Nell'ambito
delle iniziative del Festival
del pastoralismo di Bergamo, la Transumanza dei bergaminiBergamo-Gorgonzola(vedi
l'articolo su Ruralpini) ha
recentemente attirato l'attenzione sull'importanza storica che, in
Lombardia, assunse la transumanza bovina da latte. Quella ovina, basata
sulla pecora bergamasca - che precedette la transumanza bovina e che
continua ancora oggi - non è certo dimenticata dal Festival. Purtroppo
la pandemia in corso impedisce quest'anno di realizzare le consuente
attività che comprendono, dal 2014, la "mini-transumanza" delle mura e
dei colli di Bergamo. In compenso si intende organizzare a primavera un
evento importante con protagonista l'allevamento ovino bergamsco. Anche
perché le carni fresche e i prodotti trasformati di carne ovina
bergamasca rappresentano una produzione che ha dalla sua forstissimi
connotati ecologici e di rispetto del benessere animali e una risorsa
gastronomica ancora pochissimo esplorata, ma dalle
grandi potenzialità, per il comparto ospitalità e ristorazione
bergamasco e bresciano (uno spunto per il 2023 anno di BS-BG capitali
italiane gemellate della cultura). In vista di questi appuntamenti vale
la pena partire dalla storia della più importante razza ovina dell'arco
alpino.
di Michele
Corti
(19.10.20) L’allevamento
ovino assunse notevole rilevanza economica sin dall’antichità,
alimentando attività artigianali di trasformazione e commerci che
andavano sempre più oltre la dimensione dell’allevamento per la
produzione
domestica di cibo (latte e carne) e vestiario (lana e pelli). Ben
presto alcuni centri del medio oriente (e della Cina) svilupparono la
produzione di tessuti preziosi, tinti con colori di cui si conservavano
gelosamente i segreti. Il
commercio a lunga distanza stimolò la selezione (e la diffusione verso
aree distanti) di tipi ovini con lana uniformemente bianca (che
consente la tintura) e con
caratteristiche di finezza tali da favorirne la filatura e la
realizzazione di tessuti pregiati (caldi e leggeri).
Nell’Italia
padana, sin da epoca preromana, emergono centri lanieri come Padova che
conserveranno a lungo una notevole importanza. Non a caso, in area
veneta, oltre a razze legate alla transumanza (oggi sostituite,
attraverso un lento processo di incrocio nel secolo scorso, con la
“gigante bergamasca”) esisteva una razza, la “padovana” a lana fine e
adatta all’allevamento stanziale in pianura, che si è estinta nella
seconda metà del XX secolo. Nel caso del Veneto, in epoca romana, è
accertata la presenza di “vie armentarie” che collegavano la pianura
all’altopiano di Asiago e ai pascoli del bellunese. A differenza della
Lombardia, in Veneto, sino al 1765 (anno della loro soppressione) la
transumanza regolata da norme giuridiche che metteva a disposizione
delle greggi un sistema di “poste” (aree di pascolo in pianura)
collocate lungo le rotte di transumanza. I titolari del diritto di
pascolo erano soggetti diversi dai proprietari dei fondi e affittavano
il diritto ai pastori. In Lombardia, dove la transumanza è sempre stata
esercitata in assenza di istituzionalizzazione, ovvero di “tratturi” e
“poste”
elementi in grado di lasciare delle tracce di sé (iscrizioni, documenti
legali), non abbiamo prove che fosse praticata in epoca romana. La
presenza di grandi proprietà latifondistiche (e imperiali), che
comprendevano fondi in pianura e in montagna, la rende però plausibile
considerando anche l’efficiente rete viaria e la sicurezza garantita ai
traffici per diversi secoli. Nel territorio dell’attuale provincia di
Brescia, nei primi secoli dell’era cristiana sono numerosi i
rinvenimenti di forbici da tosatura, con maggior frequenza in
Valcamonica e nell’area di pianura tra il Mella e il Chiese il che
potrebbe lasciar supporre che, come in epoche successive, anche in età
antica fosse praticata una transumanza tra la grande valle alpina e la
bassa bresciana.
Il monastero
bresciano di San Salvatore, di fondazione longobarda. Nel
tempo inglobato nel
complesso di Santa Giulia
In
epoca longobarda il famoso testamento di Taido (774) mette in evidenza
come il gasindo fosse proprietario di vasti terreni a pascolo sul
Brembo e sull’Adda legati ad attività di allevamento verosimilmente
transumanti, fatto che risulterebbe avvalorato dal possesso, da parte
del medesimo personaggio, di proprietà in zona prealpina. Un secolo
dopo, il “polittico di Santa” Giulia (un insieme di documenti relativi
alle immense proprietà del potente monastero di San Salvatore a
Brescia), come messo in evidenza da Angelo Baronio (1999) fornisce
prove di una transumanza tra i pascoli di Clusone e della bassa val
Camonica e quelli lungo l’asta dell’Oglio e sino al Po, attraverso
“tappe” costituite da altrettant
egrandi aziende) di proprietà del monastero.
Notizie
certe sulla presenza di una transumanza ovina, sia pure a corto raggio,
si hanno a partire dall’inizio dell’XI secolo (Menan, 1993). La
transumanza avveniva tra gli alpeggi in Valcamonica e in Valtrompia e
le aree di pascolo in pianura dei monasteri di Sant’Eufemia e dei SS.
