(18.05.19)
Il mese di maggio i piccoli allevatori di monte sono in trepidante
attesa della piena fioritura dell’erba nei prati e invocano la clemenza
del tempo: che sia favorevole al pieno raccolto! Sole e pioggia devono
fare la loro parte. Intanto i fienili piangono: non è nella loro natura
rimanere vuoti e attendono la nuova massa frusciante di fieno.
Al tép e s’ga comànda mia!... (al
tempo non si comanda) – ripetono gli anziani, lamentando, anche
quest’anno, il ritardo della bella stagione, che stenta a mostrarsi in
tutto il suo atteso splendore. La scarsità di piogge durante la scorsa
primavera e oggi, a metà maggio, il freddo di ritorno, con la neve
fresca apparsa sul Resegone pochi giorni fa, hanno rallentato la
crescita della nuova erba e spostato in là il tempo della raccolta. Un
ritardo di circa quindici giorni, anche in pianura. Qualcuno azzarda le
prime conclusioni, valutando scarsa quest’anno la produzione di
foraggio e prevedendo, di conseguenza, un rincaro del costo del fieno
l’inverno prossimo. Ma è ancora presto per dirlo. Certo è che, nelle
annate migliori, le famiglie nelle contrade alle quote meno elevate e
di fondovalle, già durante i primi giorni di maggio, anzi alcune anche
dopo la metà di aprile, iniziavano il taglio dell’erba nei prati meglio
esposti. Quassù, invece, i segadùr
(falciatori) negli insediamenti umani situati tra i settecento e gli
ottocento metri di altitudine, iniziavano a bàt la rànza (1) alla metà di
maggio. Quest’anno bisognerà aspettare almeno una decina di giorni
ancora.
Il
tempo della fienagione è annunciato come imminente dalla messa in
libertà del bestiame, al pascolo, dopo un lungo inverno di reclusione
nelle stalle. La gioia dei quadrupedi è incontenibile e, appena
liberati dalla catena, si esibiscono nel prato con salti, sgroppate,
corse all’impazzata. Ad accoglierli, il tappeto verde della nuova erba
ricca di piante colorate e fiori profumati. Anche la stagione del
pascolo si è spostata in là di quindici giorni circa e i primi gruppi
di manzette hanno salutato all’aperto la nuova stagione solo poco più
di una settimana fa. Ogni stalla in prossimità delle contrade abitate,
infatti, oltre al prato, dispone nelle vicinanze di una piccola
porzione di terreno adibita a pascolo, che viene tuttora utilizzata
quale prezioso spazio dove, dopo aver trascorso anche cinque o sei mesi
fermi in stalla, i bovini possano sladenàss
fò ü tantì (sciogliersi un po'), ossia si riabituino presto
alla vita all’aria aperta, tonificando e rafforzando, con i primi
liberi movimenti, soprattutto i muscoli delle gambe, in vista della
stagione dell’alpeggio alle quote più elevate. Se necessario, si
ritoccano loro anche le unghie, cresciute eccessivamente e non
consumate durante i sei mesi di immobilismo sul duro pavimento di
cemento della stalla: racchiusa la vacca nell’arla (2), l’allevatore si
avvale di una grossa pinza per tagliare la parte dura e sporgente delle
unghie, in modo che il quadrupede possa affrontare l’alpeggio senza
zoppicare.
La
mamma, vera bergamina (3) sin dalla tenera età, nella famiglia del
nonno Jósef di Ricüdì, ha
sempre prestato molta attenzione a questo periodo, assai delicato per
le vacche, soprattutto quelle frèsche e in piena lattazione, le quali
da un lato devono adeguarsi alla nuova alimentazione (il passaggio
delicato dal fieno all’erba), mentre dall’altro, prima si sgranchiscono
gli arti intorpiditi dall’immobilità e si acclimatano al tempo
incostante della stagione, meglio è. Quando ancora era in piena
attività, incominciava - almeno una settimana prima di liberare le sue
poche vaccherelle al pascolo - a modificare l’alimentazione in stalla,
introducendo nella mangiatoia, dopo ü
brassöl de fé (una brancata di fieno), anche modeste
quantità di erba fresca, segàda sö
en dol pràt co la rànza (falciata nel prato con la falce
fienaia) e trasportata in stalla a mezzo della vecchia gabbia. Anzi,
preparava nel fenèr (fienile)
anche il fabbisogno occorrente per la gu-arnàda
(turno di accudimento del bestiame) successiva, in modo che l’erba
recisa asciugasse per bene, per poi essere trasportata nel tepore della
stalla. Però la gh’à mia da rebói
(non deve rifermentare, lett. "ribollire"), ossia non deve scaldarsi
troppo, così ammucchiata e magari anche un po’ bagnata. Anche in
seguito, evitava il pascolo nell’erba troppo tenera e soprattutto in
quella ancora bagnata dalla rugiada mattutina: in principio, infatti,
per non incorrere in tale pericolo, i
àche e gli a lagàa ‘ndà (le lasciava andare) solamente alcune
ore il pomeriggio e il nostro compito di bambini, una volta terminata
la scuola, era quello di accudire nel prato la piccola mandria,
contenendola entro lo spazio giornaliero assegnato. Non c’erano ancora
i recinti elettrici.
