici e sociale, che non corrisponde per
nulla al reale. Un brutto colpo all'ideologia religiosa
conservazionista è stato fortunatamente inferto dalla Convenzione
sulla biodiversità (Rio de Janeiro, 1992) tutela esrtessamente le
razze di animali domestici. Oggi il WWF finge di difendere, anche
attraverso organizzazioni da esso controllate, anche le razze asinine,
ovine ecc., ma, sino al 1992, l'organizzazione ambientalista delle
teste coronate e - per non poco tempo - sostenuta dai petrolieri, si
opponeva a che la biodiversità comprendesse le specie vegetali e
animali domesticate dall'uomo. Come se l'allevamento, la coltivazione
non fossero una forma simbiontica, una alleanza interspecifica,
largamente diffusa in natura. L'ideologia ambientalista hard (che
continua a riaffiorare per quanto non proclamata apertis verbis) nasce,
come è noto, negli Stati Uniti nel XIX secolo e
proclama sua missione la salvaguardia dei santuari della natura
incontaminata. La missione venne attuata attraverso l'istituzione di National Park caratterizzati da due
"simpatici" aspetti: 1) vengono scacciate le tribù native, superstiti
al genocidio e alla segregazione nelle riserve indiane per avvalorare
la finzione dei parchi quali territori non soggetti a "disturbo
antropico" e per eliminare un elemento umano "inferiore", suscettibile
di danneggiare la Natura per la sua ignoranza e grettezza (non
importava, ovviamente, se gli "indiani", nei confronti della natura,
nutrissero un rispetto sacrale mentre i colonizzatori vi vedevano solo
uno strumento di profitto da piegare con la potenza della tecnica); 2)
il territorio viene sottratto alle autorità locali, anche degli stati,
e avocato a Washington.
I
parchi, il parchismo, nascono come ideologia intrinsecamente razzista,
e colonialista, macchiata di genocidio. Quel triste marchio di fabbrica
se lo portano dietro ancora oggi nel mondo.Il punto di svolta è il
Yosemite Grant Act del 1864. Il leader conservazionista John Muir era
dell'idea che la presenza degli Ahwahneechee e di altri "indiani"
rappresentasse una dissacrazione. Non importa se questo popolo, che non
era affatto "nomade" come i conservazionisti cercavano di far credere,
era lì da 6 mila anni.
Erano "sporchi" e "pigri", e questo deficit materiale e morale
insudiciava il santuario della
natura voluto dai bianchi. Erano "pigri" perché loro tecniche di caccia
che praticavano consentivano loro di vivere senza grande dispendio di
energie. Nella mentalità della modernità capitalistica che aveva
costretto le classi popolari dell'occidente, passate attraverso la
rivoluzione industriale, a una vita di stenti per ottenere in cambio
dai padroni il minimo per la sopravvivenza (il prezzo da pagare per
l'accumulazione del capitale) la vita dei nativi a Yosemite era
scandalosa. Andavano sloggiati, deportati. Gli Ahwahneechee
utilizzavano in modo sostenibile l'ecosistema che non era quindi
"incontaminato". Praticavano l'incendio controllato radente il
suolo che manteva il bosco aperto con grandi alberi e una
buona biodiversità (circostanza che preveniva gli incendi disastrosi
che oggi devastano la California), piantavano alberi per ottenere
ghiande come alimento ecacciavano senza compromettere l'abbondanza delle prede
. A differenza degli altri parchi americani a Yosemite i nativi vennero
tollerati in numero ridotto per svolgere attività al servizio del parco
e di comparse.
Il
carattere di tanto ambientalismo successivo deve parecchio a queste
impostazioni
razziste, paternaliste e antidemocratiche che furono poi applicate
anche
nell'Africa ai tempi della decolonizzazione, quando i parchi
rappresentarono il mezzo per mantenere il controllo degli ex
colonialisti su ampi territori, ma anche agli stessi paesi occidentali
(1). Prima ancora della decolonizzazione nacque il Parco del
Serengheti. A generazioni di europei e di nordamericani sono state
somministrate ore interminabili di visione di documentari televisivi su
questo parco (sino alla nausea). Pochi sanno però la sua storia che
inizia nel 1940. Gli inglesi pensavano di farne una risorsa turistica
ma non avevano intenzione di trasferire con la forza o con l'inganno i
Masai che mantenevano le loro mandrie nel parco. Allora i turisti, a
differenza di oggi, si lamentavano dei Masai, per i loro barbaric ways
(2) . A cacciare 100 mila Masai dalle loro terre ancestrali (dove
pascolavano da migliaia di anni i loro bovini) non furono le autorità
coloniali ma una campagna convervazionista condotta da Bernhard
Grzimek, direttore dello zoo di Francoforte che nel 1956, senza alcuna
base scientifica, in un libro di effetto, No place for wild animals
, sosteneva la prossima estinzione delle specie del Serengheti. I
conservazionisti dell'epoca non erano affatto di quell'avviso . Uno di
loro, che aveva lavorato per anni in Kenya studiando i Masai scrisse: The herdsmen are actually the reason that there are still many wild animals here [i pastori
rappresentano il vero motivo per cui vi sono qui ancora molti animali
selvatici] (3). I pastori non coltivavano, non cacciavano. Ma alla
campagna di Grzimek venneincontro Hollywood che incoronò con un oscar il film di Michael Gzimek figlio di Bernhard
che aveva lo stesso titolo del libro del padre. L'idea di una grande
area "incontaminata" senza presenza umana era diventata un'idea di
successo mediatico con la quale l'elite poteva ottenere i suoi fini.
Nel 1958 le autorità coloniali inglesi, arrendendosi alla campagna
internazionale, fecero firmare ai Masai un accordo "volontario" per
abbandon are il Serengheti. Pochi anni più tardi, nel 1961, a Morges in
Svizzera (scelta come sede neutrale per far dimenticare che il cervello
dell'operazione era comunque a Londra negli ambienti della corona, del
Foreign Office e dei servizi segreti). Lo sfaldamento dell'impero
britannico rendeva urgente la ricerca di strumenti per continuare a
controllare territori ricchi di risorse naturali strategiche. In Africa
e in India milioni di persone: pastori, contadini,
cacciatori-raccoglitori furono cacciate dalle sedi ancestrali in nome
di tigri, elefani, rinoceronti. In realtà per ben altri scopi.
Il WWF è tutt'oggi nel mirino delle organizzazioni
per la difesa dei popoli indigeni che denunciano casi di abusi,
violenze e sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrati in
diversi paesi africani da squadroni al soldo degli ambientalisti in
nome della "lotta al bracconaggio" e della difesa dei parchi. Il
rapporto Survival International’s
report di Conservation Watch (4) sostiene che, National parks and other protected areas
have been imposed on their lands without their consent, often with
little or no consultation. Some of the world’s largest conservation
organizations, principally the World Wildlife Fund (WWF) and the
Wildlife Conservation Society (WCS), were the key players involved in
this carve-up of indigenous lands.
L'ideologia
della "natura selvaggia" ha responsabilità per il quadro di rapido
degrado del paesaggio
Tutto questo era (è) funzionale a fare
dei Parchi qualcosa di speciale che doveva avvalorare l'ideologia della
wildernerness, dimostrando come le strategie conservazioniste potevano
avere successo. Sulla "naturalità" della cacciata delle popolazioni
indigene e della violenza impiegata contro i nativi (specie in Africa)
per far rispettare i divieti imposti alle attività umane nelle "riserve
della natura" ci sarebbe non poco da dire. Quando poi il parchismo è
stato applicato in Europa dove non esiste ambito che non sia stato
antropizzato dalla preistoria e dove la dimensione dei parchi,
paragonata a quelli americani e africani, è quella di un francobollo
facilmente esposto alle influenze dei territori circostanti, la sua
pretesa di "restaurazione della natura" è apparsa ancor più chiaramente
quale una pretesa ideologica.
Va da sé che in Europa (ma anche in altre
aree del mondo di antica civilizzazione) la pretesa di "restaurazione
della natura" si scontra contro l'impossibilità palese di annullare
retroattivamente l'influenza antropica, diretta e indiretta,
sugli ecosistemi. Anche se le possibilità attuali dell'uomo di alterare
gli ecosistemi sono immensamente superiori a quelle del passato, va
tenuto conto che ancora prima della rivoluzione agricola l'uomo con la
caccia e il disboscamento (incendio) ha iniziato ad alterare
profondamente l'habitat. Buona parte della fauna e della flora
considerate spontanee non sarebbe presente se non vi fossero state
influenze antropiche. Oggi parliamo di specie "invasive", che si
spostano con velocità spettacolari grazie agli aerei. Ma quando
arrivavano (trasportate o meno consapevolmente) con navi di legno e
navigazioni di anni o, ancora più lentamente con le migrazioni di
popoli e del bestiame al seguito nell'arco di decenni o di secoli non
cambiava il dato essenziale: senza l'intervento umano queste specie e
le nuove cenosi in sui si sono inserite non sarebbero esistite in quel
continente, in quella regione.
Nel
parco nazionale svizzero le piante morte vengono lasciate in situ. Una
pratica invocata dagli ambientalisti come regola per la "gestione" del
bosco. Una pratica che qui non ha particolari conseguenze nel contesto
di alta montagna ma che gli ambientalisti vorrebbero estendere
indiscrinatamente
con la conseguenza che la diffusione degli insetti parassiti, in forza
della mancata rimozione del materiale a terra, risulterebbemolto dannosa.