Faustino e Giovita a Brescia. Anche potenti famiglie bergamasche con
possedimenti sia in pianura che sugli alpeggi esercitavano a quel tempo
una transumanza a medio raggio. Furono, però, i monasteri bergamaschi a
praticare in modo sistematico la transumanza. Essa vide protagonisti,
alla fine dell’XI secolo quelli di Pontida, Fontanelle, Altino,
Vallalta, San Paolo d’Argon. L’allevamento ovino transumante
rappresentava, nel contesto del boom economico successivo all’anno
1000, attività innovativa e trainante. Era reso possibile dalla grande
estensione di incolti che ancora esistevano nella fascia collinare e di
alta pianura. Il monastero più implicato nella transumanza fu quello di
SanGiacomo di Pontida che possedeva pascoli in alta valle
Imagna e, in
pianura, sul Serio, sull’Adda e sull’Oglio. Lo svernamento delle greggi
monastiche non si spingeva più a Sud della vasta “campagna” di
Orzinuovi (terreni ghiaiosi non coltivati) che resterà, sino alle
bonifiche della seconda metà del XIX secolo, un’area privilegiata per
la transumanza ovina. Sia pure meno estese analoghe aree incolte, a
boschi e pascoli soppraviveranno anche lungo il Brembo (“brughiera di
Osio”) e gli altri fiumi. A fianco della transumanza monastica a medio
raggio esisteva anche una transumanza a breve raggio che vedeva
villaggi di alta pianura e delle prime pendici prealpine spostare le
greggi del villaggio verso la montagna (es. Monte Bronzone) in estate e
verso le aree incolte dalla pianura in inverno.
Dalla
metà del XII secolo tutto cambia e la pastorizia bergamasco-camuna
entra in una fase di grande sviluppo. La transumanza estende il suo
raggio e arriva al Po (e oltre) perché gli incolti nella fascia
pedemontana e di alta pianura diventano ormai scarsi. Aumenta anche la
consistenza delle greggi (che possono superare i 1000 capi). Questa
evoluzione risulta in parallelo con il decollo dell’industria laniera c
he vede (fine XII secolo) moltiplicarsi i mulini a follone (fase
importante del finissaggio dei pannilana che richiedea la disponibilità
dell’energia idraulica). Ai monasteri subentrano intraprendenti
personaggi delle valli. Va precisato che questi “malghesi” (ovvero
proprietari di “malghe”, consistenti gruppi di animali da latte,
soprattutto ovini, ma anche caprini e bovini), come parecchi
proprietari di greggi ancora oggi, erano più operatori commerciali (e
finanziari) che “pecorai” impegnati a condurre le greggi
ex-transumanti che si erano stanzializzati, i malghesi stipulavano
contratti di diverso tipo. Intorno alla transumanza fioriva infatti
un’economia dinamica: prestiti, soccide (affitto di bestiame), affitto
di pascoli, vendita di bestiame pelli, lana, pannilana, formaggio.
Attività artigianali e allevamento transumante erano strettamente
intrecciati e grazie alle loro abilità commerciali i montanari che le
controllavano, non pochi finirono per stanziarsi nelle città (Brescia,
Crema, Verona) da dove continuavano a controllare i vari aspetti
dell’economia della transumanza. La transumanza seguiva le aste dei
fiumi ai cui lati esistevano ampie fasce ghiaiose incolte. Tutto lascia
supporre che il tipo della pecora “gigante bergamasca” si sia
sviluppato all’epoca dello sviluppo della transumanza a lungo raggio
(XII secolo).
Le
celeberrime miniature del Theatrum/Tacuinum sanitatis (XIV sec.)
illustrano ovini dal profilo fronto-nasale convesso e dal padiglione
auricolare lungo e pendulo: è la pecora bergamasca. Altra
caratteristica determinante: il vello uniformemente bianco: carattere
moderno (anche se presente in ceppi ovini sin dall’antichità) che la
distingue dalle altre razze alpine che conservano, almeno a livello
della testa e degli arti, pigmentazioni più o meno estese .
Essa
comportava la presenza, nelle aree di svernamento
invernali, di greggi che ivi confluivano dalle diverse valli. A questa
prima stabilizzazione di un tipo di pecora adatto alla transumanza (in
relazione alla taglia, alla robustezza e alla conformazione “sgambata”
da camminatrice) ma al tempo stesso caratterizzata da abbondante
produzione di lana “grossa” ma uniformemente bianca. Tale carattere
differenzia la bergamsca dalle “razze alpine primitive” che, tutt’oggi,
sia pur ridotte a reliquie, sono caratterizzata dal vello pigmentato.
Adatte per la produzione casalinga di articoli in lana “naturalmente
colorata” le lane pigmentate mal si prestano alla tintura e quindi alla
produzione commerciale. La lana della pecora bergamasca era adatta alla
produzione di un panno alla portata di strati popolari che, pur non
potendo permettersi il panno di lana fine (di importazione) disponevano
di un certo reddito.Le grandi aree incolte della media pianura
lombarda, strategiche per la
transumanza, si ridussero anch’esse nel corso dei secoli (sia pure
molto più lentamente di quelle delle fascia di pianura alta e
collinare). Però, ancora alla fine del XVI sec., la comunità di
Soncino, in controtendenza rispetto ai “bandi delle pecore” che, già
alla fine del secolo precedente, erano stati emanati per difendere
un’agricoltura che si faceva più intensiva, chiedeva che venissero
concesse licenze di pascolo ai pastori perché in questa zona, come in
quella di Orzinuovi, a Est dell’Oglio, esistevano ancora pascoli
asciutti e sassosi, zone umide, boschi. Essi sopravviveranno sino
all’Ottocento.Nel
medioevo la transumanza era facilitata dalla presenza di ampi pascoli
incolti, non falciabili, sia nella media che nella bassa pianura. Erano
di pertinenza di grandi proprietari che li affittavano ai pastori non
essendo possibile altra utilizzazione (oltre alla caccia e alla pesca).