Nonostante
l’età le procuri dolori diffusi in tutto il corpo e la impedisca in
diversi movimenti, ieri pomeriggio la mamma è comparsa, inaspettata,
nel prato di Calsinù: aveva caricato sull’automobile rànza, codèr e prida (falce, portacote e cote) con
l’intenzione de segà
(falciare) alcune andàne de èrba per
gu-arnà i àche en cà (andane di erba per accudire le vacche a
casa). Ha una forza d’animo straordinaria, quella donna, e l’ambiente
rurale, soprattutto in questo periodo di “liberazione” e resurrezione
della natura, esercita su di lei un’attrazione cui non resiste. Perché
lei e il prato e la stalla e le mucche sono un tutt’uno, componenti
essenziali e inscindibili della sua vita. L’ho subito tranquillizzata
con la màchena da segà
(falciatrice) e il trattore.
Non
ancora appagata, ha riposto la rànza
nella sua “pandina rossa” e l’à
ciapàt en mà ol rastèl (e a preso in mano il rastrello),
aiutandomi a terà ensèma
(raccogliere) l’erba fresca e dall’intenso profumo appena recisa.
Caricatala a ras-ciàde (forcate)
sul trattore e depositatala nel fienile, servirà ad alimentare le
vacche in mungitura per i due pasti successivi della sera e della
mattina dopo. Conclusa finalmente anche quell’ultima azione, dopo
essersi accertata dello stato di salute dei quattro bei vitellini
racchiusi nelle loro gabbiette sö la
stala dol fé (nella stalla-fienile), è ritornata a casa tutta
soddisfatta.
La
mamma era sempre molto attenta alla salute e al benessere delle sue
vacche e, se con la prima erba le scomensàa
a schetà (iniziano a manifesdtare problemi intestinali) , ne riduceva subito le dosi,
rafforzando il quantitativo di foraggio essiccato, sin quando gli
animali non si abituavano al nuovo regime alimentare. Di fronte alla
prima èrba, i àche iè bramùse
(le vacche sono vogliose), quindi l’alimentazione va monitorata con
attenzione. Le vacche preferiscono l’erba fresca addirittura al panèl (pannello di lino).
Gradualmente, poi, durante il corso dell’estate, le avrebbe liberate al
pascolo due volte al giorno, la mattina dalle nove alle undici, dopo la
mungitura, e il pomeriggio dalle sedici alle diciotto, prima della
mungitura. La notte immancabilmente le vacche erano tutte legate in
stalla, dove riteneva fossero meglio protette e al sicuro, anzi ricordo
ancora oggi la sua meraviglia quando osservava incredula e quasi
scandalizzata quei primi allevatori i quali, invece, lasciavano gli
animali al pascolo giorno e notte e praticavano la mungitura
all’aperto.
Ciascuna
stalla aveva a disposizione, in un piccolo locale annesso, un cucinino,
anche solo di due metri quadrati, dove lavorare il latte e conservare
gli strumenti connessi alla gestione dell’allevamento, e, in mancanza
del casèl (4), possibilmente
con una cantinetta annessa dove conservare latte, panna e stracchini.
La mamma si recava alla stalla almeno due volte al giorno e,
soprattutto durante la bella stagione, si fermava ogni volta alcune ore.