Qual'è
il paesaggio, l'ambiente
"naturale"? In Europa riguarda ambiti molto ristretti; sono pochissimi,
tolti quelli delle rupi, i paesaggi con copertura vegetale del tutto
naturali. Dune, rive di fiumi, zone umide (percepiti, giustamente come
paeseggi ad elevata naturalità) sono stati oggetto di modificazioni in
relazione a forme di raccolta, pascolo, interventi idraulici eseguiti
in loco o altrove. Non esistono poi foreste vergini se non allo stato
reliquiale. La stragrande maggioranza dei boschi (e delle formazioni
arboreo-arbustive come la macchia mediterranea) è di tipo "secondario",
cioè è succeduta a forme di intervento antropico (fuoco, pascolamento,
dissodamento). In larga misura il bosco attuale è succeduto a campi,
pascoli, che hanno comunque modificato stabilmente le condizioni del
suolo. La pretesa di separare ambienti e paesaggi "naturali" da
quelli "antropici" è vana, ideologica. Possiamo solo parlare di elevata
naturalità
o di elevato intervento ("disturbo") antropico. L'uomo non è un
marziano; è un animale e fa parte dell'ecosistema. Fino a quando gli
ecosistemi in cui si inserisce mantengono una complessità e una
resilienza tali da garantire un soddisfaciente equilibrio è fuorviante
accusare l'uomo di creare un ambiente artificiale. Le metropoli, le
megalopoli lo sono, consumano energia e materie prime non rinnovabili a
un ritmo insostenibile. La stessa agricoltura industriale trasforma la
campagna, con i suoi paesaggi semi-naturali, l'ancora ricca presenza di
specie selvatiche, la presenza di reti ecologiche, di catene trofiche ,
in una landa desolata dove la massima aspirazione è (almeno in un
periodo dell'anno) limitare la presenza delle specie vegetali a una
sola, previa irrorazione di pesticidi. Quella falsa dicotomia tra il
naturale (il parco come santuario) e l'antropico, quel mettere sullo
stesso piano l'uomo contadino in simbiosi con animali, piante, microbi,
consapevole dei limiti dell'agire umano, rispettoso delle forze
cosmiche con le quali ricerca la sintonia con l'agire dele
multinazionali a chi giova? Non certo al contadino, al pastore che - in
quanto reo di "disturbo antropico" viene sottoposto a vincoli e
limitazioni (finalizzate a "rispettare l'ambiente") che , in un
contesto di aggravi burocratici e di prezzi trascinati al ribasso dalla
globalizzazione (i prodotti del contadino sono "messi fuori mercato" in
nome del liberismo con quelli di prodotti provenienti da realtà con
soglie molto più basse di rispetto dei diritti dei lavoratori e di
tutela ambientale e della salute).
A chi giova l'impostazione ambientalista
manichea allora? A chi ha le risorse per dimostrare, con abili giochi
di prestigio, che i propri processi produttivi sono "sostenibili", per
acquistare le ecoindulvenze vendute dagli ambientalisti, per finanziare
"aree protette" o campagne strappalacrime a favore degli orsi polari.
Intanto in Italia, nelle nostre regioni, nelle nostre valli e colline
cosa è in atto? Una gigantesca trasformazione del paesaggio rurale, con
tutti i suoi quadri differenziati in un "paesaggio dell'abbandono".
Invece che preoccuparsi di questo processo troppo rapido
l'ambientalismo in pantofole gioisce in modo irresponsabile per
ogni milionata
di ettari in più di boscaglia (estesa a danno di prati e pascoli).
Gioisce in forzadella
sedimentazione e
all'interiorizzazione dell'ideologia ambiental-parchista con la sua
dicotomia artificiosa tra "naturale" e "antropizzato". Tutto ciò che è
semi-naturale è stato, almeno a livello dell'immaginario ambientalista
corrente, svalutato non corrispondendo ai canoni dei documentari
televisivi sui national park del mondo. Quando le organizzazioni
ambientaliste sono costrette ad entrare nel merito di queste
trasformazioni del territorionon possono indulgere al trionfalismo ma
sono loro che hanno diffuso la cultura "verde" (quella dell'acritico
"bosco è bello, lupo è bello").
Anche l'abbandono della montagna è un
"effetto antropico", così drastico, così rapido, così esteso appare
quale un fenomeno poco naturale e comunque poco suscettibile di
generare riequilibri ecologici a breve
L'ambientalismo non si limita peraltro a
gioire per la perdita di milioni di ettari di terreni coltivati ma
cerca di pilotare a vantaggio della sua visione ambientale distorta i
processi in atto. Alla dinamica vegetazionale che si instaura sulle
superfici dove cessano le pratiche tradizionali si sono associati
interventi di reintroduzione della fauna ungulata, poi dei grandi
predatori. La miopia e la compartimentalizzazione corporativa del mondo
venatorio ha assecondato queste tendenze favorendo la proliferazione
del cinghiale (meno sostenibile di quella di altri ungulati quali i
cervidi). La diffusione dei cinghiali ha contribuito non poco
all'abbandono del territorio agrosilvopastorale e ad una caotica
"rinaturalizzazione". Nel mentre i cinghialisti celebravano i
loro fasti, si sono però create le condizioni - danni a quello che
rimane dei coltivi, incidenti stradali - per poter invocare, da parte
ambientalista, il riequilibrio naturale con i grandi predatori. Negli
auspici degli ambientalisti tutti gli ungulati dovrebbero essere
"regolati" dal lupo e la caccia potrebbe, finalmente, essere abolita.
Intanto, però, la sorprendentemente rapida espansione del lupo impatta
sul pastoralismo e i sistemi di allevamento estensivi.
Così il quadro, dopo decenni di graduale
abbandono delle pratiche agricole, pastorali, selvicolturali è
caratterizzato da:
- Una rapida espansione delle superfici a
copertura arborea per
la chiusura dei quadri vegetazionali "a mosaico", con presenza di erbe
alte, arbusti ali e bassi, alberelli formatisi nella fase
successiva all'abbandono o alla forte estensivizzazione delle pratiche
agropasatorali;
-
Forte aumento della biomassa nei vari strati orizzontali del profilo
della vegetazione e del rischio di innesco di pericolosi incendi che
non si limitano agli strati inferiori ma interessano le chime degli
alberi:
-
Perdita di biodiversità in relazione alla diminuzione di uccelli e
insetti che trovavano condizioni di alimentazione, nidificazione,
rifugio nel quadro di attività di pascolamento estensivo.
Biocenosi favorite dalle attività pastorali
estensive
L'ideologia
ambientalista che a denti stretti ha dovuto accettare che la diversità
genetica delle specie domestiche è un valore importante continua a
sottovalutare (poer ovvi motivi) la stretta relazione tra
agribiodiversità e biodiversità selvatica. La zootecnia e l'agricoltura
industriali tendono alla distruzione della biodiversità. Il business
utilizza le razze con il massimo potenziale produttivo, la genetica
individua questo potenziale e la tecnologia si incarica di gestire
condizioni di allevamento, alimentazione ecc. che consentano di
esprimere detto potenziale, in parole schiette di "pompare" gli animali
al massimo con mangimi, farmaci, integratori. Negli Usa e in Cina le
aziende di vacche da latte raggruppano decine di migliaia di capi (40
mila nell'azienda cui si riferisce l'azienda cinese della foto sotto).
I costi fissi sono elevati e per ammortizzarli servono animali molto
produttivi.
Se nel mondo tutti gli allevatori
seguissero l'orientamento superindustrializzato l'unica razza al mondo
resterebbe la Frisona, quella con più elevate produzioni. Come illustra
la foto gli allevamenti industriali sono industrie dove arriva il
mangime ed escono i reflui zootecnici. Le vacche si alimentano di soja,
mais e poche altre piante coltivate in condizioni di monocoltura dove i
campi (spesso lontani centinaia se non migliaia di km) sono irrorati di
pesticidi per non far crescere altre piante e uccidere gli insetti. In
queste condizioni anche gli animali sono pochissimi, pochi gli
animaletti del terreno, pochi anche i microbi. Non si parla di uccelli
(non hanno né da mangiare né dove rifugiarsi).
La
grigia. Inserita nell'ecosistema di prati e pascoli della montagna
alpina
Tutt'altre
condizioni dove gli animali possono accedere ai pascoli o si alimentano
con fieno. I pascoli sono superfici dove non si lavora il terreno, dove
non si concima se non con gli escrementio lasciati sul posto dagli
animali, dove non si diserba e si lascia che si insedino spontaneamente
le piante. I prati (prati-pascoli se si alterna nello stesso anno
sfalcio del fieno e pascolo) non sono lavorati (possono essere "rotti"
ogni qualche decina di anni o meno per seminare patate o eseguire altre
coltivazioni), sono concimati con il letame prodotto dalle vacche
stesse che contiene i semi delle stesse piante affienate, non sono
diserbati. Non "disturbati" i pascoli e i prati sono ricchi di fauna
(macro e micro) in essi trovano habitat piccoli mammiferi, insetti,
uccelli. Se lo sfruttamento è moderato (si concima ma non troppo) si
osserverà anche un massimo di biodiversità botanica che significa che
in un solo metro quadro possiamo trovare decine di piante diverse. Uno
sfruttamento troppo intenso o, al contrario, troppo poco intenso
riducono la biodiversità e rompono una situazione di equilibrio per
portare in un senso e nell'altro al degrado. Se lascio brucare troppo,
se taglio troppo frequentemente resistono solo le piante di bassa
taglia che hanno organi di riproduzione vegetativa a livello del
terreno e che amano ricevere molta luce e l'ariaasciutta; il suolo
resta poco protetto da residui pagliosi delle piante a fine ciclo e può
innescarsi erosione e/o sviluppo di piante spinose in grado di
difendersi efficacemente dal morso animale. Se bruco poco e taglio poco
favorisco le piante di alta taglia che sopportano la mancanza di forte
luce, che lasciano al suolo più biomassa lignificata, che favoriscono
un ambiente al suolo umido e buio adatto all'instaurazione di piante
legnose (prima piccoli arbusti, poi grandi arbusti, poi alberelli). In
un caso e nell'altro poche piante specializzate resistono ad un eccesso
di sfruttamento o a uno sfruttamento minimo. Con uno sfruttamento medio
si favorisce un gran numero di specie e il prato/pascolo sarà ricco di
diversità ma anche di colori e di fioriture e quindi di insetti
impollinatori (comprese sgargianti farfalle) attratti dai fiori ma di
fitofagi attratti dalla varietà di menù. Gli insetti attraggono i loro
predatori
e così via.
