La pandemia ha accentuato il fenomeno del
"scappo dalla città" ovvero del trasferimento di abitanti delle
aree metropolitane verso quelle rimaste rurali (montagna, aree
collinari interne). Non più solo pensionati ma persone di ogni età si
insediano in condizioni a metà tra il turista e il residente. Il
fenomeno "neo-rurale" ha molti risvolti, non tutti negativi. Quando
però, facendo valere il proprio capitale sociale, il "neo-rurale"
tende, arrogantemente, a imporre ai rurali la modifica del loro modo di
vivere, allora è colonialismo. Due casi di queste settimane di
allevatori che dovranno chiudere,
o trasferirsi, per le lamentele dei "neo-rurali".
di Michele
Corti
(27/12/2020) I rapporti città-campagna
(campagna intesa in senso lato di aree che hanno mantenuto
caratteristiche rurali) continuano a essere oggetto di conflitti
sociali. Le città proclamano di voler essere sempre più "verdi", di
voler praticare l'agricoltura urbana, mentre molte aree ex-rurali
tendono a rurbanizzarsi, ovvero ad assumere caratteri (e modi di vita)
sempre più urbani. Questa apparente omogeneizzazione, in realtà, non
appiana i conflitti.
Un primo aspetto riguarda
le aree ex rurali "gentrificate". In sociologia con gentrificazione (da
gentry = piccola
nobiltà), si è inteso, almeno in origine, il processo di trasformazione
di quartieri urbani popolari in zone residenziali di lusso. E' stato
poi esteso alle trasformazione di aree rurali prossime alle città o
collocate in zone "amene" in zone di abitazioni (prima o seconda casa)
di persone abbienti di origine cittadina.
La gentrificazione può
avvenire sia attraverso nuove costruzioni (ville) che la
ristrutturazione di edifici rurali. In qualche caso le zone
gentrificate mantengono una funzione produttiva agricola. E' il caso di
rinomate zone vitivinicole dove il paesaggio vitato, la presenza di
cantine, enoteche, ristoranti alimenta un turismo residenziale e non.
In queste zone è frequente anche l'acquisto di terre e cantine da parte
di nuovi arrivati. Quanto rimanga di "rurale" in questi contesti è
comunque dubbio.
Ironia
ma anche reattività contro gli atteggiamenti prepotenti dei cittadini.
Il cartello dice: Attenzione, villaggio francese, entrate a vostro
rischio e pericolo. Abbiamo delle campane che suonano regolarmente,
galli che cantano molto presto, dei gruppi di animali che vivono vicini
e alcuni di essi hanno dei campanacci al collo, degli agricoltori che
lavorano per darvi da mangiare. Se voi non sopportate queste cose non
siete nel posto giusto. In caso contrario abbiamo buoni
prodotti del territorio, degli artigiani ricchi di talendo e
desiderosi di farvi scoprire le loro capacità e le loro produzioni.
Tolto il caso della
vitivinicoltura pregiata , la compatibilità tra la continuazione
della funzione produttiva agricola e la trasformazione della
campagna/montagna in zona turistiche e/o residenziale di lusso è
problematica. Dove il turismo prevale e le residenze (principali o
secondarie) dei cittadini si infittiscono, si assiste a una vera e
proria marginalizzazione ed espulsione della attività produttive che
diventano "fastidiose" mentre i nuovi residenti chiedono serivzi e
infrastrutture estranee alla dimensione rurale ma coerenti con la
domanda di leisure (sport, intrattenimento).
Da questo punto di vista
vi è ovviamente una grossa differenza tra quello che succede in Francia
e in Svizzera e quello che si verifica da noi; una questione di cultura
e di retaggi storici (risalenti all'età comunale), che ha condannato
all'inferiorità il mondo rurale italiano. Così, se a fianco
dell'albergo svizzero c'è una bella concimaia, in Italia le stalle e le
aziende agricole sono state espulse dalle aree edificate cresciute
disordinatamente sulla base del calcolo speculativo e clientelare.
Anche in montagna.
Quello di cui vogliamo
parlare qui in modo più specifico, è però un fenomeno più
recente, legato alla "neo-ruralità". Con questa espressione ci si
riferisce al movimento di "fuga dalle città" che riguarda chi intende
intraprendere attività rurali (agricoltura, turismo rurale,
artigianato) ma anche coloro che puntano alla mera residenzialità, a
vivere di pensioni o di telelavoro, acquistando al centro commerciale
anche il prezzemolo e le altre aromatiche e intrattenendo rapporti
limitati al minimo indispensabile con gli "indigeni" (abituati al fatto
che in città i vicini di casa non sai neppure chi siano).
Entrambe queste categorie
puntano comunque a godere della "campagna autentica" (nelle loro
aspettative), quindi a insediarsi non dalle aree gentrificate, ma dove
il tessuto sociale ha ancora un'impronta rurale palpabile (anche se
pochi, anche qui, traggono il loro reddito dall' attività primaria).