In queste aree era necessario trasferirsi a febbraio quando i campi
erano banditi dal pascolo. Grandi pascoli esistevano lungo il basso
corso dell’Adda e lungo quello del Po dove esistevano boschi e dove i
fiumi, cambiando il loro corso, lasciavano vasti terreni che si
inerbivano spontaneamente. In questi contesti i pecorai realizzavano
capanne di rami intrecciati coperte di paglia e semplici recinti per
gli animali. Qui le attività di caseificazione erano attuate con le
stesse modalità e le attrezzature degli alpeggi. Il formaggio ovino,
duro e stagionato, realizzato su questi pascoli della bassa pianura era
trasportato poi, lungo il Po, sino a Venezia. Anche se, durante il XV
secolo avviene (non solo in Lombardia, ma su buona parte dell’arco
alpino – a Nord come a Sud – una graduale sostituzione delle pecore con
le vacche da latte), la produzione di formaggi pecorini prosegue almeno
sino al XVI secolo.L’aumento del bestiame bovino da latte tra medioevo
ed età moderna determinò la
differenziazione dei bergamini dai “malghesi” medievali. I bergamini
erano allevatori di vacche da latte spinti
ad abbandonare le pecore dalla crescente disponibilità di fieno. Dove i
terreni potevano essere irrigati (il canale della Muzza che deriva
l’acqua dell’Adda a Trezzo è stato scavato nel XIII secolo) si avviò
con gradualità una trasformazione profonda dell’agricoltura della bassa
pianura.
A
Nord di Orzinuovi, in sinistra Oglio, ancora a metà XIX sec. vi erano
estesi boschi e incolti: una manna per i transumanti (mappa militare
austro-ungarica).
Al posto dei
grandi pascoli dati in affitto ai malghesi e
delle unità poderali dei “massari” (mezzadri) dediti alla
cerealicoltura (che, con la scarsità di concime animale e non inserita
nella rotazione, aveva rese bassissime), sorsero le moderne cascine,
dotate di stalle, fienili, casa del bergamino e, dalla metà del XVI
sec. anche di veri e propri caseifici aziendali. Per l’allevamento
ovino la conseguenza non fu solo la perdita di pascoli invernali, ma
anche di quelli d’alpeggio. I bergamini, infatti,continuano, di regola,
a risalire in montagna in estate. Ai pastori restavano le fasce più
elevate degli alpeggi, quelle più dirupate, sassose, con erba corta. A
meno di… ampliare il raggio della transumanza. Così i pastori
bergamasco-camuni presero a dirigersi, in estate, verso le alpi
piemontesi (non solo quelle a Nord che erano ancora parte dello stato
di Milano, ma anche quelle a Sud-Ovest della provincia di Cuneo), verso
la Valtellina (dominio grigione dal 1512), verso il Tirolo, verso la
Svizzera. In inverno si dirigevano verso le aree di pianura e collinari
del Piemonte e dell’Emilia. La presenza dei pastori bergamaschi in
altre regioni dell’arco alpino ha determinato lo sviluppo di razze
derivate: la biellese, la tirolese, la razza di Saas del Vallese,
influenzandone anche altre (la carinziana kartner
brillenschaft, analoga alla tingola trentina), la
slovena sokavsko-jerzersta,
l’appenninica).
Un’area che ha giocato il ruolo di un vero e proprio crogiolo di
fusione delle razze ovine transumanti è stato il mantovano. Nelle
praterie mantovane confluivano, oltre ai pastori bresciani, quelli
trentino-tirolesi, veneti (veronesi, vicentini, bellunesi) e persino
friulani.La
necessità di ampliare il raggio di transumanza dipese dal fatto che la
domanda di lana (ovviamente legata agli sbocchi del prodotto
trasformato principe: il panno) restò elevata e continuò ad aumentare
sino al XVII secolo. Un fatto da mettere in relazione con le
caratteristiche della lana bergamasca. La sua domanda – data la
destinazione del prodotto per il mercato locale popolare – non risentì
della sostituzione, che avvenne sin dal XIII secolo nei principali
centri lanieri cittadini ( partire da Milano), delle lane nostrane con
quelle “fini” (pugliesi, spagnole, tedesche, inglesi). Non risentì
neppure della crisi che colpì pesantemente i centri lanieri nel XVI
secolo per via della sempre più agguerrita concorrenza estera. E’
significativo che, in quel secolo, i lanieri bresciani (tra i quali non
pochi di origine bergamasca) cessano la produzione di panno e si
dedicano alla commercializzazione di quello bergamasco. La domanda di
lana nostrana resiste nell’ambito della manifattura rurale ma anche di
centri come Gandino, in val Seriana, che si mantenne a lungo come
centro laniero conoscendo anche momenti di ripresa ancora nel XIX
secolo, prima con le commesse militari napoleoniche poi introducendo la
meccanizzazione e la differenziazione di prodotto: da panno a coperte
di lana (si ricordano ancora i famosi cuertì di
Leffe che attuavano una forma di filiera corta ante-litteram attraverso
la vendita ambulante).