Crepis aurea. Habitat Pascoli
mesofili microtermi
I
prati e i pascoli hanno un altro grande vantaggio dal punto di vista
ecologico: sono spesso alternati a boschetti, zone umide, rocce, in
forza stessa delle caratteristiche morfologiche variegate dei versanti.
In generale dove il terreno è in pendenza e la pendenza non è uniforme
è naturale che, in funzione dell'esposizione al sole e del drenaggio,
si creino ambienti più o meno umidi. L'uomo montanaro ha saputo
valorizzare la "vocazione" delle superfici lasciando il bosco qui e
coltivando prati e campi la. La grande parcellizzazione delle proprietà
(legata all'esigenza di distribuire in diverse località i campi per
ridurre i rischi - spesso molto localizzati - legati alla caduta della
grandine, di una tromba d'aria o di altre avversità) con l'abbandono ha
creato una situazione a patchwork con fazzoletti coltivati e altri no.
Qui erba alta, la un prato ben tagliato. Questo effetto non si osserva
sui pascoli che, in genere sono superfici di decine e decine, se non di
centinaia, di ettari. Qui, però, giocano altri fattori. Un tempo
"mangiati" sino all'ultimo ciuffo d'erba in modo uniforme (non per
colpa dei montanari ma di rotture di equilibri eco-economici provocate
dalla realtà politica ed economica esterna alla società contadina
locale) i pascoli montani sono graduelmente stati oggetto di un minor
utilizzo (a causa del minor numero di animali allevati e della tendenza
a non monticare il bestiame da latte che anche in montagna, in anni
recenti, è stato "pompato" a mangimi). Nello
stesso pascolo, nello stesso alpeggio lo sfruttamento si è gradualmente
limitato alle aree più facilmente gestibili (specie se si pratica
ancora la mungitura) trascurando quelle più periferiche e
declivi. Per un certo numero di anni questa situazione favorisce
un "mosaico" di superfici che, a breve distanza le une dalle
altre, possono essere "rasate", pascolate in modo "leggero" o del tutto
trascurate.
Se,
come visto precedentemente, se su un determinato prato o pascolo la
biodiversità è massimizzata da un grado di utilizzo medio, nell'insieme
di superfici "mosaicizzate" è un grado medio-basso che garantisce la
massimizzazione della biodiversità (numero di specie botaniche, insetti
ecc.) per unità di superficie (a questo punto il saggio su superfici di
un metro quadrato non ci serve più e ci serviranno dei transetti di
decine di metri). Perché il "mosaico" è un paradiso di biodiversità?
Per due motivi: vi sono tanti tipi di patch (piccole aree a erba bassa,
a erba alta, a cespuglietti, che poi sono le ericacee, a cespugli, ad
arusti alti, più arbusti isolati in mezzo all'erba bassa (un ginepro,
una rosa canina). Non solo ma all'interfaccia tra le dette superfici
c'è un "orlo" una sottile fascia di transisizione caratterizzata da
specie particolari. Si potrebbe proseguire con le specie erbacee
che trovano il loro habitat all'ombra dei cespugli ecc.
Quando
si dice che tutto ciò resta in equilibrio con un grado medio-basso di
pascolamento significa che in pochissime stagioni con una intensità di
pascolamento bassa tendente al nulla (come avviene troppo spesso - ci
torneremo oltre - con le misure attualmente in essere che impegnano
enormi risorse finanziarie). La vegetazione è in stato altamente
dinamico, in 2-3 anni un pascolo cambia faccia, sia in bene che
in male. Gli isolotti a erba bassa (graminaceae a basso portamento
dalle lamine sottile e succulente) che ancora richiamano i bovini si
chiudono rapidamente ("conquistati" dai cespi in espansione di
graminacee ad alto portamento e pertanto con i culmi molto lignificati
e rifiutate dal bestiame). Niente pascolo bovino, niente fatte, meno
fertilità, meno graminacee, condizioni più favorevoli alla
germinazioine di semi di piante legnose. La progressione
vegetazionale può essere rapida o lenta in funzione di vari fattoir
stazionali (altitudine, esposizione, ricchezza del terreno) ma una cosa
è certa: il "paradiso della biodiversità" che è subentrato al crollo di
utilizzo della montagna negli anni Settanta è ormai da archiviare. La
forte contrazione della tipica avifauna alpina è lì a testimoniarlo e
presto, anche per la fauna ungulata - che sta ancora approfittato
dell'aumento delle superfici a copertura forestale, arriverà una caduta
verticale di disponibilità trofiche quando le suddette formazioni
acquisiranno una struttura più chiusa (senza piante erbacee e piccoli
arbusti nel sottobosco).
I
colori autunnali aiutano ad apprezzare meglio la varietà di copertura
di questo lariceto dove sono ancora presenti isolotti a copertura
erbacea e dove lo sviluppo lineare dell'orlo vegetazionale è massimo.
Ma questo stadio che rappresneta un habitat ideoale per i tetraonidi è
transitorio e prelude a una omogeneizzazione delle superfici
Un
fatto che i naturalisti di ogni sfaccettatura non possono ignorare. E
come si concilierà la curva di crescita del lupo, ancora forte nei
prossimi anni con una dinamica di declino degli ungulati? Non c'è
bisogno di grandi studi specialistici per capire che il capriolo in
primavera, prima dell'emissione delle gemme arboree riesce a superare
la crisi di fine inverno (esaurimento riserve adipose) brucando i primi
ricacci delle radure e degli orli forestali. Quanto al cervo
sanno bene i contadini "alleggeriti" dei loro raccolti di fieno quanta
erba consuma. E quando non ci saranno più contadini,
prati, radure cosa si farà? Andranno i fan urbani del lupo a tagliare
cespugli o pagheranno qualcuno di tasca loro per farlo al loro
posto? Queste prospettive, per quanto possano sembrare alquanto
bizzarre, paiono le uniche atte a prevenire un crollo di biodiversità,
un impoverimento di specie animali e vegetali senza precedenti.
Così
come gli habitat del periodo storico successivo all'abbandono (parliamo
di decenni, mezzo secolo e, a volte, più) hanno goduto di un aumento di
biodiversità tanto significativo quanto transitorio e "drogato"
(dopo tutto anche l'abbandono è un "influsso antropico"), così il
periodo storico successivo alla chiusura (in atto) delle formazioni
boschive sarà caratterizzato da una crisi che determionerà l'estinzione
di molte specie. Vero è che dopo molti decenni sarà raggiunto un nuovo
equilibrio, ma in questi processi non esistono automatismi, non è certo
né prevedibile il percorso di raggiungimento di un climax (un altro di quei concetti
come il "vertice della piramide alimentare" che in natura non sono così
univoci come nelle semplificazioni teoriche dei naturalisti). Dal
momento che altri tipi di "influenze antropiche" continueranno a
"interferire" nel processo di riequilibrio si deve prevedere che questo
non sarà indolore. A parte la perdita irreversibili di specie
l'equilibrio potrebbe non essere raggiunto o potrebbe essere raggiunto
solo in tempi lunghissimi a causa di fattori quali l'insorgenza di
avversità biotiche e abiotiche a danno della vegetazione, di epidemie
nelle popolazioni animali, di incendi e di frane. Una cosa possiamo
prevedere già ora, dal momento che vediamo i forti scompensi nella
struttura e nella dinamica di popolazione provocati dalla
reintroduzione del lupo sulle popolazioni di ungulati selvatici: la
capacità degli ungulati selvatici di mantenere (in presenza
dell'abbandono delle attività pastorali) spazi aperti nell'ambito delle
formazioni forestrali e superfici "a mosaico" ai loro margini sarà
compromessa da fluttuazioni demografiche e da un effetto che il
meccanicismo dei modelli di predazione dei lupologi non tiene
abbastanza in considerazione: la paura.
Lezioni da Yellowstone
Il
comportamento dei cervidi in presenza del lupo è fortemente modificato
e ciò non è privo di conseguenze per l'ecosistema in cui essi sono
inseriti come consumatori erbivori.
Per
paura del lupo i cervidi evitano gli spazi aperti dove sono più
vulnerabili all'attacco o, se li frequantano, lo fanno per tempi
minori, in ogni caso pascolando meno, asportando meno biomassa. Da
questo punto di vista il partito del lupo si danneggia con le proprie
mani quando strombazza i risultati degli studi sul riequilibrio della
vegetazione nel Yellowstone National Park, USA seguito alla
reintroduzione (venticinque anni da) del lupo.
Il
sovrapascolamento da parte dei cervi, la cui popolazione in assenza del
lupo (eliminato negli anni Venti del Novecento) era troppo cresciuta e
aveva radicalmente modificato la vegetazione: i boschetti di pioppi e
salici erano spariti e con essi gli uccelli. In realtà non si dice che
i cervi erano predati anche dall'uomo: dai nativi e dai colòni bianchi
poveri che li cacciavano per la carne e la pelle.Tolti di mezzo tutti i cacciatori le popolazioni di cervo esplosero.
