Cultura rurale in Valle Imagna
Osterie di un tempo e di oggi.
Epressioni concrete del bisogno di stare insieme
La
festa. Corna Imagna, contrada Calcinone, primi lustri del Novecento.
Centro Studi Valle Imagna. Archivi della Memoria e dell'Identità.
Antonio Carminati illustra nella viva realtà dell'alta valle
Imagna, delle contrade dove esistevano ancora all'epoca non
lontana della sua fanciullezza (anni '60) le osterie sul "modello" che,
nelle sue linee generali abbiamo descritto in un recente articolo su
ruralpini.it. La realtà dell'osteria, vera istituzione della vita
locale delle piccole comunità, aveva ancora molti dei tratti della sua
istituzione medievale. In pochi decenni si sono persi. Oggi, però, la
valle Imagna è un buon esempio, vi sono iniziative che cercano di
tradurre quel modello nel contesto contemporaneo. Iniziative meritorie
perché il bisogno di un posto come le osterie di una volta è tornato
vivo.
di
Antonio Carminati
(25.05.20)
Ho
letto con piacere il contributo di Michele Corti sulle
osterie di comunità, vere e proprie istituzioni rurali (vai
a vedere). Ambienti, oggi per lo più di natura simbolica (mentre
un tempo erano calati dentro la quotidianità delle persone nel contesto
montano), in grado però di richiamare alla luce e rappresentare ancora
alcune relazioni sociali autentiche tra le persone e le famiglie
all’interno dei villaggi rurali e delle loro contrade. L’osteria
rispecchia un modello di vita e di organizzazione sociale impostato su
strette relazioni comunitarie e, soprattutto nel passato, ha costituito
quasi la naturale espansione della famiglia, espressione della
necessità delle persone di stare insieme, anche per esigenze di
reciproca mutualità. Incuriosisce il fatto che, proprio la montagna,
per antonomasia terra delle liberta, sin dal medioevo, e della piccola
proprietà contadina, abbia espresso una visione di comunità rurale
reale molto elevata e dotata di una propria organizzazione sociale. I
concetti di libertà e di proprietà, in questo caso, hanno saputo
esprimere una sintesi originale con quelli di comunità e società, nelle
quali l’individuo si è riconosciuto, accettandone la loro collocazione
superiore e la propria condizione subordinata. Prevalevano decisamente
gli interessi della famiglia, della contrada, del villaggio, rispetto a
quelli dell’individuo. I gruppi-famiglia, contrada e paese, considerati
ciascuno nel proprio insieme, nell’antico mondo contadino sono sempre
stati portatori di valori e significati maggiori rispetto a quelli
degli individui che li componevano. Più volte e in diverse circostanze
di ricerca, abbiamo messo in luce questa dimensione collettiva, non in
opposizione, bensì a completamento di quella individuale, soprattutto
in un contesto di economia di sussistenza. Quando, sino ad alcuni anni
or sono, mi dilettavo - nell’ambito di indagine locali, poi confluite
in diverse pubblicazioni - a leggere i documenti dei secoli scorsi,
conservati in archivi pubblici e privati, capitava spesso di imbattersi
nel termine “comunista”, riferito ovviamente non al rivoluzionario
bolscevico, ancora molto di là a venire, ma quale indice di
appartenenza dell’individuo alla comunità dei capi famiglia intervenuti
in un’adunanza, oppure dei possessori o degli estimati del villaggio
rurale. Comunisti erano chiamati gli abitanti del Comune e della
contrada, mentre in Francia i Comunardi erano coloro che parteciparono
alla rivoluzione giacobina.
Più
volte abbiamo scritto che, soprattutto nel passato, la montagna è stata
il luogo privilegiato delle rappresentazioni comunitarie, l’ambito dove
era possibile sperimentare modalità aggregative spontanee, quali
risposte personali e immediate a esigenze concrete. Senza dover
dipendere da padroni e fittavoli delle terre. In questo senso la
montagna ha saputo esprimere diverse formule e modalità connesse alla
necessità dello “stare insieme”. La montagna non è fatta per stare da
soli, ma per vivere in comunità, sulla base di aggregazioni gruppali
connesse spesso alla parentela, ma anche alla contrada e al villaggio,
alle professioni o ai commerci, nei diversi livelli di rappresentazione
sociale e di identificazione personale. La scelta di vivere nelle
contrade, non in case sparse e isolate (come invece avviene al giorno
d’oggi) ha documentato la necessità dei gruppi stanziali di creare
coalizioni stabili; gli insediamenti tradizionali prevalenti,
indicatori del processo di espansione delle rispettive famiglie,
attraverso accordi e scambi matrimoniali, costituiscono ancora oggi
l’indice più evidente del modello di vita aggregata e cooperante.