Sino
a circa dieci anni or sono, quando Pierina era ancora pienamente attiva
in agricoltura, titolare della piccola azienda agricola a conduzione
familiare, l’alpeggio avveniva in tre tappe, quali piccole transumanze
interne al villaggio, che si ripetevano almeno due volte durante la
stagione, con spostamento ogni volta della bergamina (5). Era un
continuo movimento, da una stalla all’altra, e tale modalità era
praticata da molte altre famiglie rurali del villaggio. Attualmente
queste azioni sono ripetute dai giovani allevatori, come Francesco, che
si pongono in continuità professionale con la tradizione.
Sin
verso la fine di maggio, in concomitanza con l’avvio della fienagione,
il pascolo avveniva nelle poche aree prative di Calsinù, una contrada situata a
circa 750 metri di altitudine, un’altezza intermedia tra il fondovalle
e le aree di monte vere e proprie, dove le vacche avevano trascorso
l’inverno nella stalla vicina al villaggio, che la mamma raggiungeva
con l’automobile in pochi minuti. Mentre la fienagione si concentrava
nelle aree migliori, il pascolo veniva contenuto, come succede ancora
oggi, lungo le fasce prative marginali, quelle che di norma costeggiano
il bosco, e negli appezzamenti più ripidi e lontani dal fienile.
L’eccessivo frazionamento dei terreni, in uso alle singole famiglie e
ricadenti nelle aree di influenza delle contrade, ha prodotto nel tempo
una sostanziale contrazione del raccolto e, nel löch (maggengo) di Calsinù, vengono annualmente
prodotti non più di quaranta quintali di fieno. Rari sono i pascoli
nelle aree in prossimità delle contrade, occupati soprattutto da campi
e prati, e le vacche attendono di salire in montagna per spaziare in
contesti più ampi. A Calsinù
le dieci vacche grigio alpine di Francesco pascolano nel löch del Ciüì, un contadino emigrato
definitivamente all’estero con la sua famiglia verso la metà del secolo
scorso, quando molte contrade si spopolarono, gli animali cominciarono
a diminuire, i terreni ad essere abbandonati e le stalle di pietra a
rimanere inutilizzate e prive di manutenzione. Il papà, proprio in quel
periodo di grande esodo, con i denari delle sue campagne lavorative in
Svizzera, acquistò diversi terreni da compaesani trasferitisi altrove:
a Calsinù dai Cassi emigrati
all’estero, al Fughì da altri
Cassi scesi in città, ai Calf dai
Rota bergamini ormai rimasti definitivamente dalle parti di Inzago e
non più transumanti, infine ai Crüsür
dai fratelli Locatelli - Créoi – anch’essi veri martiri del
lavoro e della vita agreste.
La
seconda tappa avveniva nei primi giorni del mese di giugno, quando il
fieno era giunto a maturazione anche alle quote superiori. Con la sua
bergamina, la mamma saliva nel löch
dei Calf, situato a circa 900 metri di altitudine, oggi facilmente
raggiungibile attraverso una strada trattorale interpoderale,
realizzata nei primi anni Ottanta, mentre prima si saliva dal
sentierino impervio del Cornèl,
impraticabile però dai quadrupedi, i quali seguivano la strada maestra,
decisamente più lunga ma sicura, percorrendo la mulattiera in direzione
della contrada di Cagaàs.
Un’ora e mezza di cammino con la mandria. La montagna dei Calf era frequentata
indicativamente dalla prima alla terza settimana di giugno e, anche
lassù, le vacche durante la notte erano tenute in stalla. La famiglia
rimaneva sempre in paese e bisognava salire sin lassù due volte al
giorno per guarnà i àche
(accudire le vacche), mentre durante la fienagione si rimaneva sul
posto da mattina a sera, perché era un continuo alternarsi di lavori: segà, spànd, oltà, montonà (falciare, spandere,
rivoltare, ammucchiare),... Senza tregua. In principio non c’erano
mezzi meccanici e tutti i lavori venivano eseguiti a forza di braccia,
con rànza, rastèl, ràscc, sdìrna (falce,
rastrello, forca,
fraschera)(6)…
Il pascolo dei Calf si
estendeva anche nel löch
sottostante del Fughì, che il papà aveva acquistato, estendendo così,
senza soluzione di continuità, la sua proprietà: seduto sopra la
cisterna, a fianco di quella piccola stalletta, mentre accudivo al
pascolo mucche e pecore, studiavo e ripetevo ad alta voce la Critica
alla ragion pura e la Critica della ragion pratica di Kant, durante la
preparazione agli esami di maturità, alla fine degli anni Settanta. Al
rientro, la sera, poi, seguendo la discesa ripida del sentiero del
Cornèl, per non rincasare a mani vuote, besognàa portà dó a spale öna càrga de
lègna (bisognava trasportare giù un carico di legna),
provvedendo così, un po’ alla volta, alla scorta del prezioso
combustibile vegetale per la stagione invernale. Tutto cambiò, nei
primi anni Ottanta, con la comparsa dei primi trattori e la costruzione
di strade carrabili.
