Malghesi di Presolana
I Bariselli di Solara. Alla Malga della Presolana da più
di quarant’anni
L'attività
di alpeggio, nonostante tutto, continua a essere praticata in forme che
garantiscono la conservazione di un patrimonio di paesaggi,
biodiversità, prodotti non omologati all'industria, fabbricati e
manufatti, conoscenze e cultura. Il merito è, in gran parte, di
famiglie in cui la passiù si
è trasmessa, senza sostanziali interruzioni, da una generazione
all'altra. Ben vengano - sono necessarie - nuove leve, ma, se non si
inserissero all'interno di una linea di continuità, la dispersione di
quel patrimonio, l'abbandono, sarebbe inevitabile
di Giovanni Mocchi
(02.07.20) A
picco sulla Valcamonica, su per i tornanti che salgono a Monte
Campione, in località Solara c’è il
cascinale dei Bariselli, da generazioni pastori transumanti e malgari
al passo della Presolana. Chi
guadagna la cima della Regina delle Orobie, per il sentiero che viene
dal Passo della Presolana,
incrocia la baita Cassinelli, oggi trasformata in rifugio, con baita
annessa per il malgaro, di nuova
costruzione. Al piatto del giorno che invita alpinisti ed escursionisti
a sostare nel rifugio, per i profumi
d’arrosto e di brasato aleggianti sul mezzodì, si affiancano le
formagelle del Demis . "Di mucche al pascolo brado, senza addittivi e
conservanti" sentenzia
il Gianni, muratore a Castione
della Presolana, ma puntuale nei fine settimana in malga nel ruolo, che
gli calza a pennello, di
imbonitore.
Tutto questo in
estate, quando il Demis con il padre Luigi fa la
monticazione in Presolana, da maggio
a novembre.
Lo si trova, il Demis, prima nei pascoli bassi della Valle di Tede, là
dove nasce un corso d’acqua di
una ventina di chilometri che prende tre nomi diversi prima di
raggiungere il lago d’Iseo con
l’appellativo di Borlezza. Lo si intravede ad agosto su, ai bordi dei
dirupi della Presolana, mentre
cerca di acchiappare le manze fin troppo abituate al pascolo selvaggio.
Lo si sente apostrofare in
bresciano stretto per convincere una mucca impenitente a farsi mungere
a dovere.
Non c’è giornata
in cui qualche imprevisto non gli faccia far notte fonda, una volta per
i cavalli che non si trovano più
e vanno recuperati in quota, l’altra per il nuovo toro che ha deciso di
perdersi nei boschi sopra le
rocce e che, una volta raggiunto, non si piega alla ragione, nonostante
le vigorose schioppettate in dialetto che raggiungono le orecchie dei
turisti, che proprio giaculatorie non sembrano essere.
È una
vita di passione, in tutte e due i sensi della parola: fatica, fatica e
ancora fatica, contro gli imprevisti,
l’inclemenza del tempo e l’assurdità di certe leggi (fatte da chi un
alpeggio forse non l’ha mai visto
se non nelle cartoline souvenir); dedizione, amore per il proprio
lavoro, passione pura, "fin da piccolo
malà pri besti" come dice sua madre.
Poi a settembre comincia la discesa a ritroso, per raggiungere nei mesi
più freddi le rive del fiume
lungo la bassa Vallecamonica, intorno a Solara dove ha la stalla e
l’abitazione.
Il padre è nei
dintorni con il gregge e - come è nella natura del
pastore - appare all’improvviso e
altrettanto rapidamente scompare alla vista con il suo passo rapido e
deciso. Le pecore non le vedi,
anche se sono nei pressi. Raccolte nei recinti son fuori dai tracciati
del turista, Se per caso le incontri,
ti sembrano incustodite, salvo avere un sobbalzo quando scatta il
latrato del cane. È più facile
scoprirle dall’alto o da lontano come macchie gialle che punteggiano un
prato o che illuminano un
pendio.
Bariselli Luigi, che
di secondo nome fa Stefano, perché nato a Santo
Stefano, il 26 dicembre del 1945,
è uomo di poche parole come tutti i pastori, in parte diffidenti e in
parte schivi nei confronti degli
estranei, in una sorta di difesa di un mondo difficile e di un lavoro
che pochi ormai conoscono e
possono capire. Ma sotto la scorza fiera e asciutta si cela una vita
che quando viene raccontata pare
impossibile per privazioni, fatiche e disagi, anche se economicamente -
un tempo - appagante, almeno
per chi era padrone delle proprie bestie.
Per farti piacere
comincia in
italiano, che va via via scemando
nel dialetto più stretto man mano che il discorso si anima e a volte si
infuoca. Allora non bastano
trent’anni di frequentazione di queste valli per capire modi di dire e
battute che forse non potrebbero
essere espresse meglio che nel vernacolo dei montanari
bergamasco-bresciani. Per fortuna interviene
il Demis a tradurre!
Luigi è pastore da quando aveva 15 anni, sguardo fiero e postura
impeccabile in ogni fotografia.
Come già suo padre è
per metà mandriano e per metà pastore, grazie al
figlio Demis, con cui divide
il lavoro: le pecore per sé e la mandria di vacche e la caseificazione
al figlio. Le loro bestie vivono
per la maggior parte dei mesi all’aperto, con una transumanza ancora
tutta a piedi tra Solara di
Piancamuno in Valcamonica e l’alpeggio estivo in Presolana.
Ha incominciato nel ’61 come bocia,
(definizione dell’apprendista
pastore) che se portava la polenta
fredda risalendo le due ore di cammino in cresta sopra a Rovetta dove
l’aspettava il pastore erano
pedate (ancora oggi, a 65 anni, nessuno gli sta dietro su e giù dalle
sue montagne). Poi ha fatto la
transumanza in pianura: Monza, Como, Varese.