Vivere in casa propria, ma aggregata a quelle delle altre famiglie, con
muri divisori in comune, significava risparmiare porzioni di
territorio, ottimizzare i servizi alla residenza, gettare le basi
fisiche per la costruzione di relazioni di mutuo e reciproco soccorso,
soprattutto per fronteggiare i momenti meno favorevoli e più difficili
della vita, percepita nella sua precarietà. Le contrade più sviluppate,
grazie anche alle modeste fortune accumulate da alcune famiglie, oltre
ad assumere un aspetto edilizio fortificato, imponente, caratterizzato
dalla presenza di case-torri (nei punti strategici del loro perimetro)
e dalle diverse corti anch’esse cintate, possedevano al loro interno
preziose sorgive d’acqua, un piccolo oratorio, il lavatoio, l’osteria,…
ed erano dotate di spazi civili e religiosi per l’incontro, la
convivialità e l’osservanza dei doveri cristiani. Insediamenti rurali
orientati a creare le condizioni essenziali per l’autosufficienza
economica e sociale, in modo da dipendere il meno possibile dai servizi
esterni, potenzialmente pregiudizievoli al pieno soddisfacimento delle
proprie necessità e al principio di auto-sostentamento.
Corna Imagna. Il nuovo centro
del villaggio. A sinistra del campanile il
nucleo di Cà de Màrch, dove
aveva sede l'osteria del Balèta;
a destra
del campanile la contrada Fenilgarèl, dove c'è ancora oggi l'osteria
del Paciola. Centro Studi
Valle Imagna. Archivi della Memoria e
dell'Identità.
Le
contrade meglio organizzate e bene strutturate avevano la propria
osteria; di volta in volta, in relazione ai periodi storici, alle
circostanze di luogo e alla capacità del gestore di fornire servizi
aggiuntivi, tale spazio ha assunto nomi diversi: fiaschetteria, caneva,
mescita, dopolavoro, circolo reduci,… In molti casi l’osteria disponeva
anche di una o poche altre camere situate al piano superiore del
medesimo stabile, oppure nelle sue immediate vicinanze, che venivano
messe a disposizione per soddisfare la richiesta di qualche viandante
costretto alla sosta notturna per il riposo, e poter riprendere così il
viaggio l’indomani sulle antiche mulattiere selciate, vere “autostrade”
di un tempo. Era considerata un locale “alla buona”, dove bere in
compagnia un calice di vino, destinato soprattutto agli abitanti del
villaggio. Generalmente di piccole dimensioni, poco più grande di una
normale stanza, di norma al piano terra, non conteneva più di quattro o
cinque tavolini rustici di castagno, con lato quadrato di circa un
metro, sostenuti da robuste gambe tornite e, attorno a ciascuno di
essi, non si sedevano più di quattro persone. Nel piccolo ritrovo,
illuminato la sera dalla luce fioca della löme
(lume a petrolio) riscaldato dalla stüa (stufa)
a legna
(dalla quale in molti casi il locale prendeva anche il nome - ol
locàl de la stua – distinguendosi così dal locàl dol camì,
situato invece nella cucinetta rustica lì a fianco), si serviva
soprattutto vino, fatto venire prevalentemente da fuori, di solito
piuttosto forte, che si differenziava dal peciòrla, il
vinello di produzione locale a bassa gradazione. Il grado alcolico
superiore, rispetto a quello del consumo familiare, metteva in
difficoltà diversi uomini i quali, bevuti due o tre bicchieri de
chèl bù a l’ostaréa (di quello buono dell'osteria) , brindavano
già colmi di effusioni alla
potenza estatica di Bacco. Sarebbe stato poi compito delle donne più
coraggiose della famiglia, anche della matrona, ‘ndà a töi
(andare a recuperarli), ma
si trattava di un’azione alquanto difficile e pericolosa. Non era certo
un fatto onorevole, per l’uomo, farsi venire a prendere all’osteria
dalla moglie o da un’altra donna della casa, figlia o sorella,… La
notizia sarebbe corsa di bocca in bocca, da una contrada all’altra, nei
giorni successivi, quasi a mo’ di scherno. Ogni contrada possedeva il
proprio locale d’incontro per la piccola ma robusta comunità locale e,
in mancanza di una fiaschetteria, poteva bastare anche una semplice
stalla, non una qualsiasi, ma quella più spaziosa e accogliente per
ospitare gli incontri serali, soprattutto nel periodo invernale,
riscaldata dalla presenza di alcuni quadrupedi, frequentata - quella sì
- anche dalle donne e dalle famiglie della contrada.