Quello che più conta
(vedremo subito il perché) è che i castori erano rimasti senza cibo e
materiale di costruzione delle dighe. La paura del lupo, oltre che la
predazione in quanto tale hanno ridotto la pressione dei cervi sulla
vegetazione e gli alberi sono tornati. Ma per la salvaguardia della
biodiversità alpina c'è proprio bisogno che i cervi tengano aperte le
radure e mantengano gli orli boschivi. La lezione di Yellowstone, però,
ci racconta anche dell'altro: il lupo non è quello che l'ideologia
ambientalista ci vuol far credere. Non esiste la magia, la bacchetta
magica Tom Hobbs, professore di ecologia dell'Università del
Colorado ed esperto di Yellowstone ha commentato la vicenda del lupo You put the predator back, that’s great,
but conditions have changed so much in the intervening decades that
putting the predator back is not enough to restore the ecosystem.
E aggiunge: This idea that
wolves have caused rapid and widespread restoration of the ecosystem is
just bunk. It’s just absolutely a fairytale. (5)
Aldo Leopold, conservazionista e cacciatore
La
reintroduzione del lupo a Yellowstone ci insegna che in ecologia
il fattore tempo non può essere dimenticato. Solo la lupomania più
becera può far credere che reimmettendo il predatore dopo un secolo, un
ecosistema ritorni per incanto quello di prima. Va richiamato il fatto
che Yellowstone rappresenta una realtà emblematica per il
conservazionismo ideologico e la lupofilia organizzata (più o meno
fornitasi di mascherature scientifiche). Infatti fu lo stesso Aldo
Leopold (1887–1948),
padre fondatore del conservazionismo, creatore della prima area
wilderness, ad auspira, sin dal 1944, la reintroduzione artificale del
lupo a Yellowstone. A lui si deve l'idea misticheggiante
dell'equilibrio da ristabilire, idea che poi, nel tempo, la componente
accademica del movimento conservazionista ha cercato di fondare su basi
scientifiche. Leopold valutava la necessità della reintroduzione del
lupo dove si era estinto sulla base delle pesanti conseguenze del
sovrapascolamento da parte degli popolazioni di erbivori selvatici
nelle condizioni del west americano. La maggior parte delWyoming (lo
stato di Yellowstone), classico stato di "cow boy" è caratterizzato da
aree desertiche e semi-desertiche dal momento che la piovosità media è
tra i 300 e i 400 mm di pioggia
(Yellowstone consiste in altipiani a 2400 m di altitudine media e gode
quindi di piovosità molto più elevata). Buona parte del west è
quindi in condizioni di estrema fragilità ambientale ed è di
fronte al degrado ambientale causato dalla fauna erbivora domestica e
selvatica in questo contesto che Leopold ha sviluppato il suo concetto
del "lupo salvatore".
Oggi
vi è una discussione ancora aperta sul ruolo del lupo nel ristabilire
migliori condizioni ecologiche a Yellowstone (il trionfalismo dei
lupofili è contestato da altri studiosi) ma nel 1997, due anni dopo che
il primo lupo era stato lanciato a Yellowstone le argomentazioni di una
sostenitrice della reintroduzione non lasciano molti dubbi sulla
impossibilità di separare motivi scientifici, ideologici,
politici nelle motivazioni dei due opposti campi:quello conservazionista e quello che si oppone alla reintroduzione
. Con la differenza che il conservazionismo si fa forte di
argomentazioni scientifiche o presunte tali mentre chi si oppone alla
reintroduzione, oltre ad argomenti scientifici non rinuncia ad avanzare
con franchezza i motivi sociali ed economici a giustificazione della
posizione sostenuta. In un intervento a un seminario all'Università
della California (6) dal titolo Why we need wolves in Yellowstone
[Perché sono necessari i lupi a Yellowstone] Christine Hager,
utilizzando argomentazioni utilizzate ancora ai nostri giorni e dalle
nostre parti, sosteneva con fare sprezzante a proposito degli
oppositori del progetto: what is their reasoning behind this idea? Mostly fear and ignorance. L'argomento
degli oppositori semplicemente non esiste perché secondo i
conservazionisti le uniche argomentazioni razionali sono le loro. Chi
si oppone lo fa per paura e ignoranza. Un atteggiamento diventato
famigliare oggi non solo riguardo ai dibattiti in materia ambientale.
Tutte le volte che i tecnocrati e l'elite vengono contestati e sorge
una forma di opposizione popolare, specie quando si tratta di
immigrazione, reagiscono attribuendola alla paura irrazionale e
all'ignoranza del "popolino". Quanto poi al fatto che la "necessità"
del lupo (e degli altri grandi predatori) venga fatta discendere non da
condizioni ecologiche concrete ma da "idee generali" lo rivela un'altra
asserzione della conservazionista: What cattle and sheep do to the environment is far worse than any wolf invasion could ever do. Dove, quando? Secondo
un copione che prosegue da decenni in quella perorazione a favore dei
lupi di Yellowstone la Hager per sostenere la bontà (a priori) della
reintroduzione citava uno dei soliti "dogmi" della lupologia Almost
every single kill examined from Minnesota through Idaho has shown the
dead animal to have been either young, old, ill, or injured. Quante
volte lo ripetono i predicatori della causa del lupo: uccide solo
animali deboli, malati, giovani, vecchi, feriti. Ovvero fa opera di
miglioramento della popolazione, contiene le malattie, elimina animali
inutili (i vecchi) o le troppe bocche da sfamare (i giovani). Non è
così o non è sempre così. Ma va fatto credere che sia così. Non si deve
riconoscere che l'ideologia conservazionista vuole il lupo perché gli
piace, perché eccita la fantasia, emoziona e crea autoidentificazione
(non a caso i lupologi, in apparente contraddizione con argomentazioni
pretese razionali e autosufficienti, non mancano mai di sottolineare
l'importanza delle dimensione mitica del lupo).
Una diga di castori a Yellowstone
Cosa
è successo a Yellowstone? La vegetazione di salici (Salix bebbiana, S. boothii, S. lutea, e S. geyeriana) e pioppi (Populus tremuloides) dipende dalla
presenza dell'acqua. La ripresa della vegetazione (cresciuta di taglia,
estensione) a causa della diminuzione dei cervi è avvenuta dove vi
erano ancora ruscelli. Nelle zone, invece, dove i castori erano
scomparsi (non trovando abbastanza cibo e materiale da costruzione
delle dighe) il sistema idraulico garantito dai castori (laghetti,
ruscelli) è venuto meno e i ruscelli hanno cessato di scorrere. In
alcuni siti, lentamente, i castori torneranno, in altri no, lupi o non lupi. Perché è
passato troppo tempo e le modificazioni sono diventate irreversibili.
La
visione meccanicistica della scienza conservazionista, che forse non
ha ancora imparato la lezione della fisica quantistica che ha indotto
le scienze in generale a tenere in considerazione l'elemento
probabilistico, le possibilità multiple, gli equilibri instabili, non
funziona. Il conservazionismo solo timidamente inivia ad essere
consapevole dell'incertezza della realtà ecosociale con cui si trova a
operare nonostante il principio sia ormai riconosciuto
(7). I modelli semplici si prestano (troppo) bene a sostenere
l'ideologia conservazionista. Ma a
parte queste considerazioni sulla reversibilità e irreversibilità dei
processi ecologici a Yellowstone la favola del lupo che "restaura" un
magnifico ecosistema è stata messa in discussione anche dai ricercatori
che hanno studiato l'impatto della prodazione del grizzly sui giovani
cervi. La diminuzione della popolazione dei cervi (con i suoi effetti a
cascata sulla biocenosio) è dovuta anche all'orso che si è trovato da
vent'anni a questa parte, a disporre di un minor quantitativo di trote.
È successo che, ai tempi della reintroduzione del lupo, sono stati
anche ripopolati degli specchi d'acqua con le trote perché la
popolazione autoctona era stata falcidiata da malattie. Ma queste
trote, a differenza di quelle che popolavano in precedenza le acque
hanno manifestato un comportamento diverso, preferendo come habitat le
acque profonde, dove gli orsi non possono predarle. Così hanno dovuto
modificare la dieta: meno pesce e più carne di cervo. Si tratta di un non raro caso di interferenza umana nei
"sacri parchi" dove, nel tempo, si sono succeduti interventi di
"correzione" e iniziative (strade, alpberghi, aree di sosta e panoramiche) attuate per facilitare il turismo e
attrarre il dio dollaro.
A seguito di tutto ciò la bioviversità nei
parchi è spesso diminuita e si sono perse molte specie. Ma questo si
preferisce non dirlo. Si potrebbe concludere che i "pigri"
nativi avrebbero difeso molto meglio la "terra ricca di doni" di
Orso in piedi. Così come potrebbero fare anche oggi molti popoli
tribali scacciati dalle loro sedi native dagli squadroni armati
finanziati dai conservazionisti. La lezione di Yellowston, con i suoi nessi imprevisti tra trote e cervi, oltre
a insegnare una maggiore prudenza ai lupologi che hanno utilizzato e
utilizzano al massimo a fini propagandistici il caso Yellowstone, ci dice che
anche in un grande National Park le "interferenze umane" sono, al di là di errori, difficilmente evitabili.