Si dormiva su un
giaciglio
fatto di un telo
impermeabile con sopra qualche pelle di pecora e il mantello e sopra
ancora un altro telo per non
bagnarsi. Alcune mattine gli scarponi erano talmente gelati che per
rimetterseli bisognava pisciarci
sopra. Poi ha imparato a infilarli sotto la testa come cuscino, ma che
mal di collo al mattino! In queste
zone, nel passato chi sapeva fare il proprio mestiere anche con poche
bestie riusciva a costruirsi la
casa, la stalla e anche il futuro dei figli.
Così Luigi si è fatto un proprio gregge e ha preso in affitto i pascoli
della Presolana con le malghe
annesse.
Con il lavoro di una
vita è riuscito a diventare proprietario
di bestie e immobili. Fino a questa
generazione. Oggi si fatica il doppio e non si ricava più niente.
Ascoltare il figlio Demis è come sfogliare la pagina economica d’un
giornale: costi - ricavi - perdite
- commercianti disonesti - politica europea bastarda - mucca pazza -
carte, carte e ancora carte che in
alpeggio si dovrebbe lavorare in due, uno dietro alle bestie e l’altro
dietro alle carte - uomini al caldo
dietro le scrivanie a stipendio assicurato che creano solo problemi e
pretendono l’inverosimile.
"Una vacca da abbattere quando è
infortunata, 600 euro ti costa che si sommano alla scalogna, quando
un amico te la seppellirebbe con la scavatrice per 30 euro, otto, dieci
metri sotto! Ce lo dicano e si fa.
Una rabbia a lavorare che a volte si diventa neri, ma neri. Se non
fosse perché ti rovinano sarebbe da
raccontargliela con le botte, che qualche giorno mi trovi sulle pagine
del giornale" (ma stavolta nei
fogli di cronaca nera…).
Demis - glielo senti dire ogni volta - vuole chiudere, vendere tutto e
tenere soltanto il gregge e qualche
mucca.
"Se non ci si facesse
la guerra tra vicini, sarebbe da unirsi tutti e
andare a cantargliele a Roma, ma
adesso ormai è troppo tardi".
Lo dicono le piccole e grandi aziende di allevatori che chiudono in
pianura come in montagna. Lo
raccomanda perfino a tu per tu l’assessore all’agricoltura.
Chiudere finché si può portare
a casa ancora qualcosa.
Eppure ogni anno pastori e allevatori sono ancora lì a lottare contro
la burocrazia, le malattie
importate dall’estero per politiche sconsiderate, mangimi infetti e
giornalisti che, da qualche caso,
montano una terribile epidemia creando il panico nei consumatori.
Chiudere, smettere,
farla finita… è la stessa litania che si legge
nelle cronache del Settecento e poi
oltre ancora, nella crisi degli anni Sessanta e oggi più che mai.
Sembra che questo lavoro si faccia per
una passiù che ti prende e
non puoi combattere. E intanto
l’antichissimo lavoro del pastore che ha
lanciato l’umanità verso la più grande delle sue rivoluzioni,
l’allevamento e la coltivazione, continua
a persistere nel terzo millennio contro ogni logica di mercato. È come
se, nella corsa ai vantaggi
evolutivi che oggi ha subìto una incredibile accelerazione, il DNA
scritto da 10.000 nei nostri geni si
rifiutasse in alcuni di noi di estinguersi. In altri, adiacenti al
mondo in estinzione della pastorizia, si
è trasformato in rifiuto, e in altri ancora in nostalgia e in quadretti
di bucolica poesia (fin dai tempi di
Virgilio e rigorosamente in tutti coloro che non l’hanno mai praticata
personalmente!).
Dagli amici, per la prima notte di
nozze
Ci deve pur essere un
qualcosa di radicato nella caparbietà che hanno
gli allevatori nell’affezionarsi
al campanaccio: "È un ricordo di famiglia, me lo ha regalato un
pastore, è di mio nonno, i ciòche
de me padar". Ogni pezzo ha la sua storia, a volte passato di
mano per
contratto o per affetto, a volte
legato a una certa bestia, rimasta nella memoria, altre semplicemente
perché rievoca l’inconfondibile
canto dell’alpeggio.
Così capita che, alla seconda generazione, tutto si vende fuorché
quella piccola ciocca del nonno,
dimenticata in soffitta per anni, ma poi ripulita e appesa in cucina
come un trofeo, come se del nonno,
assieme alla memoria, conservasse l’anima.
Ma torniamo all’inverno e alla cascina di Solara, dove svernano le
mucche, mentre le pecore
continuano il pascolo vagante nei prati attorno al fiume Oglio.
Davanti
all’immancabile caffè, si chiacchiera con aria rilassata, come
se di lavoro, là fuori, non ce ne
fosse. La famiglia si riunisce in cucina, l’anima della casa, dove il
calore, i sapori, i dialoghi ristorano.
Da sopra la credenza compare una bronza scura, ossidata dagli anni. È
una Obertino & C Fondeur La
Sarraz (Suisse). "Me l’ha data un pastore, insieme a un cane - racconta
Luigi - Io gli
dato un mio cane. Era un
campione. Intelligente. Nel giro di una settimana aveva imparato a
portare il gregge". "Il giorno che ci siamo sposati - aggiunge la
moglie - me l’han appesa
sotto il letto. Quando ci siamo
seduti… dolon dolon. Abbiamo guardato sotto le coperte: c’era sale e
ortiche e sotto… la campana!".
Irriverente usanza degli amici questa, riservata agli sposi nell’intimo
del loro letto nunziale.