Osterie
di contrada. Centro Studi Valle Imagna. Archivi della Memoria e
dell'Identità.
Fondo
Rinaldo
Della Vite
Gli
uomini si recavano all’osteria soprattutto la domenica, dopo la Messa
mattutina e al termine della Dottrina pomeridiana, due appuntamenti di
precetto, istìcc sö de la fèsta
(vestiti della festa),
dato che tale ambiente costituiva un prezioso punto di riferimento per
l’incontro degli uomini, lo scambio di informazioni, la condivisione di
esperienze particolari e il confronto su argomenti di interesse
generale. Nel corso della settimana, invece, occorrevano motivi
particolari per recarvisi, come l’appuntamento per la stipula di un
contratto o la definizione di un accordo. Il calice di vino bevuto in
amicizia e la stretta di mano finale, in luogo pubblico e alla presenza
dell’oste, sancivano l’avvenuto accordo tra le parti, che veniva così
definitivamente suggellato. Durante il periodo invernale, però, quando
la fitta coltre di neve impediva l’esecuzione dei lavori campestri e
forestali, l’osteria era maggiormente frequentata anche dai giovani
della contrada. Vigeva sempre una sorta di tacito divieto alla
frequentazione femminile, anzi la donna a volte faceva la sua veloce
comparsa, sempre dietro espresso invito del marito, dopo la Messa
domenicale dell’aurora, alla quale veniva offerto un marsalino, prima
di riprendere la strada verso casa, dove ad attenderla c’erano i
diversi lavori domestici e agricoli. Oltre alla mescita di vino,
all’osteria venivano offerti pure alcuni alimenti di base della dieta
contadina e spuntini veloci: qualche fetta di salame o di stracchino,
di testina o di lardo, o magari alcuni cotechini, accompagnati dalla
polenta, anche abbrustolita, o dal pane,… preparati nel locale del
camino della famiglia ospitante, cui si accedeva di norma direttamente
dall’osteria. In occasione delle principali celebrazioni religiose del
villaggio, si preparava anche la bösèca la
sera della vigilia della grande festa. Soprattutto le osterie situate
in prossimità delle principali cavalcatorie selciate di prima classe,
che collegavano i villaggi, si trasformavano in veri e propri punti di
ristoro, dove avveniva la somministrazione di alimenti e bevande. Nel
villaggio di San Simù (Corma Imagna), il
rituale incontro del gruppo degli uomini, tutti col cappello in testa,
in prossimità dell’ingresso loro riservato della chiesa parrocchiale,
prima dell’inizio della funzione religiosa, serviva per avviare alcuni
argomenti di conversazione, che sarebbero poi stati ripresi, al termine
della celebrazione, all’osteria e portati così a conclusione.
Corna
Imagna. Gruppo familiare. Primi lustri del Novecento.
