Ruralpini
 

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cultura ruralpina (in valle Imagna)



La rogazioni di Maggio

Quando la fede popolare umanizzava e santificava la natura in fiore, i campi, il territorio

(A fulgure e tempestate… a flagellus terremotus… a peste, fame, et bello… libera nos domine!)




di Antonio Carminati



(09.05.19) Maggio è il mese della grande fioritura. La valle si presenta dispensatrice di colori dalle mille tonalità. Prevalgono verde e azzurro, decisamente, con diverse sfumature, che variano in relazione alle condizioni metereologiche, ma si rivelano con tutta la loro forza di attrazione soprattutto dopo un temporale, quando tuoni e lampi non squarciano più il cielo e l’aria è pulita e trasparente. L’acquazzone ha scaricato a terra anche le piccole particelle di pulviscolo atmosferico ancora in sospensione. Una valle verde come lo smeraldo e azzurra come lo zaffiro (Antonio Stoppani). Ci troviamo improvvisamente immersi dentro magiche ambientazioni, quando la natura sa trasmettere sensazioni percepibili non solo con gli occhi, come i profumi particolari che provengono dal bosco, trasportati da un leggero venticello che sventola a bandiera le rigogliose chiome degli alberi festosi e pronti a partecipare alla nuova vita della bella stagione. Anche il prato in erba, in piena crescita, si prepara ad offrire l’imminente maggengo ricco di millefiori, dal tarassaco al ranuncolo selvatico; tra pochi giorni anche le piccole margheritine faranno posto alle loro sorelle maggiori, dal lungo stelo: assieme ai nontiscordardimè, comporranno profumati mazzetti floreali che, raccolti in vasetti, oppure più semplicemente infilati nel collo di una bottiglia, porteranno un tocco di primavera sulle tavole contadine, o anche sui basamenti delle balaustre di marmo in chiesa. Costituiscono il richiamo forse più immediato della prossima fienagione – il tempo del raccolto – che richiederà a tutti i componenti della famiglia molte fatiche. Fiori di prato renderanno omaggio e memorie, dentro ol capsànt (cimitero, camposanto), sulla tomba dei propri cari, come pure andranno ad adornare le nicchie delle varie edicole religiose, in modo particolare quelle in prossimità delle contrade, che danno un tocco di spiritualità agli spazi rurali.



Secchi di alluminio colmi di fiori di campo. Nell’occasione si rinnovano anche gli addobbi, in taluni casi vengono rifatte pure le decorazioni ormai sbiadite, che devono presentarsi bene e in ordine il mese di maggio, ol mis de la Madóna (il mese della Madonna). A maggio si riparte: è giunto il momento in cui tutto si rinnova. I fiùr de la Madóna (i fiori della Madonna) sono i nontiscordardimè, fiorellini azzurri a grappoli (miosotide), che abbelliscono i prati in primavera e, sull’imbrunire, accolgono il concerto dei grilli, ben nascosti in mezzo all’erba alta.

Durante il mese di maggio le tribuline (1) riprendevano vigore con il “vestito della festa”. Ornate di fiori sempre freschi e tovagliette ricamate, ravvivate da candìle e lümì sémpre ‘mpéss (da candele e lumini sempre accesi), di giorno e di notte, tutte quante, un tempo neanche troppo lontano, si trasformavano in altari e piccoli tempietti di culto e di pietà popolare, diventando meta di preghiera per intere famiglie.

La nonna Elvira, sul calare della sera, durante il mese mariano si recava presso la tribülìna, sö la Còsta de Canìt, (la santella collocata sulla salita che  porta alla contrada di Canito) distante poche decine di metri dalla sua abitazione, per la recita del Rosario, cui facevano seguito le Litanie Lauretane, assieme con alcune sue figlie e altre donne.