Maestosa
e internamente sfarzosa, la basilica di Gandino testimonia della sua
floridezza
Punto di
forza di Gandino, come del resto di Biella e di Valdagno, i centri
lanieri del Piemonte e del Veneto, era la disponibilità della materia
prima: le greggi che scendevano dalla val Seriana, ma anche quelle
provenienti dalla Valcamonica, transitavano in primavera e in autunno
da Gandino, dove venivano tosate presso le sedi delle aziende laniere;
spesso le greggi erano di proprietà di queste ultime. Nel
XVII secolo, dopo il periodo di pesante crisi dovuto alle guerre ( in
particolare di successione del ducato di Mantova e del Monferrato) ma,
soprattutto, alla peste “manzoniana” del 1631, le pecore riuscirono per
un certo periodo a riprendersi gli spazi ceduti in secoli di progresso
dell’agricoltura. La terre lasciate incolte vennero prontamente
pascolate dai pastori. Alla ripresa dell’agricoltura negli ultimi
decenni del secolo, per reazione al baldanzoso “allargamento” dei
pastori, si moltiplicarono i “bandi” contro di essi. Mentre, però,
nello stato di Milano i bandi erano emessi dalle autorità locali, nello
stato veneto ebbero carattere generale anche se, come molte “grida” del
tempo, restavano spesso inapplicati. Sulla carta le misure contro i
pastori divennero draconiane.
Il proclama
del capitano di Bergamo del
1658 stabilisce che, eccettuati i tezzoni per la produzione del
salnitro (necessari per la preparazione della polvere da sparo e quindi
necessari per usi militari), il pascolo ovino in pianura era
proibito. I trasgressori incorrevano in pene severissime Le
pene previste per i trasgressori erano severissime: tutte le Pecore, e
Capre, che saranno ritrovate nel Bergamasco […] siano e s’intendano
immediatamente perdute, chiunque le trovava poteva
appropriarsene ammazzarle,
e convertire in proprio benefizio. I pastori
trasgressoridebbono
essere fermati prigioni etiamdio con suono di campana a martello, al
quale dovranno concorrere gli uomini de Comuni con le loro armi, perché
si seguisca l’arresto a tutte le maniere ed ai trasgressori pene di
Corda, Galera, Prigione o pecuniaria. Al fine
di troncare sì
perniciosa, et abborrita violenza viene proibito a
chi si sia […] prestar ricetto, alloggio, o ricovero a Pecore, o Capre
bandite, né a loro Pastori, Conduttori, o Custodi. Si
trattava di una
vera e propria guerra dichiarata alle pecore e ai pastori. Questi
ultimi, peraltro
erano ben armati (vedi le ripetute grida per impedire loro il porto di
archibugi) e, spesso, godevano di coperture altolocate. In tutta la
vicenda laniera bergamasca, con i dazi, l’imposizione dell’acquisto di
materie prime nell’emporio Veneziano nonché altre misure che
contribuirono a mettere in crisi il lanificio bergamasco (misure da cui
Gandino sapeva abilmente sottrarsi grazie a provvidenziali esenzioni
ottenute con i soliti maneggi) la politica veneziana non si dimostrò
caratterizzata da quella proverbiale accortezza, misura e benevolenza
per i sudditi bergamaschi che una vulgata convenzionale troppo spesso
le attribuisce. Un atteggiamento decisamente più prudente (e
lungimirante) fu tenuto dalle
autorità dello stato di Milano. Esse si rendevano conto che il
conflitto tra agricoltura e vagantivo ovino non era semplice da
risolvere. Vi erano anche qui terre di pianura dove le comunità locali,
o almeno gli esponenti più influenti di esse, chiedevano a gran voce
bandi generali. Ma, altrove, erano i potenti proprietari, i patrizi,
che chiedevano licenze per accogliere i pastori; in altri casi intere
comunità reputavano prezioso l’apporto del concime lasciato dai greggi
e chiedevano che le pecore fossero ammesse liberamente. Piccoli
coltivatori e grandi proprietari erano spesso favorevoli alle pecore ma
l’atteggiamento ostile o meno delle comunità locali nei confronti dei
pastori dipendeva molto, oltre che dalle dimensioni dei fondi, dagli
ordinamenti agrari. Dove era importante la viticoltura, sia pure nelle
forme “promiscue” del passato, le comunità tendevano a “fare barricate”
contro i pastori. Come vedremo tra breve, a Milano, nonostante le
pressioni, non si emisero mai quei bandi generali contro le pecore (le
classiche “grida” in stile “spagnolo”) che colpirono la Lombardia
soggetta a Venezia. Anche se i pastori transumanti bergamaschi già da
secoli avevano dovuto adattarsi
ai pascoli di alta quota è solo all’inizio del XVIII secolo che un
naturalista svizzero (J. J. Scheuchzer) mette nero su bianco la
descrizione dell’alpeggio “estremo”dei pastori bergamaschi sui pascoli
della valle del Reno, ai limiti del ghiacciaio dell’Adula (3400 m).
Eravamo in piena “piccola glaciazione”.