Durante
gli anni Sessanta del secolo scorso, il mondo delle osterie di contrada
era ormai tramontato e di alcune di esse, come quelle della Tesöla
fò a la Còrna (alla Corna, località) o di Cà Gaàs
all’interno del grande complesso rurale dei Rota-Macì, o
ancora la piccola “fiaschetteria” della Roncaglia, è rimasta debole
traccia solo nel ricordo degli anziani e in alcune licenze d’esercizio
ormai ingiallite dal tempo. Nell’Alto Comune ne erano sopravvissute
solo due, quelle del Pacióla e del
Balèta,
dotate entrambe di campo da bocce, abbinate alla bottega e situate
all’interno del nuovo centro del villaggio che si stava rafforzando a
vista d’occhio. Quel millenario processo di decentramento e
rivendicazione delle autonomie locali era giunto nella sua fase
conclusiva, anzi incominciava già allora a prendere vigore la nuova
tendenza centralizzatrice dello Stato, che accorpava i principali
servizi, dalle periferie delle contrade alle aree urbane e di recente
formazione. Nelle contrade si sono improvvisamente spente molte luci e
sbarrate centinaia di porte. Case chiuse per sempre e stalle rimaste
orfane delle loro vaccherelle… Delle ultime due osterie tradizionali,
attualmente ne è rimasta una sola, ma soprattutto è venuta meno la sua
funzione originaria di luogo di ritrovo di contadini, artigiani e
piccoli allevatori, un tempo desiderosi di confrontare esperienze e
progetti, che al giorno d’oggi viaggiano attraverso altri canali di
comunicazione. Il crollo dell’antico modello insediativo, fondato sulle
istanze e necessità del mondo contadino, ha trascinato nella rovina
anche tutte le sue principali istituzioni di supporto, comprese le
osterie. Quanti, però, hanno vissuto quella particolare dimensione di
socialità rurale, oppure hanno potuto anche solo – come chi scrive -
avvicinare una simile realtà da bambino, al seguito del nonno o degli
zii, conserva tuttora tracce indelebili di quegli spazi, anche angusti
e semplici, ma essenziali, che fungevano da palestra di vita sociale,
assieme alla chiesa, alla piazza (il sagrato della parrocchiale) e alla
stalla. Mi sembra di ascoltare ancora, come un lontano eco, i canti di
montagna e degli Alpini che venivano improvvisati attorno a un tavolino
nell’osteria del Balèta,
soprattutto sul tardi, quando il vino incominciava a sollecitare
intensi sentimenti, che prendevano forma nella forza della voce, a
volte spinta quasi fino a squarciare la gola. La nostra abitazione era
proprio lì, di fronte all’osteria del Balèta,
dall’altra parte della strada, e non bastava chiudere le finestre
(allora senza i doppi vetri), per isolare all’esterno quei concerti
spontanei del sabato sera, che io peraltro ascoltavo sempre volentieri,
cercando di individuare le voci dei singoli coristi, mentre certe volte
alla mamma davano fastidio, poiché non la facevano prendere sonno. Allo
stesso modo come non ricordare quei robusti giovanotti picchiare pugni
a non finire sul tavolo, per ore e ore, mentre giocavano alla morra,
con passione e vigore, gridando con grande energia numeri e indicandone
altri con le dita della mano destra, sempre battuta a pugno sul
tavolo!... Voci, suoni e rumori d’altri tempi. Frastuono e furbizia,
intelligenza e forza si confrontavano nel teatro dell’osteria. Ho
rivisto recentemente alcuni giovani giocare alla morra, ma non era più
la stessa cosa e per essi quel divertimento rappresentava solamente una
lontana imitazione di tempi andati, ma palesemente non più appartenenti.
Convivialità
rurale nel prato. Centro Studi Valle Imagna. Archivi della Memoria e
dell'Identità.
Al
giorno d’oggi i giovani si recano indistintamente all’osteria, uomini e
donne, come avviene al bar di concezione moderna, con semplicità di
movimenti e forse anche qualche pretesa. Un tempo, per un adolescente,
ormai già allenato da anni al lavoro attivo, entrare nell’osteria da
solo, non più accompagnato dal Tata
(capofamiglia) o dal
fratello maggiore, significava accedere autonomamente al mondo degli
adulti. L’azione aveva una precisa rilevanza sociale. Costituiva una
sorta di rito di passaggio che sottolineava la transizione
dell’individuo dall’adolescenza (assai breve) all’età adulta: il
giovanotto si presentava così, in modo diretto e personale, davanti
agli altri uomini del villaggio, soprattutto agli anziani, che
rappresentavano la superiore autorità, i quali lo avrebbero “pesato”,
ossia valutato e anche giudicato nei suoi comportamenti e nel modo di
pensare, di fare e di relazionarsi con gli altri.
Corna
Imagna. Nella piazza centrale del villaggio, davanti all'osteria del
Paciola. Anni Settanta.
Premiazione
della gara ciclistica. Centro Studi
Valle Imagna. Archivi della Memoria e
dell'Identità.