Ritengo importante distinguere i "neo-rurali" anche sotto un'altro
criterio: l'atteggiamento verso la cultura rurale e verso la comunità
locale. Esso può essere rispettoso o di supponente distacco. Nel
primo caso avremo adattamento (magari un po' problematico) alle
convenzioni, alle usanze, al modo di vita locale, nel secondo continue
lamentele per i "disturbi", i "fastidi" della vita rurale che deve
adattarsi alle loro esigenze, alla loro moralità.
Un atteggiamento
arrogante e presuntuoso si può trovare anche in chi arriva per fare
l'agricoltura, magari biologica, guardando dall'alto in basso i
trogloditi vetero-rurali che, condizionati dal mercato e dagli
apparati, hanno dovuto piegarsi alla chimica o che perseguono nelle
pratiche realmente tradizionali, senza entusiasmarsi per la biodinamica
e altre "agricolture naturali", nate in altri contesti e da noi
abbracciate spesso da elementi radical-chic.
Il "neo-ruralismo" di
stampo colonialista interagisce negativamente con i membri della
comunità locale, specie con chi svolge attività agricola. I
"neo-rurali" si sono fatti un'idea idilliaca della campagna, dove il
tempo "si è fermato" e tutto deve corrispondere a un'immagine da
presepe (salvo poi lamentarsi se manca qualcosa che in città avevano).
Tutto quello che non si allinea alla loro visione preconfezionata di
iddilio rurale è per loro motivo di fastidio, irritazione, che si
trasforma in lamentela, che diviene protesta, che si traduce in denunce
per violazione del codice civile o penale. Anche in Francia (ma in
tanti altri paesi) è così.
I cittadini sono incapaci di vivere nella
Francia rurale:perché sta crescendo l'ira della Francia rurale. In
Francia si sono registrate proteste dei neo-rurali contro il rimorte
delle macchine agricole, il canto dei galli e dei grilli, il gracidare
delle rane, il numore del gioco delle bocce, il suono delle campane
delle chiese, quello dei campanacci delle mucche.
Tra le idee preconcette
della "campagna ideale" c'è quella del silenzio. Tutto quello che il
"neo-rurale" sopportava in città sembra averlo magicamente dimenticato
nella "nuova vita". Il sonno del "neo-rurale" è turbato da un cane che
abbaia, da un gallo che canta, da un contadino che accende il motore
della trattrice, dal campanaccio di un animale al pascolo.
Apparentemente il "neo-rurale" desidera ritmi lenti, poi si
spazientisce se i servizi non gli vengono erogati in tempi rapidi, come
in città dove tutti corrono. I rurali sono "lenti", "pigri", fanno
rumore e sporcano (gli animali che passano su una strada, il mezzo
agricolo che lascia una traccia di fango sulla strada passando da un
campo e l'altro).
Il "neo-rurale" mostra
insofferenza per tutti i "disturbi" che gli arrecano i rurali e, in
specie, i contadini, ma non si accorge dei fastidi che egli reca - ben
più gravi - alla comunità insediata e al paesaggio. Accanto a
ristrutturazioni rispettose dei fabbricati pre-esistenti vi sono anche
gli stravolgimenti (colori, materiali, variazioni volumetriche). Il
segno più visibile dell'affermazione di una volontà invadente,
prepotente e invasiva sono però le cancellate entro le quali il
"neo-rurale" si rinserra per isolarsi, per affermare un senso di
esclusivismo proprietario che, specie in montagna, è estraneo alla
cultura locale e, soprattutto, non funzionale.
Anche un semplice
fabbricato rurale, quando sono rispettate le sue caratteristiche
diventa una dimora molto graziosa
Il "neo-rurale" afferma i
suoi diritti alla "privacy" stravolgendo le consuetudini. Cessata la
coltivazione, segato l'ultimo taglio di fieno, gli animali potevano
pascolare in gregge comune i terreni privati. Grazie al fatto che non
vi erano barriere fisiche (che riguardavano solo certe coltivazioni più
a rischio come orti, frutteti, vigneti). Tutt'oggi molti rapporti sono
regolati da consuetudini e da accordi verbali informali. Senza questo
senso residuo di collaborazione comunitaria minimalista sarebbe
già tutto abbandonato.
Oltre all'effetto
estetico, la cancellata è anche pericolosa per gli animali e per gli
sciatori. Ma questa privatizzazione morbosa lede anche i diritti di
passaggio (anche quando formalmente tutelati). Per il "neo-rurale", che
assegna importanza alle infrastrutture di comunicazione solo se
asfaltate e, possibilmente, a varie corsie di marcia, il "sentierino" è
qualcosa di senza importanza, anche quando era una strada comunale. E
chiude il passaggio. Va anche detto che i comuni e certi "indigeni" non
danno buoni esempi.