Era la comunità ecclesiale della contrada che si riuniva spontaneamente per pregare la Madonna, invocando la sua intercessione celeste a difesa del lavoro della terra e per tenere lontani dalla famiglia pericoli derivanti da incidenti, carestie, tempeste e siccità. Le donne erano le custodi della famiglia. Esse ravvivavano in continuazione il pensiero accorato rivolto ai loro cari lontani all’estero per lavoro, partiti da poche settimane, come pure nei confronti di quanti, già trapassati, potevano esercitare protezione dall’Aldilà. La nonna non mancava di rivolgere, con lo sguardo aperto sul versante opposto della valle, al centro del quale spicca, incastonato nel bosco, il gioiello della Cornabüsa (2), anche una preghiera e una supplica alla Madonna Addolorata dimorante nella sacra Grotta. 

Le famiglie di ogni contrada, le sere di maggio, si ritrovavano presso una tribülina per recitare il Rosario: quelle di Fenilmascher, Fenilgarello, Cà de Màrche, Finiletti e Siva, ad esempio, erano solite riunirsi presso la cappelletta delle Piàne, una piccola chiesetta edificata dalla Fabbriceria parrocchiale due secoli or sono dove ancora oggi si venera la Madonna dispensatrice di Grazie.

A maggio la primavera è evidente e le praterie montane di Valcava e Pralongone (3) sono ricoperte da un bianco manto di narcisi selvatici, chiamati anche narcisi dei poeti, dall’intenso profumo. Popolano massivamente le alture, trovando lassù il loro habitat naturale. Questi fiori, forieri della bella stagione, li possiamo trovare anche nelle boscaglie sino a oltre millecinquecento metri di altitudine. Costituiscono ancora oggi, per naturalisti e turisti, un ghiotto richiamo, mentre per gli allevatori del posto sono un evidente invito all’ormai imminente stagione dell’alpeggio. I prati ricoperti di narcisi trasmettono immagini di straordinaria potenza figurativa, evocano la dimensione della bellezza e, nel linguaggio dei fiori, richiamano la leggenda di Narciso, il giovane che si era innamorato della sua bellezza, peccando di vanità. Maggio è il mese dei narcisi, ma non solo. Nella genesi del lavoro contadino sulla montagna orobica, questo mese rappresenta l’anticamera di un periodo di intenso lavoro, che diminuirà solo a settembre, dopo l’ultimo taglio di erba da far essiccare in quota. Da maggio in poi si entra in un periodo pieno di aspettative e incognite, che determinerà l’andamento dell’annata agraria e, di conseguenza, le condizioni di sopravvivenza del gruppo familiare. Il raccolto sempre incerto, sin quando non sarà al sicuro sö la stala dol fé (nel fienile), e i pericoli di incidenti o di accadimenti avversi sono all’ordine del giorno. Maggio è anche il mese dei riti propiziatori per ottenere benefici e protezione sulla famiglia, il lavoro e la natura. En dol mis de la Madóna (nel mese della Madonna), dunque, non possiamo non rilevare almeno altri due importanti riti che caratterizzavano il calendario religioso, sino a tutta la prima metà del Novecento: la benedisiù de i cà e i rogassiù (la benedizione delle case e le rogazioni). Il primo per benedire e invocare la protezione della divinità sulla casa, la famiglia e i singoli membri, mentre il secondo per ottenere dalla natura uno sviluppo favorevole. Entrambi si svolgevano di norma tra la Pasqua e l’Ascensione di Gesù al cielo, quaranta giorni dopo la Resurrezione, una delle festività nazionali soppresse.