Fondo Edgardo Salvi
Nei
primi decenni successivi al secondo dopoguerra, la frequentazione delle
osterie era venuta gradualmente meno, a seguito del superamento
dell’antico mondo contadino, dei suoi riti e modelli produttivi e
aggregativi. Quante volte i prevosti dei nostri villaggi tuonavano
parole di condanna dal pulpito contro i gestori e i frequentatori di
quelle osterie che avevano introdotto prima ol vertecàl
(fonografo a moneta antesignano del juke box),
poi il jukebox,
oppure che tenevano aperto il locale, magari anche col televisore
acceso, durante la dottrina domenicale pomeridiana! La condanna era
ancora più grave nei confronti di quelle ragazze che si facevano
attrarre da così diversi e facili costumi sociali… Il passaggio dalla
centralità della dimensione collettiva della comunità a quella per così
dire “moderna” ha gradualmente scartato i luoghi della tradizione e
tutti quei comportamenti che facevano riferimento al vecchio mondo. Non
solo le piccole osterie di contrada, ma le contrade stesse e
addirittura le grandi famiglie sono state al centro di un grande
terremoto sociale, che in pochi anni le ha spazzate via, sconquassate e
travolte dalla scossa dirompente dell’esaltazione delle affermazioni
individuali. Il progresso pareva essere finalmente giunto a portata di
mano nel chiuso degli appartamenti e dei nuovi modelli insediativi
delle case sparse, sganciate dal vincolo di contrada: si poteva
finalmente fare da sé, senza più il freno della famiglia o il bisogno
della comunità e delle sue regole e appartenenze. Il maggior comfort
abitativo, con l’introduzione degli elettrodomestici, ma soprattutto
con la sostituzione della comunità concreta dell’osteria con quella
virtuale del televisore, velocemente entrato in tutte le case, ha
determinato il definitivo scollamento col modello di vita e di
organizzazione sociale preesistente.
Nella
Bibliosteria di Cà Berizzi. Due anni fa.
Non
è tutto oro ciò che luccica e la storia non butta via mai niente, ma
conserva, semmai nasconde le esperienze sotto uno o più strati
superficiali, per consentire l’emersione in qualsiasi momento di
pratiche e vissuti solo all’apparenza sconfitti o dimenticati. Negli
ultimi anni, come dopo un brusco risveglio dal sonno profondo nel finto
progresso, con la crisi strutturale del modello produttivo industriale
e insediativo urbano, che nella seconda metà del Novecento ha coinvolto
grandi masse di persone, molte comunità locali sono rifiorite e le
osterie stanno recuperando la loro antica funzione di luogo di incontro
e di identificazione territoriale: naturalmente non sono più risrvate
alla sola componente maschile, ma ad ambo i sessi, alle famiglie, ai
gruppi sociali, alle singole persone in cerca di un nuovo equilibrio
sociale, di un benessere non solo economico, per ritornare alla
dimensione dello stare insieme, in armonia con l’ambiente circostante,
recuperando valori, comportamenti, modelli aggregativi che parevano
essere andati perduti per sempre. Il modello tradizionale dell’osteria
si rigenera negli spazi di una nuova ruralità, tutto sommato nemmeno
poi così diversi da come si presentavano nel passato, e alcune antiche
contrade si ripopolano attraverso l’apertura di nuove aree di pensiero
e di accoglienza nel contesto rurale. Ciò è avvenuto nella contrada
Roncaglia, in Alta Valle Imagna, con la riapertura dell’antica
fiaschetteria di un tempo, attualmente trasformata in locanda, dove si
torna a cantare e a vivere una relazione diretta e immediata con il
cibo di territorio e la natura circostante alla caratteristica corte
medioevale immersa nei prati affacciati sul Resegone. La medesima
azione rigenerativa si è avverata nella contrada Regorda, sempre nel
villaggio di Corna Imagna, con l’apertura della Bibliosteria di Cà
Berizzi: qui la grande narrazione della ruralità orobica, anziché dal Tata,
che immaginiamo ancora seduto nella nécia dol camì
mentre con le molle riattizza la fiamma sul fuoco, col sò
pistù ben risposto sóta ol sentàl,
è offerta da una cospicua raccolta ordinata e fruibile di libri,
giornali e riviste. Un’analoga iniziativa è in fase di attuazione nella
contrada Arnosto di Fuipiano e vedrà la luce nei prossimi mesi. Il
mondo rurale alza la testa per affermare non solo la sua esistenza, ma
alcuni caratteri profondamente innovativi, moderni e dotati di grande
capacità rigenerativa… Ancora una volta si riparte dalle contrade,
dalle periferie, non
dal centro. Dove? In montagna.