La
mappa originale di Scheucherz. Il Nord è in basso. In alto a destra la
val Mesolcina. Zum Rhein è l’attuale Hinterrein. a sinistra Splügen
(località di arrivo della strada che proviene da Chiavenna attraverso
il passo dello Spluga)
Questi
pastori italiani, che
ogni anno portano sulle alpi retiche diverse
migliaia di pecore (con grande guadagno dei reti che per pochi mesi
ricavano dai pascoli che affittano un canone elevato), conducono una
vita semplicissima e infelice: il cibo è costituito da farina di
miglio, [cotta con] aqua senza sale e non condita con burro e da carne
semi putrida di carcasse di pecore che, per accidente, sono precipitate
dalle rocce o di altre che sono morte colpite da qualche malattia. In
quella estrema solitudine si può trovare dell’ottima ricotta di pecora
che degustammo come fosse un dolce e che, per la sua morbidezza, supera
qualsiasi formaggio vaccino o caprino. Il formaggio lo trasportano in
Italia. Il ricovero è costituito da una capanna di sei piedi [1,8 m],
costruita in pietra a secco, protetta in qualche maniera dalle sferzate
del vento chiudendo le fessure con frammenti di pietre e assicelle. Il
giacilio è costituito da fieno sottile, lo stillicidio è costante,
tutto è misero, in sintonia con la condizione silvestre del luogo.
Questa regione di pascoli dove abbiamo sostato, trattati con cortesia
dal pastore italiano, sulla quale incombono i ghiacciai, è
chiamata Paradisus e
non ha derivato la propria denominazione dall’amenità del luogo né
dalla fertilità né da qualche altra piacevolezza del paradiso terrestre
ma lascia pensare a una forma di ironia.
La
descrizione lascia
trasparire l’ammirazione per il pastore bergamasco
che, in Svizzera, ancora oggi, gode di grande reputazione di serietà e
competenza e al quale vengono affidati greggi vaganti. Incidentalmente
notiamo anche come la produzione casearia ottenuta dalla pecora
bergamasca fosse ancora importante. I diari (pubblicati da Mario
Berruti) di Omobono Zuelli, un grosso e ricco pastore di Pezzo,
frazione di Pontedilegno (che li redasse a cavallo tra XVIII e XIX
secolo), confermano che la produzione casearia, seppure modesta (le
pecore erano munte per tre mesi dopo lo svezzamento dell’agnello),
rivestiva ancora importanza nell’economia della transumanza. Omobono
era anche banchiere ed esattore delle tasse che, nella sua vita, si
barcamenò tra tre regimi: veneto, napoleonico e poi lombardo-veneto.
Ciò a dimostrazione che il pastore, come nei secoli precedenti, poteva
ancora essere personaggio ricco e influente.
Il declino,
nel corso del XVIII secolo, dell’allevamento ovino transumante è legato
alla crisi dell’industria laniera (anche il panno “comune” bergamasco
venne
colpito da misure protezionistiche che finirono per limitarne
l’esportazione verso il solo stato di Milano (in Veneto non vi era
sbocco perché vi erano centri
lanieri locali). Incideva negativamente, però, anche
l’ampliarsi delle aree a
prato artificiale, nel contesto di un’agricoltura tra le più avanzate
al
mondo, sempre più orientata alle rotazioni. La “concorrenza” dei bovini
da latte, che verso la secondà metà del XVIII secolo conobbero un
aumento molto consistente rendeva sempre più limitati gli spazi per i
transumanti. Gli agricoltori preferivano far pascolare l'ultimo taglio
autunnale ai bergamini come "regalia" concessa loro a fronte
dell'acquisto di tutta la produzione di fieno delle cascine da parte
del bergamino che assicurava cospicue entrate ai conduttori delle
aziende. Ben diverse erano le condizioni di scambio con i pastori che,
quando trattavano con i contadini, acquistavano l'erba in cambio di
agnelli o formaggette (ovviamente erano diversi i patti con i grandi
proprietari). La concorrenza dei bovini da latte si fece
forte anche per
il mantovano, area privilegiata si svernamento dei greggi, dove i
malghesi veneti (ma anche bresciani) scendevano in inverno con le loro
mandrie.
Nel XVIII
secolo si pongono le premesse per lo sviluppo di una nuova industria
tessile che, nel secolo successivo, conobbe in Lombardia, un vero boom:
quella del setificio. Anche in centri lanieri tradizionali, come quelli
della val Seriana, le filande attraevano risorse che, nei secoli
precedenti, erano indirizzate all’industria laniera. Ciò nonostante
l’allevamento ovino transumante continuava, a fine del XVIII secolo a
essere considerato di “interesse nazionale”. Un editto milanese del
1772 definiva le pecore animali
così utili e proibiva i pastori tanto Nazionali che Esteri
di uscire dallo stato di Milano senza
prima aver lasciata la lana nel paese.
Ciò al fine
di porre riparo al pregiudizio che con tale clandestina
Estrazione ne deriva al Commercio interno dello Stato, che, dopo aver
somministrati gli alimenti nel tempo più critico dell’Inverno tanto a’
Pastori che alle loro Greggie, si priva d’una materia prima così
necessaria.
Dal momento
che i pastori “nazionali” erano pochi, allo
stato di Milano continuava a interessare il loro arrivo per lo
svernamento, a patto che la lana restasse entro i confini6.
Nel 1775 un altro editto ribadiva il divieto di uscita di pecore non
tosate e stabiliva che i pastori potessero usufruire dei pascoli solo
in presenza di espressa licenza del proprietario del fondo. Era un modo
per tutelare l’agricoltura, in una fase di grande sviluppo e
intensificazione ma, allo stesso tempo si rigettavano le richieste di
“bandi generali” come quelli in vigore nello stato veneto.