In generale il conservazionismo si rende conto che i nessi tra
sistemi naturali e umane sono inestricabili (8) e che ogni
intervento porta a conseguenze non prevedibili. Se pensiamo ai
nostri National Park, che sono degli
orticelli in confronto di quelli americani, con la speculazione
edilizia ai confini, la frequantazione turistica, le attività
antropiche tradizionali (penalizzate e vincolate ma non eliminate come
è successo solo nel parco svizzero confinante con lo Stelvio), ci
rendiamo conto della complessità delle influenze in gioco e della
presunzione dei lupologi che
"giocano
a Dio". Se pensiamo ai nostri territori alpini segmentati dalle
autostrade e dalle ferrovie, e da tante altre barriere ecologiche viene
da chiedersi se il "gioco" del riequilibrio tra prede erbivore e
territorio possa veramente realizzarsi grazie alla rentroduzione del
predatore animale o se, in relazione alla maggiore mobilità mdi
quesat'ultimo rispetto alle prede erbivore queste ultime non possano
localmente soccombere per un declino demografico e una diminuzione in
terminia assoluti dello stock non compatibile con la vitalità della
popolazione. La
miracolosa azione del lupo sugli equilibri ecologici potrebbe essere
considerata presunzione ingenua,
se non sapessimo - anche sulla bse dei precedenti conservazionisti in
Europa e nel modo che i nostri lupologi, i "signori del lupo" sono in
perfetta cattiva fede e non nascondono (loro o comunque i loro sponsor)
scopi inconfessabili, ben diversi
da quelli buonisti dichiarati. Nemmeno poi peregrini se si pensa che ne
mondo le aree protette sono "casualmente" ricche di minerali, uranio,
petrolio, acqua, diamanti, legno pregiato, piante con proprietà
farmaceutiche ecc..
Le formazioni vegetali "antropogeniche"
sono considerate tra gli habitat prioritari di tutela (ma va?)
La
capacità di catalizzare l'attenzione del dibattito ecologico sul lupo
(e in minor misura dagli altri grandi carnivori) è frutto della forza
lobbystica del partito del lupo e della sua forte organizzazione a
livello internazionale ma anche del favore dei grandi interessi
economico-finanziari (come testimonia la sempre pronta disponibilità
dei giornaloni, dei media della finanza a dare spazio alle tesi pro
lupo). Grazie a questa egemonia nel dibattito pubblico il partito del
lupo riesce a far dimenticare che la politica di protezione
dell'ambiente è rivolta anche agli habitat seminaturali. La famosa
Direttiva Habitat (92/43/Cee del Consiglio
del 21 maggio 1992), che pastori e allevatori associano alla
super-protezione del lupo è
relativa alla conservazione degli
habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche.
A tutela della fauna selvativa vi è anche la Direttiva
Uccelli (79/409/Cee del Consiglio, del 2 aprile 1979)
relativa
alla conservazione degli uccelli selvatici. Torneremo più avanti sugli
uccelli. Ora ci preme sottolineare come la Direttiva Habitat indichi
come la conservazione di determinati habitat sia considerata
prioritaria. Se, grazie a un falso ideologico per il quale il lupo
viene surettiziamente considerato ancora "specie a rischio", la
conservazione del canide è prioritaria, va anche detto che è
prioritaria anche la conservazione di alcune importanti e diffuse
formazioni erbacee seminaturali a pascolo e prato-pascolo che la
diffusione del lupo minaccia di far regredire. L'elenco degli habitat
protetti è contenuto nell'Allegato
I della Direttiva Habitat. Sono considerati 9 categorie di habitat
in base alla vegetazione. Tre categorie sono di nostro interesse.
Habitat protetti e prioritari Direttiva
Habitat - Natura 2000 (in grassetto gli habitat prioritari)
Categoria
|
Tipo di habitat
|
4 Lande e arbusteti temperati
|
4070
Boscaglie di Pinus mugo e Rhododendron hirsutum (Mugo-Rhododendretum hirsuti) |
5. Macchie e boscaglie di slerofille |
5130
Formazioni a Juniperus communis su lande o prati calcicoli |
6. Formazioni erbose naturali e
seminaturali |
6170
Formazioni erbose calcicole alpine e subalpine;
6230 Formazioni erbose a Nardus, ricche di specie, su substrato siliceo
delle
zone montane;
6210 Formazioni
erbose secche seminaturali e facies coperte da cespugli su substrato
calcareo (Festuco- Brometalia)
(
stupenda fioritura di orchidee);
6240* Formazioni erbose sub-pannoniche
[clima contintale, es. alta Valtellina, val Venosta]
6410 Praterie con
Molinia su terreni calcarei, torbosi o argilloso-limosi (Molinion caeruleae);
6510 Praterie
magre da fieno a bassa altitudine (Alopecurus
pratensis, Sanguisorba officinalis)
6520 Praterie
montane da fieno
Proposta di ulteriore habitat: pascoli montani mesofilo subalpini del Poion alpinae
|
6510 Praterie magre da fieno a
bassa altitudine (Alopecurus
pratensis, Sanguisorba officinalis)
I
codici legati agli habitat sono quelle della rete Natura 2000 istituita
con la Direttiva Habitat e la Direttiva Uccelli. a rete Natura 2000 è
costituita dai Siti di Interesse Comunitario (SIC), identificati dagli
Stati Membri secondo quanto stabilito dalla Direttiva Habitat, che
vengono successivamente designati quali Zone Speciali di Conservazione
(ZSC), e comprende anche le Zone di Protezione Speciale (ZPS) istituite
ai sensi della Direttiva
Uccelli concernente la conservazione degli uccelli selvatici. La
rete, che comprende il 20% del territorio terrestre dell'Unione
europea, è stata concepita in omaggio al criterio che le specie di
particolare valore ecologico e/o a rischio di estinzione possono essere
conservate sono nel contesto di habitat.
La
Direttiva Habitat intendeva garantire la protezione della natura
tenendo
anche conto delle esigenze
economiche, sociali e culturali, nonché
delle particolarità regionali e locali (Art. 2). La
Direttiva riconosce il valore di tutte quelle aree nelle quali la
secolare presenza dell'uomo e delle sue attività tradizionali ha
permesso il mantenimento di un equilibrio tra attività antropiche e
natura. Alle aree agricole, per esempio, sono legate numerose specie
animali e vegetali ormai rare e minacciate per la cui sopravvivenza è
necessaria la prosecuzione e la valorizzazione delle attività
tradizionali, come il pascolo o l'agricoltura non intensiva. Nello
stesso titolo della Direttiva viene specificato l'obiettivo di
conservare non solo gli habitat naturali ma anche quelli seminaturali
(come le aree ad agricoltura tradizionale, i boschi utilizzati, i
pascoli, ecc.). Tutti ciò sembrerebbe poter fornire un contrappeso al
naturalismo hard che mira alla cessazione delle attività tradizionali e
alla "rinaturalizzazione". In realtà le cose non stanno per nulla così:
i siti Natura 2000 hanno assunto il carattere
di "aree protette" dove l'attività antropica tradizionale (sfalcio,
pascolo), è localmente sottoposta a restrizioni e vincoli (epoche,
superfici,
carichi) da parte di una tecnoburocrazia "naturalistica" che mal
digerisce l'idea ecologica che formazioni di origine antropica
"secondarie" possano assumere valore naturalistico.
6230
Pascoli a Nardus stricta
L'idea
di questi tecnoburocrati "naturalisti" è che "meno si pascola, meno si
disturba più si naturalizza". Ma porre ulteriori restrizioni a forme di
utilizzo che sono già molto estensive (altrimenti non continuerebbe
l'avanzata dei boschi) significa decretare che lo status quo deve
evolversi verso qualcosa di "più naturale". Così lo spirito di Natura
2000 è stato tradito (almeno in Italia). Così gli habitat prioritari
sono protetti solo sulla carta. Un tradimento facilitato dalla
procedura introdotta dalla Direttiva Habitat stessa che prevede la Valutazione d'incidenza, ovvero il
procedimento di
carattere preventivo, condito di firme di tecnici abilitati al quale è
necessario sottoporre qualsiasi intervento che possa
avere incidenze significative su un sito o proposto
sito della rete Natura 2000. In regione Lombardia, per fortuna, per interventi minori
è possibile, compilando apposita modulistica di screening predisposta
dagli enti gestori, evitare l'oneroso Studio di indicenza Anche
queste procedure, in ogni caso, appaiono come un modo per rendere inefficace uno strumento che sulla carta
dovrebbe tutelare il secolare equilibrio antropico finisce per spingere
per il rewilding.
L'avifauna tipica montana:
l'evidente presenza di stretti legami ecologici con il pastoralismo
Quando
i naturalisti sostengono che un prato, un pascolo hanno "scarso valore
naturalistico" (a meno che non vi siano orchidee e altri fiori
"pregiati") dimostrano di avere della "naturalità" un'idea preconcetta,
ideologica, che non riguarda la ricchezza di specie presenti, di nessi
ecologici, le caratteristiche di resilienza ma che opera sulla base di
una svalutazione aprioristica per tutto ciò che può comportare utilità
per l'uomo e che reca una sua impronta. Poco importa se è una impronta
virtuosa e leggera o devastatrice, se l'influenza antropica è di tipo
simbiontico o predatorio. L'uomo "contamina" la pretesa purezza
verginale della natura. C'è materia per lo studio degli archetipi e dei
miti primordiali ma come posizione "scientifica" fa acqua da tutte le
parti. Peccato che rappresenti ancora la visione dominante tra gli
addetti ai lavori. Chio si occupa di avifauna dovrebbe aver però ben
chiaro che, nel bene e nel male, la ricchezza ornitica di un territorio
è legata ai suoi sistemi agricoli: un sistema agroindustriale decima le
specie presenti (che spesso si riducono ai corvidi uccelli
opportunisti: cornacchia grigia, gazza ladra). Viceversa sistemi
agricoli tradizionali favoriscono la presenza di moltissime
specie, molte più dei boschi. Un semplice schema di ripartizione
dell'habita delle specie di uccelli europei aiuta a comprendere il
concetto dell'alleanza tra avifauna e agricoltura contadina.