Serie
di cultura ruralpina (in valle Imagna)
a
cura di Antonio Carminati
Ol casèl dol
lacc luoghi e manufatti dell'acqua (19.01.20) Insieme alle cantine
(caneve, silter, involt ecc.) e
alle nevere /giazere (i pozzi per la conservazione della
neve o ghiaccio), i casei del lacc rappresentano le "macchine
del clima" della civiltà contadina, della civiltà casearia montana.
Antonio Carminati presenta questi manufatti dell'ingegneria contadina
nella tipologia della prealpina valle Imagna.
Ol sègn di èrem."Segnare"
i vermi come pratica di guarigione popolare
(13.08.19) I guaritori popolari operavano (operano) con varie
modalità. I gesti, i "segni", praticati sul malato (o su
degli oggetti), sono tra quelli più caratteristiche. Una delle
applicazioni più importanti dei "segni" era relativa alle verminosi,
specie quelle che colpivano i bambini.
Quando i bimbi
morivano in estate
(05.08.19) Ancora alla fine dell'Ottocento la mortalità infantile in
Italia, nel primo anno di vita, era pari al 20%, senza grandi
differenze tra la regioni. Era causata in prevalenza da
gastroenteriti, ma anche da affezioni respiratorie e
setticemia. I più piccini i patìa tant per ol prìm
cold, soffrivano molto per le prime calure, tanto più che -
in tarda primavera - tutti soffrivano per la fine delle scorte
alimentari accumulate per l'inverno
Vita e morte nella
dimensione rurale
(03.08.19)
Oggi
la morte è stata rimossa dalla dimensione sociale, senza per
questo allontanarne l'angosciosaincombenza. Anzi.
L'individualizzazione esasperata la rende inaccettabile in quanto fine
di tutto, nell'orizzonte materialista e narcisista della società
attuale, limitato all'io, al presente, al piacere,all'efficienza. Nella
dimensione rurale, vita e morte si confrontavano tutti i giorni. I
cari defunti continuavano, in varie forme, a fare parte della famiglia,
della comunità, attraverso varie forme di ricordo e di rito
Quel prato al centro
del mondo
(15.07.19) Luglio è il mese della riconquista degli spazi rurali, che
al termine della fienagione ritornano ad essere fruibili, con gioia
soprattutto per bambini e ragazzi, che finalmente possono correre un
po’ dovunque e dare spazio alla fantasia. Il prato era anche una
palestra di vita, un prezioso ambito per avviare i fanciulli ai doveri
e agli impegni degli adulti.
Giugno: tra intenso
lavoro campestre e rito
(16.06.19) Nel mese di giugno, non possono essere dimenticati almeno
tre eventi ricorrenti e particolari, assai sentiti e vissuti nel
calendario rituale dei contadini: due di essi celebravano i poteri
magici della notte, solitamente frequentata dagli spiriti che si
volevano propiziare. Queste notti, che cadono nel periodo del solstizio
Il fienile come
granaio (in montagna) (08.06.19)Nella civiltà agropastorale
alpina il fieno assume unaforte centralità. Dalla sua raccolta dipende
la possibilità di mantenere più o meno animali durante l'inverno,
animali da vendere oda utilizzare per il latte, animali produttori del
prezioso letame. Dal fieno quindi dipendeva la ricchezza (o la minor
povertà, per meglio dire) della famiglia contadina
Tempo di
preparazione all'alpeggio
(18.05.19)
A Corna Imagna, come in tante realtà delle prealpi, l'alpeggio è
praticato spostandosi su maggenghi siti a diverse quote, sino a
raggiungere i 1.000 m. Si reata, però, sempre a moderata distanza
dal villaggio. Così il contadino saliva e scendeva ogni dai
pascoli e la sua attività principale continuava ad essere la
fienagione. Per le bestie, ma anche per gli uomini, era comunque un
periodo atteso.