Dalla fine del XVIII secolo in poi, però, il
ridimensionamento dell’importanza economica dell’allevamento ovino
transumante fu drastico. Nel XIX secolo l’aumento demografico, quello
del patrimonio zootecnico bovino e della produzione casearia e, in
generale, dei trasporti(basati sull’energia animale), spinsero
all’aumento dei fieni e all’eliminazione quasi completa delle aree
incolte residuali. Per valutare la contrazione del patrimonio ovino si
possono confrontare gli estimi veneti con le statistiche
lombardo-venete. Nel 1562 sarebbero state allevate ben 100 mila
pecore in Valcamonica. Nel 1617 la sola val Gandino contava 24 mila
pecore. Nel 1857, invece, l’intera provincia di Bergamo
(compresa la
Valcamonica) contava solo 58 mila pecore. La relazione per la provincia
di Bergamo del Censimento
del bestiame del 1881
tracciava un quadro impietoso dell’allevamento ovino:
Questi
[capi ovini] costituiscono la così detta razza bergamasca di alta
statura, con lana di mezzana qualità ed ottimamente lattifera. Sgraziatamente
questa specie è in continua decadenza da parecchi
lustri. La agricoltura spinta fin dove il lavoro della vanga più
ricavare appena un frutto stentato, ha ristretto sempre più con un
argine insuperabile lo allevamento di questi animali. Il vagante
pastore, cacciato dai più pingui pascoli delle nostre prealpi,
riservati agli animali bovini, erra l’estate sui più alti monti del
Comasco, della Valtellina, e della Svizzera fin presso quasi alla
stagione delle nevi perpetue dove la tenuità degli affitti prova con
quali alimenti possa pascere il suo gregge; ed ove scenda a svernare al
piano, è obbligato a contendere a ogni passo e per pochi sterpi,
coll’agricoltore. Ed il più delle volte a stanziare il suo gregge in
umidi pascoli, donde risale ai monti colpito da chachesia.
Il
peggioramento della condizione del pastore transumante nel XIX sec. è
riflesso nella scarsa dimensione dei greggi, ridotti a 100-150 capi in
media. Tra XIX e XX secolo la Confederazione svizzera pose delle
restrizioni (attraverso le visite veterinarie e la tassa di ingresso)
all’alpeggio delle greggi transumanti bergamasche nonostante il canton
Grigioni ribadisse che molti pascoli non potessero essere sfruttati se
non dalle loro pecore.
Primi
anni del XX secolo: gregge bergamasco su pascoli di alta quota in
Svizzera
Pastore
di Parre con un giovane contadino
Nel 1901, venne
presentata al camera una
proposta di legge che vietava il pascolo vagante in Piemonte,
Lombardia, Veneto ed Emilia. La proposta non ebbe seguito ma era
indicativa dell’avversione di alcuni ambienti agricoli della bassa
pianura lombarda (segnatamente del cremonese e del lodigiano) nei
confronti dei greggi transumanti. Persino in anni recenti, anche quando
la politica agricola europea impose il “set-aside” ovvero il ritiro
delle terre dalla coltivazione e, dall’esigenza di contendere ogni
zolla alle pecore si passò alla necessità di utilizzare i greggi per
evitare la trasformazione dei terreni agricoli in lande di sterpi, tale
avversità non cessò mai del tutto ma, anche di fronte alla
dimostrazione dell’eradicazione di malattie pericolose (trasmissibili
ad altre specie) come la brucellosi, si continuò da parte di talune
organizzazioni agricole locali a paventare la presunta “minaccia
sanitaria” costituita dalla transumanza.
Giuseppe
Facchinetti di Vallalta (val Seriana). Da pastore transumante divenne
un ricco imprenditore con decine di garzoni-pastori alle sue dipendenze
ed esercitando anche commercio di lana e pecore.
Il XX secolo è
stato caratterizzato per l’allevamento ovino transumante da fase
alterne. Alla fine degli anni ’20 la crisi economica mondiale e le
scelte di politica economica nazionali determinarono (in relazione ad
una caduta dei prezzi dei prodotti animali maggiore di quella dei
prodotti vegetali e dei mezzi tecnici acquistati dagli allevatori) una
sofferenza di tutti i comparti zootecnici. La politica autarchica e
l’entrata in guerra nel 1940 determinarono un ritorno di interesse per
l’allevamento ovino data la difficoltà di approvvigionamento
dall’estero della lana grezza.
Tiroler
bergshaft. La pecora di montagna tirolese è null’altro che una derivata
bergamasca. Ancora oggi mantiene, come si può vedere, alcuni caratteri
della bergamasca di “vecchio tipo”. E’ evidente la maggiore estensione
del vello rispetto alla bergamasca attuale che ha la testa e il ventre
scoperti
Oltre allo sviluppo di fibre artificiali
vennero avviate varie iniziative per il miglioramento delle razze ovine
e il loro incremento numerico. Questo revival produsse, quantomeno, una
serie importante di studi sulle razze ovine italiane, le loro
caratteristiche, la loro diffusione. Nel
dopoguerra, per tutto il comparto ovino dei paesi che costituivano il
Mec, avvenne un fatto di enorme importanza che ha segnato il destino di
non poche razze ovine condannandole all’estinzione o a ridursi a una
condizione di “rarità residuale”. I trattatati costitutivi entrarono in
vigore nel 1958 e decretarono l’abolizione di ogni dazio di
importazione a carico della lana grezza. Era un modo per favorire
l’industria laniera. Per compensare gli allevatori venne istituita,
anche per la carne ovina, un sistema di sostegno dei prezzi. Nel giro
di pochi anni le razze più pregiate per la produzione di lana fine
(quelle “merinizzate”) dovettero convertirsi a razze da carne. Era
infatti possibile per l’industria rifornirsi in Australia di lana
merinos di qualità superiore e a prezzi enormemente più bassi (in
relazione ai bassi costi di produzione dell’allevamento super estensivo
di quel continente). La bergamasca non era una razza che produceva lana
confrontabile con quella fine d’oltreoceano.