Tabella.
Distribuzione dell'avifauna terricola europea per tipo di
habitat
Habitat
|
Nidificazione
|
Alimentazione
|
suolo
nudo
|
18
|
40
|
prateria
(bassa)
|
62
|
57
|
prateria
(alta)
|
81
|
47
|
brughiera
|
20
|
12
|
foresta
|
76
|
30
|
Totale
|
257
|
186
|
Solo
il 29% delle specie dell'avifauna nidifica in ambiente forestale e
ancor meno, 16%, si alimenta in questo habitat. Se l'Europa si
rinaturalizzasse, tornando ad essere un'unica estesissima foresta
interrotta da cime rocciose, dune, letti sabbiosi fluviali, e poche
altre nicchie dove il suolo, per qualche ragione, non è coperto di
vegetazione boschiva, buona parte dell'avifauna scomparirebbe. Se poi
guardiamo alla situazione italiana scopriamo che molte delle specie di
uccelli a rischio di estinzione vivevano in simbiosi con il
pastoralismo e l'agropastoralismo.
L'avifauna particolarmente protetta che
stiamo perdendo
Specie particolarmente protette dalla
Direttiva Uccelli (Direttiva n. 79/409/CEE relativa alla conservazione
degli uccelli selvatici)
condizionate
negativamente dall'abbandono delle pratiche agropastorali tradizionali.
La maggior parte delle altre specie della "lista rossa" appartengono
all'avifauna legata alle aree umide. Mentre per la maggior
parte delle specie non è in gioco la conservazione globale, nel caso
della Coturnice, presente in Italia con tre varietà, oltre a quella
comune al resto dell'areale (Balcani), vi è la Alectoris graeca saxatilis, la
Cotutnice alpina, presente solo sull'arco alpino e la Coturnice
siciliana Alectoris graeca whitakari,
presente solo in Sicilia. Con la crisi della specie sono state operare
delle reintroduzioni, spesso con soggetti ibridi o della specie lla
specie orientale Alectoris
chukar.
Tali reintroduzioni provocano erosione
genetica
isolamento genetico e conseguente aumento di consanguineità e perdità
di fitness. La situazione è quindi molto critica e la caccia è stata
chiusa o severamente limitata quasi ovunque. Peraltro la diminuzione
continua anche dove la caccia è chiusa perché le minacce principali
sono rappresentate dalla modificazione degli habitat e, in secondo
luogo, dall'aumento dei predatori (volpi, cinghiali) e dai cani
vaganti. La Lipu (9) chiede la chiusura generalizzata della caccia
concentrandosi su un tema di facile presa ma non si vedono campagne a
favore della Coturnice come quelle, per esempio per il Cavaliere
d'Italia, specie simbolo. Paradossalmente la Lipu si preoccupa più del
lupo (vedi la campagna a favore dei cuccioli nati in una riserva Lipu
presso Roma e qualla - luglio 2018 - contro le provincie di Trento e
Bolzano in tema di controllo del canide). Ciò, nonostante che il lupo,
contribuendo alla crisi del pastoralismo tradizionale, aggravi la
situazione della Coturnice e della altre specie che richiedono
protezione dell'habitat per sopravvivere.
|
Fagiano di monte
Tetrao tetrix
Ordine:
Galliformes
Famiglia
Tetraonidae
|
A
forte rischio sulle Alpi
e in Europa occidentale (UK, Germania, Boemia). Non a rischio
globalmente (grande popolazione di decine di milioni di esemplari in
Scandinavia, Russia)
|
Predilige
ambienti "a mosaico" con alternanza di erbe alte e bassi, ericacee e
arbusti di maggiore taglia. La differenziazione dipende dalle esigenze
nutrizionali dei pulcini (insetti legati al pascolo e all'erna bassa)
degli stessi adulti (erba bassa e sottile), da quelle di nidificazione
(arbusti alti) e di rito d'accoppiamento (radure).
|
|
Coturnice
Alectoris
graeca
Ordine
Galliformes
Famiglia
Fasanidae
|
Presente
sull'arco alpino, Appennino centrale e meridionale, Sicilia.
La popolazione europea è stimata in 41.000-54.000 coppie in gran parte
concentrate in Italia e Croazia; in particolare l’Italia è la nazione
con la popolazione più cospicua con stimate 12 mila coppie.
|
Per
secoli in simbiosi con agricoltori e pastori, resiste sulle montagne
italiane in quel che resta del proprio habitat originario. i
pulcini
vengono alimentati prevalentemente con gemme, bacche, germogli
oltre a
insetti e larve. La specie che più direttamente ha sofferto della
regressione delle tradizionali pratiche di pascolo estensivo.e
l'aumento dei predatori
|
|
Gallo cedrone
Tetrao
urogallus
Ordine
Galliformes
Famiglia
Tertaonidae
|
Estinto
sulle Alpi occidentali sta sparendo in Lombardia. Anche il suo areale
globale (Nord Eurasia) è in diminuzione. Vulnerabile a libello globale
|
Legato
alla foresta ha comun que bisogno di aree ricche di cespugli e bassi
arbusti con bacche.
Necessita di radure per la parata amorosa. Uccello di grande mole
e
pesante necessita di "piste di decollo" scoperte dalla
vegetazione. Se
l'adulto è in grado anche di nutrirsi con aghi di abete i pulcini
dipendono dall'alimentazione insettivora. La chiusura della foresta per
l'abbandono delle pratiche selvicolturali e cessazione del pascolo in
bosco e ai margini sottrae habitat alla specie. |
|
Francolino
di monte
Galliformes
Tetraonidae
|
In
estinzione sulle Alpi. Non in pericolo a livello globale (tutta
l'eurasia settentrionale sino al Giappone)
|
Lo
si incontra di solito a quote altimetriche comprese tra i 700 e i 1.500
m. uccello diurno, particolarmente legato alla presenza di radure
erbose nelle quali procurarsi il cibo. Legumi, frutti del sottobosco
(fragoline, mirtilli, bacche in genere): questo il “menu” tipico del
Francolino di monte, mentre i pulcini non ancora in grado di volare si
nutrono anche di insetti e piccoli lombrichi. |
|
Gracchio corallino
ordine
Passeriformes
famiglia
Corvidae
|
Zone
montagnose in Europa, Asia e Agrica. A livello globale prossima ad
essere minacciata e in declino
|
Parte
fondamentale della sua dieta sono i grandi insetti, particolarmente
abbondanti tra gli escrementi del bestiame al pascolo.
|
|
Succiacapre
Ordine
Caprimulgiformes
Famiglia Caprimulgidae |
Europa,
Africa Nord-Occidentale, Asia centrale, l'India nord-occidentale. Non a
rischio
|
Deve
il proprio nome ai pastori i quali, vedendolo posato in mezzo al gregge
– intento a cacciare i numerosi insetti che circondano gli escrementi –
credevano che succhiasse il latte delle capre. |
|
Re di quaglie
Crex
crex
Ordine
Gruiformes
Famiglia
rallidae
|
Africa
meridionale. Eurasia. Vulnerabile a livello globale
|
Specie
oggi poco conosciuta, eppure strettamente dipendente da un ambiente
costruito dall’uomo, quello dei prati-pascoli da cui si ricava il fieno
per il bestiame… |
|
Tottavilla
Lullula arborea
Ordine
Passeriformes
Famiglia
Alauides
|
Eurasia,
Agria, non a rischio a livello glovale
|
Legata,
come altri Passeriformi, agli ambienti aperti, predilige le aree
coltivate in modo estensivo con vegetazione rada. Altro terreno
ideale di nidificazione sono pascoli e praterie, non di rado ai margini
dei boschi, a quote non molto elevate. La sua dieta principale è
costituita da invertebrati; per la
seconda covata si sposta a quote più elevate, dove praterie e pascoli
montani
vengono frequentati da una miriade di farfalle e altri insetti. |
Lupo
e conservazione dell'avifauna tipica montana
Il lupo non è quel mitico
restauratore degli equilibri naturali perduti che si vuole far credere.
Le conseguenze della sua reintroduzione sull'avifauna vengono taciute
ma sono prevedibili. Si è già detto che moltio habitat montano sono in
una situazione critica: dopo decenni di aumento della biodiversità come
conseguenza della prima fase dell'abbandono delle pratiche pastorali,
si profila ora una seconda fase che comporta la chiusura degli spazi
aperti all'interno e ai margini dei complessi forestali. Per i
tetraonidi alpini, inserito tra le specie a rischio di estinzione la
situazione precipita: quando la vegetazione arbustiva diventa
densa ed uniforme su vaste superfici, l’ambiente perde
rapidamente la sua vocazionalità come habitat per
l’allevamento delle nidiate.
Quando il
rodoreto (associazione a prevalenza di rododendro ferrugineum o hirsutum) diventa un intreccio
inestricabile di rami,
che rende impossibile qualsiasi movimento da parte dei
pulcini. Diminuendo il carico di bestiame diminuiscono gli escrementi e
con questi le larve e gli insetti necessari per l'alimentazione dei
pulcini. Diminuendo i piccoli arbusti (mirtillo nero, rosso e di
palude, i lamponi), diminuendo l'erba facilmente digeribile vengono
meno anche le basi dell'alimentazione degli adulti.