Maggio: natura
fiorita eculto
popolare (10.05.19)
Quando la
fede popolare umanizzava e santificava la natura in fiore, i campi, il
territorio. Nel mese di maggio, oltre al culto mariano, erano
importanti le preghiere e i riti di benedizione delle case, dei campi,
dei raccolti ancora incerti. Lo spazio abitato, che andava ben oltre
quello "urbanizzato", era presidiato da contrade e cascine e marcato da
numerose presenze del sacro, prime tra tutte le santelle per le
quali transitavano le processioni delle rogazioni a marcare lo spazio
simbolico della comunità da difendere dal disordine e dalla negatività
Quando la vacca deve
partorire. Quand che la aca la gh'à
de fà (05.05.29)
Per la famiglia contadina tradizionale, ma anche per il piccolo
allevatore di montagna di oggi, l'attesa del parto della vacca è piena
di trepidazione. Si spera che nasca una femmina ma si temono le
complicazioni del parto. Ancor oggi tutto quello che ruota intorno alla
riproduzione bovina nelle piccole stalle è oggetto di pratiche di
solidarietà orizzontale che tengono insieme la comunità degli
allevatori locali.
Hanno ucciso la
montagna (la fine della grande famiglia del nonno)
(15.04.19) Nel racconto autobiografico di Antonio Carminati la "grande
trasformazione" degli anni '60. L'entrata nella modernità, vista per di
più come limitativa e negativa, attaverso l'esperienza di un bambino
che vive il passaggio dalla vita patriarcale di contrada a quella della
famiglia nucleare e dell'appartamento "stile città", una distanza di un
km o poco più in linea d'aria che segna il passaggio traumatico tra due
mondi.
Architettura
identitaria. I tetti in piöde,
bandiere di identità valdimagnina
(06.04.19)
In valle Imagna L'arte delle coperture, della posa
delle piöde ha raggiunto particolare perfezione tanto da
assumere i connotati di un emblema identitario. Non sono poche, però,
le difficoltà nel conservare e far rivivere questo patrimonio di valori
culturali (saperi, abilità) ed estetici. Un tema per un utile dibattito
con il coinvolgimento delle comunità locali e non solo degli addetti ai
lavori.
Pecà fò mars Il rito della
definitiva cacciata della cattiva stagione (31.03.19) Dopo il carnevale, ancora
una volta, per cacciare la brutta stagione, soprattutto la sua pazza
coda di marzo, occorre produrre altro rumore, diffondere suoni anche
strani nell’aria, insomma fare chiasso e… tanto baccano. La
funzione è sempre stata duplice: da un lato allontanare gli spiriti del
male, dall’altro richiamare ad alta voce la bella stagione, facilitando
così il risveglio della natura
Omaggio ai boscaioli
emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19)
Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella
dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e
le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso
ricordarla.
(20.03.19) Lo
spargimento del letame nei prati e campi di montagna,
utilizzatonaturale. Almeno così era nel passato. quale
fertilizzante, è forse una delle attività maggiormente faticose, ma
anche più importanti, sul piano della conclusione di un ciclo.
(03.03.19)
Una
stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di
accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di
esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che
dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come
tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a
sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie,
presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue
caratteristiche naturali e antropiche.
La distillazione
della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19) Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il
mercato ne offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o
vinacce gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo
pure, di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise
sostiene di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la
salute", disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si
diffonde dal Cinquecento).
La
caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli
uomini avevano tempo a disposizione,öna ölta(una
volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti
all’uso dell’archibugio,i vàa a vulp(andavano
[a caccia] di volpi).
L'economia delle
uova nella società contadina
(05.02.19)Loaröieloaröle(venditori
e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa
per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo
alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta
somma di denaro...
In morte di un
complesso rurale di pregio
(22.01.19)La triste parabola di una
contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna. Un tempo abitata tutto
l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di prati e di fabbricati in
rovina. Quelli ristrutturati trasformati a "uso vacanza".
La méssa dol rüt
(08.01.19)La méssa dol rüt (la
concimaia) era l'elemento chiave di un paesaggio ordinato che nutriva
animali e persone senza inquinare e sprecare risorse
Il Natale dei contadini. Un rito che non
scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18) Riti che rivivono,
pieni di significato. Ancora oggi la macellazione del suino è occasione
per aiutarsi tra giovani allevatori. Quella che sembrava una
pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero possiamo
documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza della
macellazione con qualche immagine di insaccatura.