Il prevosto avvisava in chiesa la domenica che, durante la settimana, sarebbe passato a benedì i cà (a benedire le case); comunicava anche il programma di visita nelle singole contrade. Di norma si faceva accompagnare dal sagrista, oppure da un fabbriciere, col santaröl (aspersorio) contenente l’acqua benedetta il Sabato santo, da utilizzare per il rito. Accettare la benedissiù de la cà (benedizione della casa), aprendo la porta all’ingresso dol preòst, (del prevosto) significava predisporre l’abitazione, di riflesso la famiglia lì dimorante, ad accogliere la Buona Parola (da bene-dire), portatrice di benefici. Era una modalità privilegiata per ottenere la benevolenza di Dio. Dopo la lettura della sua parola e le preghiere recitate da tutti i componenti della famiglia presenti, raccolti attorno al sacerdote, questi diffondeva con l’aspersorio l’acqua benedetta all’interno dell’ambiente, recitando la specifica formula del Benedizionale. Ol preòst bussava a tutte le case, anche a quelle – poche, per la verità - che di norma trovava chiuse, e in tal caso procedeva oltre. Per il prevosto era anche l’occasione per entrare nella dimensione concreta delle famiglie del villaggio, nei rispettivi luoghi della vita e del lavoro, e rafforzare così una relazione comunitaria. Ol preòst e l’tornàa mai ‘ndrì a mà öde (il prvosto non è mai tornato indietro a mani vuote) – raccontano i meno giovani – e, per sdebitarsi, la regiùra, in mancanza di denaro, gli avrebbe omaggiato öna dondéna de öf (una dozzina di uova), oppure ü strachì o ü panèt de butìr (uno stracchino e un panetto di burro). In talune circostanze, i diversi generi alimentari raccolti sarebbero poi stati mesi all’incanto. Il sacerdote raggiungeva anche le abitazioni di monte, dove nel frattempo alcune famiglie si erano già trasferite, come sö en de Fontà, ai Càlf o en Piassacà (4). Al giorno d’oggi la benedizione delle case è diventata una sorta di servizio a domanda individuale. Su chiamata, insomma.




Le rogazioni (dal latino rogare, chiedere) richiedevano invece una maggior preparazione, per il concorso di popolo alla processione, guidata dal parroco, attraverso le mulattiere e le contrade, con sosta presso le tribüline, dove veniva impartita la benedizione con l'acqua santa allo spazio rurale circostante. Venivano compiute nei giorni che precedevano l'Ascensione, in più riprese se i percorsi erano lunghi; durante il corteo religioso, si cantavano le litanie e si pregava per la feracità di prati e campi, proprio al risveglio della natura. Il corteo partiva sempre dalla chiesa parrocchiale, la mattina di buon’ora, dopo la “messa delle rogazioni”, celebrata senza la recita del Credo e del Gloria; ogni giorno seguiva un percorso differente, che si poteva snodare per diversi chilometri e giungeva fino a un luogo prestabilito, solitamente caratterizzato dalla presenza di una tribülìna, in mezzo ai prati. Per le contrade a levante, ad esempio, il corteo dalla parrocchiale prendeva la strada dol Cornàl, scendendo sino alla Al de (valle di) Spàdola , dove c’è una tribülina, quindi saliva sino ala tribülìna dol Vengiö, per poi spostarsi verso ol Cat; da lì, poi, attraversando il versante terrazzato che dà sulla àl dol (valle del) Gandì, si raggiungeva il nucleo della Bötèla e quindi si tornava indietro per la contrada di Canito, sino a raggiungere l’insediamento fò a i (delle) Stale, per concludersi so la tribülìna de la Còsta (alla santella della Costa). Altri percorsi, nei giorni successivi, si sviluppavano in direzione delle contrade a ponente, poi verso quelle a occidente e, infine, risalendo la montagna per raggiungere gli insediamenti in quota. Le processioni erano studiate in modo che tutto il territorio della parrocchia potesse essere visto e quindi benedetto. Gli anziani ricordano che Don Antonio Mazzoleni Ferracini, nel periodo tra le due grandi guerre del Novecento, raggiungeva in processione la Tribulina sö en de (su a) Fontà. Successivamente, con Don Emilio Masserini, questa tradizione cessò di essere esercitata in modo così estensivo: l’ultimo prevosto del villaggio si limitava ad una processione simbolica nei prati attorno alla chiesa.