Centri
di transumanza (a lungo raggio) ovina a Sud delle Alpi,
ancora attivi nel XX secolo e direttrici (3 e 4 = val Seriana – val
Borlezza – val Camonica media e alta). 1 = Roaschia; 2 = Biella; 5 =
val di Sole – alta val di Non;; 6 = Tesino; 7 = altopiano dei sette
comuni; 8 = Lamon
La nostra pecora era così
diventata produttrice
di lana da materassi (anche se sussisteva una certa produzione di
ruvide coperte e di abbigliamento militare e se, a livello casalingo
continuavano a essere confezionati calzettoni e altri articoli di
abbigliamento). Il crollo delle quotazioni
della lana fine, però, trascinò al ribasso tutta la gamma merceologica
e ne risentì molto anche la lana bergamasca. Al pastore, che anche da
un piccolo gregge poteva ricavare - con la sola vendita delle lana - un
reddito superiore a quello di un operaio, non restò che aumentare il
numero di capi e puntare sul solo reddito fornito dalla carne. Così
negli anni ‘6o del secolo scorso il gregge medio salì di consistenza a
300 capi, che diventeranno i 1000-1500 di oggi. La gestione
dei greggi più grandi è risultata possibile perché, nel frattempo,
anche gli ordinamenti agrari subirono non pochi cambiamenti. Il già
ricordato set-aside e una disordinata urbanizzazione misero a
disposizione dei pastori molte superfici non coltivate. L’imporsi nella
pianura della monocoltura maidicola per la produzione di silomais,
pastoni, granella per l’alimentazione animale e, dai primi anni del XXI
secolo, per la produzione di “bioenergie”, spinta da fortissimi
incentivi) lascia, in autunno, qualora non venga praticata un’altra
coltura, il terreno disponibile per il “ristoppio” e quindi per il
pascolo. Il rovescio della medaglia è che, ad aprile, con la semina del
mais, le campagne diventano off-limits per i pastori che sono costretti
a contendersi le poche aree disponibili per il pascolo (per lo più
nell’ambito di aste fluviali e parchi) per riuscire a “tirate” sino al
momento di poter salire in montagna. La riduzione dei capi bovini
allevati in montagna (una tendenza innescatasi giù agli inizi del XX
secolo) e, soprattutto, la tendenza a mantenere in stalla anche in
estate le bovine da latte (almeno quelle ad alta produzione), ha in
qualche modo rappresentato, già negli ultimi decenni del secolo scorso,
un elemento favorevole per l’allevamento ovino transumante che, dopo
secoli, è tornato a utilizzare pascoli dai quali era stato allontanato.
Molto spesso il pascolo con i grossi greggi ovini, sempre condotti da
pastori e quindi in grado di utilizzare in modo razionale la risorsa
pabulare, non solo ha impedito il degrado dei pascoli ma, spesso, ha
consentito di recuperare superfici sottoutilizzate svolgendo pertanto
anche servizi ambientali (dal punto di vista della regimazione delle
acque superficiali che dello scorrimento delle masse nevose e,
soprattutto, di quello della prevenzione degli incendi boschivi). Le
premialità associate al pascolamento, pur nelle gravi distorsioni e
speculazioni indotte, hanno rappresentato un ulteriore elemento di
rafforzamento dell’allevamento transumante. La pecora bergamasca, da
ormai diversi decenni, ha accentuata l’attitudine alla produzione di
carne. Ha perso qualche centimetro in altezza e, contemporaneamente, ha
guadagnato in peso (la pecora adulta pesa in media oltre 90 kg) e in
resa alla macellazione. L’immigrazione islamica ha indotto una forte
domanda per l’agnellone (maschio intero di 5-6 mesi del peso, vivo, di
45 kg). Quasi assente la produzione di agnelli da latte che ha senso
solo nel contesto di un sistema in cui la pecora è allevata per la
produzione del latte e che vede la razza bergamasca, a grande sviluppo
somatico – ma, ovviamente, con i tempi necessari – penalizzata in
termini di resa dell’agnello in carne per via della forte incidenza,
nelle fasi giovanili di sviluppo, della componente di ossa e
pelle.L’agnellone bergamasco rappresenta un prodotto di alta qualità
per il consumo
rituale (festa del sacrificio) anche perché garantisce al consumatore
finale l’origine può verificare l’integrità dell’animale (dal momento
che il sacrificio rituale non ammette mutilazioni e imperfezioni).