Gli
alpeggi abbandonati hanno conosciuto una rapida ricolonizzazione di
specie arbustive e arboree, creando quadri vegetazionali e fisiognomici
molto articolati e quindi habitat potenziali pregiati per l'avifauna.
Ma l'ulteriore progressione vegetazionale porterà ad un crollo di
biodiversità se non contrastata
Il
lupo modifica profondamente le tecniche pastorali tradizionali. I
piccoli greggi che, specie ai margini superiori dei boschi e nella
fascia degli arbusteti subalpini mantenevano aperti i "vuoti" di una
trama vegetazionale a "grana fina" devono essere accorpati in grossi
greggi custoditi da pastori e mute di cani che, di necessità, non
possono che spostarsi su terreni più "puliti" rispetto a quelli di
greggi di minori dimensioni. Il passaggio di grossi greggi, se vi sono
ancora covate in atto, comporta pesanti perdite.
Gli
spazi idonei per i grossi greggi si riducono ancora di più considerando
che i pascoli diurni non possono essere troppo lontani dalle aree di
confinamento notturno. Queste, di necessità, devono essere realizzate
su superfici a pendenza moderata e con ridotta roccia affiorante per
poter impiantare le recinzioni protettive che per essere efficaci non
possono certo limitarsi a semplici reti da 1,5 m ma devono consistere
in una doppia recinzione elettrificata o in una recinzione alta almeno
2 m. Non mancano esempi di recinzioni fisse e semifisse che
costringopno gli animali, dal momento che non possono essere
realizzate se non in un punto o due al massimo dei pascoli, a lunghi
trasferimenti. Le ore di pascolo diminuiscono, le ore di sosta senza
alimentazione e con sovra-accumulo di deiezioni aumentano. Le aree
periferiche vengono abbandonate, la concimazione si restringe a poche
superfici e il processo di sviluppo delle essenze legnose viene
accellerato. Oltre alle recinzioni, che aggravano i problemi di
sottopascolamento localizzato, i pastori per non esporsi alla mercè dei
branchi, devono dotarsi di cani da difesa. Per poter fruire dei
contributi per il pascolo il pastore deve dotarsi di almeno un cane da
guardia ogni 100 pecore (Piemonte). In assenza di cani quasi tutte le
regioni ormai non riconoscono risarcimenti. Quanto più i cani sono
numerosi e quanto più risulta difficile controllarli e impedire le loro
battute di caccia, con conseguente distruzione di nidi tetraonidi e
predaizoni di ungulati e piccoli mammiferi. Come se non bastasse
l'esperienza del grande Nord, dove sono abbondanti sia lupi che
tetraonidi ci dice che se è vero che è la volpe il principale predatore
di questi uccelli anche il lupo non disdegna di variare la dieta con
carne avicola. Tutto dipende dalla facilità di cattura e dalle
alternative disponibili. In presenza di uccelli indeboliti da
parassitosi la maggiore facilità di predazione potrebbe indurre il lupo
a rivolgersi a queste prede. Solo la loro declinante e ormai modesta
densità potrebbe evitare questa contingenza.
La
presenza delle coturnici e dei tetraonidi in generale, i loro voli
regalano emozioni senza pari all'escursionista che risale i
pendii montani. Sono animali splendidi, perfettamente inseriti
nel contesto di rocce, pietraie, magri pascoli e arbusti subalpini. La montagna
perde molto con la loro estinzione.
Per
evitare l'espansione di aree cespugliate e boschive a seguito
dell’abbandono
dei pascoli e delle coltivazioni, che rappresenta una delle
minacce più gravi per la
sopravvivenza della Coturnice e di altri uccelli si ritiene che ilò
decespugliamento
delle radure e dei pascoli sia l’intervento più efficace per la
conservazione della specie, nell’arco alpino e in Appennino. La parola
passa, finalmente, agli agronomi. Non che prima si parlasse di qualcosa
di diverso di gestione agrisolvipastorale ma biologi, conservazionisti,
naturalisti, lupologi un tantino arroganti e autoreferenziali,
presumono di sapere di più loro di pascolo con le pecore che gli
agronomi, che i pastoralisti. Preferiscono agire indisturbati,
senza contradditorio, senza confrontarsi con altri punti di vista.
Passano la palla solo quando si rendono conto che è problematico
"pulire" i boschi che si chiudono senza le disprezzate capre, pecore,
asini (animali umili e puzzolenti, accusati anche di trasmettere
malattie alla più nobile fauna selvatica). I naturalisti sperano che
con qualche mezzo meccanico, con qualche tecnologia agrimeccanica si
possa intervenire sul bosco. Ma, a parte interventi localizzati, di
facciata, i miglioramenti eseguiti tagliando arbusti e alberelli
assomigliano all'apologo agostiniano del mare svuotato con un
secchiello. Apprezzabili le ore di lavoro volontario dedicate dai
cacciatori per queste operazioni in montagna (mentre gli ambientalisti
stanno in ufficio e in salotto a pontificare), ma è un volontarismo che
non può cambiare un quadro generale.
Per rendersene conto basta calcolare il costo degli interventi.
Intervenire per decespugliare dove non è possibile operare con mezzi
meccanici (perché la pendenza e l'assenza di piste di accesso lo
impedisce) costa 3 mila € all'ettaro. Se si può integrare
l'azione di un operatore con mezzi meccanici (trattrice con
decespugliatore) il costo si dimezza. I costi sostenuti per (far finta)
di operare miglioramenti ambientali con il pascolo estensivo sono, se
calclati a superficie, di un ordine di grandezza in meno rispetto agli
(assurdi) decespugliamenti meccanici a superficie ma ingenti se si
pensa alle decine di migliaia di ettari interessati. Soldi buttati via
ma che consentono alla "catena istituzionale" (Ue, Regione) di
rivendicare azioni a favore degli habitat prioritari, della Direttiva
uccelli ecc.. (tout va très bien madame la marquise...). Soldi
buttati via perché si è voluto favorire consapevolmente la speculazione
(buona parte delle risorse per il "miglioramento dei pascoli" va a
grosse aziende di pianura) o perché si stabiliscono regole basandosi
solo su condiderazioni a tavolino, senza andare a vedere sul posto cosa
succede (ci devono pensare i satelliti o i carabinieri forestali, una
tantum).
Questa primavera
denunciavamo come in Valcamonica (vai
all'articolo) venissero
"appoggiati" titoli Pac su superfici completamente boscate o sassaie.
Bastano 45 giorni di pascolo (Regione Lombardia) e 0,2 Uba /ha (un
asinello in grado di respirare va bene- sulla carta- per 5 ha) per
portare a casa il premio Pac (e l'indennità compensativa). Ma che
"miglioramento ambientale" ne conseguirà? Tra l'altro con il geniale
abbassamento a 45 giorni operaro da Regione Lombardia (rispetto ai 60
canonici) si consente ai furbi di mangiare due montagne e di incassare
doppi premi, con il risvolto che salendo abbastanza presto per il primo
turno si arriva con le schiuse dei pulcini dei galli non ancora
terminate. L'inefficacia delle azioni a favore degli uccelli a rischio
di estinzione va confrontata con l'efficacia delle azioni pro lupo,
sostenute da una macchina da guerra ben attenta a portare a casa
risultati e a conseguire i propri obiettivi. Nel campo degli habitat e
degli uccelli, invece, abbiamo visto cosa succede: soldi mal
finalizzati, soggetti disinteressati... mancanza di advocacy. Totale.
Il complesso del
patrimonio legato alla pratica pastorale tradizionale e il suo sostegno
complesso
dei valori patrimoniali (paesaggistici, biologici, ambientali e
culturali) connessi al pastoralismo montano tradizionale
|
voce
|
valori
rappresentati
|
sostegni
|
razze
di animali domestici autoctoni a rischio di estinzione
|
agribiodiversità
risorsa culturale |
FEARS
Sviluppo rurale (2014-2010). Contributi erogati dalle regioni . Misura
10
|
habitat
(tra cui prioritari)
|
biodiversità
(sia vegetale che animale);
tutela specie a rischio di estinzione.
|
FEARS
Sviluppo rurale (2014-2020). La misura 12 è specifica per le aree
Natura 2000. Misura 13 (Indennità compensativa si applica ai prati e
poascoli montani) ; Premi PAC per i pascoli (titoli).
|
paesaggio
rurale storico
|
risorsa
culturale (insieme di aspetti naturali, manufatti, sistemazioni
agrarie);
risorsa estetica;
risorsa ricreativa;
risorsa turistica.
|
FEARS
Sviluppo rurale (2014-2020). Non esistono misure specifiche per il
paesaggio. Le regioni hanno inteso perseguire la tutela del paesaggio
rurale indirettamente utilizzando le misure 4, 7 e 10.
|
saperi
connessi alle pratiche pastorali (patrimonio immateriale)
|
risorsa
culturale
|
indiretti
attraverso la tutela del paesaggio e dei "prodotti tipici" (in questo
caso sulla carta, però, perché le premialità sono rivolte
prevalentemente a prodotti agroalimentari industriali); i settori
cultura delle regioni finanziano l'inventariazione e la
divulgazione del patrimonio immateriale
|
Lupo vs pastoralismo: interessi troppo ben
tutelati da una parte, troppo male dall'altra
Quando
al partito del lupo viene rinfacciata la pioggia di progetti Life pro
lupo (siamo arrivati a venti) essi rispondono che la parte
agricolo-pastorale riceve fiumi di denaro con i premi Pac appoggiati ai
pascoli e con le misure dei PSR. In realtà, come emerge anche da
indagini giudiziarie in atto, il "tesoro" della Pac, con i titoli
"appoggiati" ai pascoli si traduce in inventivi per grandi aziende di
pianura e speculatori "puri". A fronte dei costi per la Pac (il
discorso vale anche per l'indennità compensativa erogata attraverso i
PSR delle regioni) l'effetto sul pascolamento è minimo. Certo che in
assenza di questi contributi vi sarebbe ancora più abbandono ma, in
forza di logiche distorte e di carenza di controlli, la spesa pubblica
si traduce in un servizio ambientale inefficiente. Se guardiamo alle
altre misure che, almeno potenzialmente, potrebbero sostenere il
pastoralismo e, nello specifico, il mantenimento di quadri ambientali e
paesaggistici favorevole al mantenimento della biodiversità montana,
dobbiamo constatare che i sostegni potenziali sono tutti di tipo
indiretto (tranne che per l'indennità compensativa e le razze in via di
estinzione). La politica agricola europea e la sua applicazione da
parte delle regioni non prevede misure mirate. Le regioni sostengono di
tutelare il paesaggio rurale attraverso varie misure ma, in realtà,
queste misure premiano in larga misura l'azienda agricola nella sua
dimensione produttiva e quello che "arriva" al paesaggio, la quota dei
finanziamenti che va a bersaglio è piccola cosa.