Il corteo si svolgeva in modo ordinato e nel rispetto del protocollo: davanti c’erano le Confraternite maschili, con le loro insegne, seguivano le donne, quindi i bambini, infine gli uomini. Ol preòst indossava i paramenti viola e presiedeva il rito. Un corteo orante. Durante il cammino il prevosto intonava le preghiere e il popolo lo seguiva. Ricorrenti erano le Litanie dei Santi, cantate dal popolo ovviamente. Quando si giungeva in prossimità di una tribülina, il sacerdote alzava verso il cielo la croce di legno e, rivolgendosi ai quattro punti cardinali, recitava le invocazioni: “A fulgure et tempestate… A flagello terraemotusA peste, fame et bello…” (dal fulmine e dalla grandine, dal flagello del terremoto, dalla peste, dalla fame e dalla guerra) e il popolo rispondeva: “Libera nos Domine” (liberaci o Signore). Quindi riprendeva: “Ut fructus terrae dare et conservare digneris… (affinché ti degni di dare e conservare il frutto della terra) Ut pacem nobis dones…” (affinché doni a noi la pace), e il popolo rispondeva: “Te rogamus, audi nos!...” (ti chiediamo, ascoltaci). Poi, con l'acqua benedetta e l’aspersorio, benediva i terreni circostanti, a Est e a Ovest, a Nord e a Sud, mentre i fedeli in corteo si facevano il segno della croce. Il sacerdote concludeva la cerimonia proclamando gli oremus (preghiamo) finali previsti dalle Litanie dei Santi, quindi la processione si ricomponeva e il popolo ricominciava a cantare le Litanie, sino alla tappa successiva.

La celebrazione di questi riti rassicurava i contadini e umanizzava il Creato. Tutte le famiglie del villaggio lavoravano la terra e allevavano quel poco di bestiame che possedevano: era determinante per loro anche solo pensare che la natura potesse essere assecondata ai loro bisogni, affidandosi all’intercessione Celeste. Avevano tanta fede e questa fede le ha aiutate a superare anche i momenti più difficili. Il contesto rurale era infarcito di spiritualità e, ancora oggi, non è difficile riscontrare diversi richiami religiosi, come le croci scolpite sulle pietre o ricavate nei muri dei terrazzamenti colturali, le tribüline e le altre edicole religiose.

Sono espressioni autentiche dell’antico mondo contadino, giunte sino al secolo scorso, dopo aver attraversato indenni almeno un millennio di storia.

I canti in chiesa, oppure quelli che si espandevano all’intorno durante le rogazioni, si ripetevano durante i lavori nei prati e nei boschi. Mi risuona ancora oggi nelle orecchie la bella voce della Iolanda, che si liberava felice e con forza nello spazio ecclesiale con il Tantum Ergo (5) , a conclusione della benedizione eucaristica pomeridiana della domenica. Allo stesso modo mi sembra di sentire ancora cantare la Zita nel pascolo sö la (su alla) Ràcola, mentre “pettina” il prato con il rastrello e ingabbia la foglia per la lettiera della sua vaccherella nella stalla, o della Aldina fò en dol (al) Taiàt, come pure della Costantina, sorella di Tìglio. Mi sembra si sentire ancora le loro voci, quando mi guardo intorno su quei versanti e ammiro il risultato di tanto lavoro! Pratiche ed esempi di vita d’altri tempi. Da onorare e non dimenticare!



Note

(1) Santella, edicola votiva.
(2) Importante Santuario mariano della valle Imagna.
(3) Questi pascoli sono collocati sul crinale che separa il versante destro della valle Imagna (opposto a quello dove sono ambientati i racconti di Carminati) dalla val San Martino che scende sino al fiume Adda. Si tratta delle ultime propaggini meridionali della dorsale orobica occidentale (lecchese). Un tempo erano famosi per le narcisate, le gite organizzate appositamente per raccogliere mazzi di narcisi sui prapti pingui.
(4) Maggenghi dove si trascorreva la stagione estiva (non ci sono alpeggi).
(5) Tantum ergo sacramentum, inno liturgico eucaristico.


Serie cultura ruralpina (in valle Imagna)

a cura di Antonio Carminati


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