Terminata
anche la fienagione dei Càlf,
verso la fine di giugno la bergamina si spostava più su ancora, e la
terza tappa si concludeva nel löch
dei Crüsür, un appezzamento
di terra situato attorno ai mille metri di altitudine, in prossimità
della linea di displuvio sul confine tra la Valle Imagna e la Valle
Brembilla, caratterizzato dalla presenza di un’ampia area a pascolo,
dove le vacche potevano rimanere anche trenta giorni consecutivi in
alpeggio. Lassù si concludeva la fienagione, o meglio il primo taglio.
Per evitare i ripetuti e faticosi spostamenti due volte al giorno, il
papà aveva dotato ogni stalla di un piccolo edificio attiguo – cucinino
con branda – dove accasarsi la sera e rimanere “a guardia” della
bergamina durante la notte. Gli ultimi anni di alpeggio, scendeva in
paese solamente la domenica mattina, per andare a Messa. Ma il
pomeriggio ritornava subito in baita, perché gh’ìa sö i àche da gu-arnà (aveva
su le vacche da accudire).
Con
la fienagione e il pascolo nei Crüsür
terminavano le tre tappe del primo “giro” di
monticazione. La bergamina faceva ritorno a Calsinù verso la fine di luglio,
dove occorreva attendere al secondo taglio dell’erba e al pascolo nel còrt (il ricaccio). Aveva così
inizio la seconda turnazione nei prati e nei pascoli, seguendo il
medesimo sviluppo precedente, che sarebbe culminata verso
settembre-ottobre con l’ultimo alpeggio nei Crüsür. Dipendeva dall’andamento
della stagione. Da lì a poco, dopo aver pascolato alle diverse
altitudini anche ol tersöl (il
terzo taglio), l’ultima debole erbetta di fine stagione, le vacche
sarebbero state stalàde verso la fine di novembre nella stalla di Calsinù, quella in contrada, e lì
messe a riposo sino alla ripresa della stagione successiva, il mese di
maggio dell’anno dopo.
Ritmi e percorsi costanti e ripetitivi
caratterizzano tuttora la vita del bergamino e della sua bergamina, in
apparente semplicità e in sintonia con il corso naturale delle
stagioni. Chi ci lavora, però, sa bene che ogni giorno bisogna compiere
una serie di azioni complesse, che richiedono un’elevata organizzazione
e sempre tanto tempo a disposizione. La vita con le vacche assorbe
tutta la giornata lavorativa, da
stèle a stèle (dalle stelle alle stelle, ovvero dall'alba al
tramonto), a corpo e non a ore. La montagna ha sempre chiesto ai suoi
bergamini dedizione completa. Diversamente quassù non sarebbe
possibile vivere.
Note
(1) "battere [il filo della
lama del]la falce fienaia", sull'incudine portatile da falciatore (cùgn): una doppia sineddoche che
rimanda all'attività della falciatura della quale il battere la lama
della falce è una componente minore (si impiega molto più tempo a
ravvivare con la pietra cote il filo che a martellare, per pareggiare
il filo usurato dall'uso, specie se su terreno sassoso). Un
bell'esempio di poetica contadina che fa riferimento al fatto che il
"battere" è la componente più rumorosa dell'azione, quella che a
distanza segnala l'attività svolta.
(2) Gabbia per il contenimento dei bovini ai fini della cura degli
unghioni.
(3) Qui nel senso ampio di "allevatrice di bovini".
(4) Apposita
piccola costruzione, separata dalla cascina per la conservazione al
freddo del latte.
(5) Qui con significato di mandria.
(6) La fraschera è un telaio di legno che ci si carica sulle spalle per
il trasporto del fieno.