L’agnellone bergamasco può essere allevato a costi relativamente
contenuti (la transumanza, con il vagantivo invernale, consente di
minimizzare i costi di alimentazione mentre l’affitto del pascolo
d’alpeggio è più che compensato dai contributi del psr e dei titoli pac
). La forte produzione di latte nei primi due-tre mesi di lattazione
(nei mesi successivi si è invece molto ridotta) consente un rapido
accrescimento dell’agnello a costi contenuti perché
la pecora è alimentata al pascolo; successivamente l’agnello,
gradualmente, si alimenta da solo, sempre al pascolo.
In
provincia di Torino la bergamasca/biellese è ancora oggi munta
regolarmente. Una dimostrazione in più della plasticità di una razza
che i pastori, nei secoli, hanno saputo adattare a diverse attitudini:
lana, latte, carne. I pastori hanno saputo gestire in proprio
la selezione (nel caso della bergamasca rifiutando gli arieti
"selezionati"). A differenza delle razze bovine che, quando hanno
potuto, i tecnici e le organizzazioni burocratiche (in sintonia con gli
interessi commerciali, quelli di ristrette élite allevatoriali contigue
agli apparati delle organizzazioni), hanno spesso portato "fuori
strada" rispetto alle esigenze della maggioranza degli
allevatori.
Tenuto conto dei
costi di produzione e della qualità è quindi un prodotto competitivo
rispetto alla carne di agnellone o agnello pesante di provenienza
estera (Nuova Zelanda ecc.). Circostanza che non si verifica nel caso
di altre razze ovine italiane (a meno che si adottino efficaci
politiche di marchio come si sta facendo per
il tardun sambucano).
Anche le pecore a fine carriera trovano sbocco presso consumatori di
etnie extra-europee, abituati al consumo di carne ovina (anche
indipendentemente da motivazioni religiose) che ne apprezzano i vari
tagli. La focalizzazione sulla produzione dell’agnellone ha spinto in
secondo piano la tradizionale produzione dell’allevamento transumante
bergamasco: il castrato. Macellato a oltre un anno di età (in passato
sino a 18 mesi) il castrato bergamasco, con le sue carni mature che si
prestano a tagli anche inconsueti per la sezionatura delle carni ovine,
ampliando anche la gamma delle possibilità di preparazione culinaria,
rappresenta il top della produzione ovina, paragonabile alla chianina
per quanto riguarda la carne bovina.
La
memorabili "Cene del Castrato" all'Osteria La Madia (Braone, Franciacorta)e al ristorante Collina di Almenno I menù.
Da qualche anno, oltre al
tentativo di valorizzare dal punto di vista gastronomico la carne
fresca di pecora bergamasca, si sta assistendo a una valorizzazione
molto interessante della carne trasformata alla quale si stanno
dedicando le aziende di giovani imprenditori aperti all’innovazione.
Oltre ai pastori che si sono dotati di laboratori di lavorazione delle
carni altri hanno impiantato dei piccoli macelli aziendali. Rispetto ai
periodi più bui della sua storia, l’allevamento ovino transumante
bergamasco gode oggi di buona salute tanto che è ripresa qualche
frizione tra pastori per l’uso dei pascoli invernali. Possono
calcolarsi a 70 mila i capi allevati con il sistema transumante in una
sessantina di greggi (alcuni di proprietà del medesimo proprietario).
Note
1Un
sistema analogo alle “poste” fu istituito dalla Repubblica veneta nelle
terre lombarde da essa dominate ma con una finalità ben precisa, di
tipo militare. Dallo sterco ovino si estraevano I nitrati, necessari
alla produzione della polvere da sparo e la Repubblica volle
garanbtirsene la produzione istituendo, tra Bregamo, Brescia e Crema,
una cinquantina di “tezzoni” (grandi tettoie dove le pecore dovevano
essere ricoverate la notte per accumularne le deiezioni). I salnitrai
che li avevano in appalto affittavano ai pastori il diritto di pascolo
sui terreni assoggettati alla servitù del tezzone. Ogni tezzone poteva
accogliere 200 pecore.
2Ancora
sino al XIX secolo, per “pastore” si intendeva sempre il proprietario,
spesso un imprenditore del settore laniero, un commerciante. Nei
documenti dei secoli passati il conduttore del gregge è, appunto, il
“pecoraio” (nella lingua parlata ilfamèi–
garzone – omacìl).
3In
seguito l’importanza della produzione di latte e formaggi4Ciò
non toglie che per un periodo di transizionei bergamini mantenessero
ancora un certo numerodi pecore da latte (come riferisce, nel XVI
secolo l’agnonomo bresciano Agostino Gallo). In tempi recenti, ancora
nel XX secolo, non pochi bergamini mantenevano un piccolo gregge per la
produzione delle lana, articolo prezioso sino alla prima metà del
secolo scorso tanto che non solo I piccoli contadini-allevatori di
montagna ma spesso anche gli agricoltori di pianura mantenevano delle
pecore per il fabbisogno famigliere di lana (ultimamente limitato a
quella per i materassi).
6I
lanieri di Gandino, agli inizi del XIX secolo (quando la Cisalpina si
riforniva di divise confezionate con pannolana gandinese si lamentavano
che il Piemonte non lasciasse rientrare le pecore entro i confini se
non tosate. D’altra parte, sempre in tema di “conflitti internazionali”
intorno alla pastorizia transumante, un laniero di Biella, qualche anno
prima, lamentava che il Re di Sardegna lasciasse entrare 12 mila pecore
bergamasche (che comunque dovevano passare una tassa). Quel laniero,
evidentemente, era anche un proprietario di greggi e voleva limitare la
concorrenza bergamasca.