Se
poi restringiamo l'analisi alla componente più specificamente culturale
del paesaggio rurale storico e, ancor più dei "saperi tradizionali"
(che pure abbiamo visto tutelati sulla carta da fior di convenzioni e
altri strumenti), ci rendiamo conto che l'azione si divide tra le
strutture amministrative agricole e quelle culturali. Queste ultime
promuovono la conoscenza, l'inventariazione, la divulgazione dei
"saperi tradizionali agricoli" ma non possono sostenere le pratiche in
essere, le pratiche vive. Non è loro compito. Ma questa scissione è
deleteria. In conclusione l'azione di sostegno al pastoralismo e ai
quadri ambientali nei quali si attua è inefficacie a causa del
carattere non mirato e non coordinato dei sostegni previsti che, troppo
spesso, sono solo di carattere indiretto. Troppo deboli, slegati e
lontani tra loro sono anche gli attori sociali che dovrebbero svolgere
azione di stimolo nei confronti delle istituzioni al fine di ottenere
sostegni più mirati, specifici e coordinati. Non è certo interesse
delle grandi organizzazioni agricole nazionali perorare la causa di una
diversa e più mirata allocazione di risorse. Il fatto che moltre misure
"agroambientali", anche specifiche per la montagna e i pascoli si
traducano in premialità per i grossi imprenditori agricoli di pianura
ovviamente sta bene alle OOPPAA.
Da
parte loro le sparute associazioni di tipo culturale e ambientalista
che promuovono la causa del pastoralismo, degli alpeggi, delle razze
autoctone sono frammentate, con poca capacità di ascolto presso le
istituzioni pubbliche, le università. Sono anche collegate in modo poco
organico al mondo dei pastori che, a sua volta, caratterizzato da
strutture associative molto deboli o che esistono solo sulla
carta con il risultato della inevitabile delega a chi rappresenta ben
altri interessi. Inutile
aggiungere che le situazioni si presentano opposte sul fronte pro lupo
che si presenta come una macchina da guerra, con una rete articolata ma
ben coordinata di associazioni, parchi, università, esperti,
musei con ottimi collegamenti a livello internazionale e con
efficace capacità di lobby. Una situazione che richiede un
riequilibrio: i valori rappresentati dal pastoralismo sulla carta
promuovono interessi diffusi molto ampi (cultura, turismo,
biodiversità, prodotti tipici, fruizione dell'ambiente montano). Chi
con divide con noi questa analisi dovrebbe impegnarsi a farsi promotore
di un'azione di advocacy in favore della parte debole.
In
termini di maggior tutela dell'interesse generale e di maggior rispetto
dei principi democratici molto si otterebbe semplicemente portando nel
dibattito pubblico quei temi che il partito del lupo ritiene assiomi
che non necessitano dimostrazione, scelte che non necessitano
discussione (le hanno già fatte loro per il resto della società e per
le comunità più direttamente interessate loro malgrado).
Note
(1)
L'indigeno, ma anche il contadino e il pastore dell'occidente,
non in grado di elevarsi da soli alla superiore comprensione
ambientalista e di accettare le misure conservazioniste che
ledevano
ben concretamente i loro interessi, andavano esclusi dalle decisioni,
dovevano essere messi davanti al fatto compiuto. In Italia l'approccio
smaccatamente colonialista al parchismo ha conosciuto una sconfitta
cocente in Sardegna, dove il parco del Gennargentu, istituito nel 1998,
è rimasto sulla carta per l'opposizionedi comunità locali ancora
influenzate dalla virile cultura pastorale. Il WWF (ma anche le altre
organizzazioni animal-ambientaliste) continuano ad essere
allergiche al regionalismo, come dimostrano gli attacchi - al limite
dell'isteria - mossi contro le provincie autonome di Bolzano e di
Trento, ree di rivendicare una gestione autonoma dei grandi carnivori
senza passare, anche per singoli provvedimenti, dalle forche caudine
delle autorizzazione romane. Molto abili a svolgere azione lobbystica a
Bruxelles e in perfetta sintonia con le eurotecnoburocrazie dove ong e
funzionari partecipano insieme a numerosi organi e commissioni in una
rete che rende indistinguibili i limiti tra istituzioni pubbliche e
gruppi privati di prtessione. Le ong ambientaliste sono ovviamente
ultraeuropeiste e antisovraniste. In Italia si accontentano di tifare
per il centralismo romano rappresentato dal Ministrero dell'ambiente e
sperano di poter continuare a ottenere dalla frequentazione delle
stanze ministeriali quei vantaggi che, in uno stato realmente
regionalizzato, dovrebbero essere condivisi con una più larga platea di
organizzazioni spontanee locali. Era noto il rapporto privilegiato tra
WWF e Direzione generale foreste/Corpo forestale dello stato e forte è
stata l'azione dei gruppi ambientalisti per evitare l'accorpamento del
Cfs con i Carabinieri (o VVFF) dal momento che, anche a seguito del
reclutamento di militanti animal-ambientalisti il Corpo si avviava a
diventare una milizia di parte.
(2) Huilfried Huismann, Pandaleaks, The dark side of WWF, Bremen, Nordbook, 2014, p. 53
(3) Raymond Bonner, At the hand of man. peril and hope of Africa's wildlife, New York, Vintage books, 1993, p. 176. cit da H. Huismann, Pandaleaks.
(4)
Organizzazione fondata da Chris Lang, un green warrior che si è
dedicato alla difesa delle foreste e dei diritti dei popoli indigeni.
(5) Christine A Hager Why we need wolves in Yellowstone, Issue Paper for the Minor in Global Sustainability Biological Conservation, Bio 65, University of California.
(6)
«Usa Today», 7 settembre 2018 wolves-reintroduction-yellowstone-ecosystem
(7) C.S. Holling, 2001. Understanding the complexity of economic, ecological, and
social systems. «Ecosystems» 4, 390–405.
(8) S. Levin, 2005. Self-organization and the emergence of complexity in ecological
systems. «Bioscience» 55 (12), 1075–1079; Holling, 2001, Understanding the complexity, op. cit.
(9)
La LIPU è
senza dubbio la più "pura" delle grandi organizzazioni
ambientalistiche, meno legata alla politica di sinistra (ogni
riferimento a Legambiente è puramente casuale) e alle lobby economiche
d'alto bordo internazionali (ogni riferimento al WWF ...). Certo anche
lei ha i suoi peccatucci come quando - copiando i fratelli maggiori -
sponsorizzava scooter inquinanti (Piaggio) per farsi finanziare le
oasi. Rispetto alle due corazzate ambientaliste la Lipu ha sempre però
manifestato un interesse protezionistico che va al di la delle specie
protette per abbracciare gli habitat. Non potrebbe fare altrimenti data
la forte dipendenza delle varie specie di uccelli a determinati habitat
(zone umide, praterie, boschi). Pur non rinunciando ad alimentare
l'odio per i cacciatori (un ingrediente che tutto l'ambientalismo
italiano utilizza volentieri perché di facile presa sul pubblico
italiano emotivo e con una cultura molto superficiale in materie
biologiche ed ecologiche, la Lipu - sulla scorta della maggiore
consorella british (la RSPB in UK è la più vecchia - 1889 - e la più
grande associazione ambientalista del paese), ha sempre denunciato
come, alla base della diminuzione degli effettivi delle specie di
avifauna vi sia l'alterazione dell'habitat, la riduzione delle aree
umide, l'uso dei pesticidi, il passaggio dall'agricoltura contadina a
quella intensiva. L'organizzazione ornitologica è anche ben consapevole
che l'abbandono delle pratiche agropastorali tradizionali, con la
meccanizzazione, la riduzione di siepi, filari, boschetti, il dilagare
delle boscaglie dove erano pascoli e prati. Ovviamente l'ultimo
tema
viene escluso dalla
comunicazione propagandistica per non urtare il punto di vista del
mainstream ambientalista, tutt'ora dedito a celebrare l'avanzata del
sacro bosco e a benedire la "rinaturalizzazione". Della relazione tra
abbandono delle pratiche tradizionali ed estinzione di specie di
uccelli si parla solo a livello "scientifico".
Noi, invece,
interessati a
evitare l'estinzione degli uccelli ma, soprattutto, quella dei
contadini e dei pastori, ne vogliamo parlare a livello politico.