Purtroppo il "neo-rurale"
non si limita a rinserrarsi dietro le cancellate ma, entro il perimetro
del suo dominio, che lo fa sentire un "signore di campagna" in
sedicesimo, stravolge totalmente le caratteristiche del luogo. Lo fa
utilizzando piante esotiche e velenose al posto di quelle, utili e
belle, che piantavano i contadini: sambuco, noce, pero, frassino. Ecco
allora la siepe di lauroceraso, che pare di plastica ed è molto
velenosa per animali domestici e selvatici, le erbe della pampa, i
cipressi dell'arizona e le araucarie. Piante orribili, che non cambiano
mai nel ciclo delle stagioni. Aggiugasi enormi barbecue. A onor del
vero tutti questi vezzi non sono esclusivi dei "neo-rurali" cittadini
ma anche dei "neo-rurali" autoctoni che hanno ereditato i fabbricati
rurali dai vecchi ma che - trasferitisi in paesoni a valle o in città -
devono marcare il loro nuovo status di non-più-agricoli scimmiottando
in modo subalterno e a volte caricaturale le mode cittadine (il che il
fa classificare sprezzantemente dai cittadini quali "villani rimessi" o
"cafoni"). Molto ci sarebbe da dire sugli intonaci, sui colori degli
stessi, sulle decorazioni che tolgono decoro all'edificio originale
(perline, rivestimenti lapidei ad opus
incertum). La moda del finto chalet, o della villa con patio e
altre forme di kitsch, estranee al contesto dell'architettura locale,
sono ancora in voga, purtroppo.
A giudicare dai motivi
delle proteste di turisti e "neo-rurali" (spesso non facilmente
distinguibili tra loro), ci sarebbe quasi da sorridere. Se la prendono
persino con i grilli e le rane. Invece il problema è serio e ve lo farò
capire con due esempi molto recenti.
Due casi che fanno riflettere
Il primo caso mi è stato
segnalato da un allevatore di capre lombardo. La sua azienda
si trova a 1200 m. Dall'azienda le capre hanno accesso direttamente ai
pascoli alle quote superiori. Stabilita da ormai parecchi anni
l'azienda non ha mai avuto particolari problemi. Quest'anno, però, è
successo un fatto nuovo, da mettere in relazione con il Covid e la
"fuga in campagna". L'allevatore e la compagna erano gli unici
residenti della località, ex maggenghi utilizzati dagli
abitanti del sottostante paese solo per alcuni mesi all'anno. Le ex
baite, trasformate in residenze secondarie si popolavano solo in
estate. Invece due famiglie hanno deciso di venire a vivere stabilmente... e a lamentarsi. E'
fenomeno della residenza secondaria che si trasforma in principale per
chi vuole "fuggire". Di seguito è arrivata un'ordinanza comunale e un
verbale che contestava il pascolo abusivo in violazione dell'ordinanza
stessa (sanzione penale), più altre due contestazioni amministrative
(omessa custodia di animale e pascolo su terreni privati). Da dieci
anni l'allevatore pascola e sfalcia i terreni dei privati con accordi
scritti o verbali. In un'azienda come questa dove, pur lavorando a
tempo pieno, i titolari hanno già il loro da fare (c'è da fare il
formaggio, segare i prati, pulire le stalle) l'obbligo di pascolo
custodito, cui si sono dovuti conformare, fa traballare un precario
equilibrio. Non è possibile assumere nessuno perché il comune affitta i
pascoli agli speculatori, per incassare lauti affitti, e, senza i
contributi per il pascolo, non è possibile pagare nessuno, neppure un
aiuto-pastore. Come si vede l'azienda in questione è presa in una morsa
tra il combinato della politica in materia di pascoli
dell'amministrazione locale (che sfrutta un sistema sbagliato di cui è
responsabile l'Unione Europea) e l'incapacità del neo-insediato di
convivere con le capre che c'erano già prima (all'allevatopre, però si
chiede di convivere con il lupo sparito da oltre un secolo). La
soluzione: far chiudere l'azienda agricola. E pensare che i cittadini
hanno il coraggio di redarguire gli allevatori che si lamentano del
lupo: "c'era prima lui di voi", non riflettendo che il lupo c'era,
anche di più, nelle pianure, oggi occupate dalle aree urbane. Due pesi
e due misure: ma il villico ignorante ha sempre torto (si ripete la
favola del lupo e dell'agnello).
Veniamo al secondo caso.
Ci spostiamo dal lago di Como ai colli orientali del Friuli. Qui, da
anni, un pastore utilizza, con capre e pecore, i pascoli di una grande
azienda (vigneti abbandonati per lo più). Quest'anno ha con sé dei cani
da guardiania che gli sono serviti per il pascolo estivo in Trentino.
Nel sito invernale li deve tenere chiusi per via dei cacciatori,
ciclisti ecc. Gli animal-ambientalisti sono bravissimi a proclamare la
convivenza con il lupo ("bastano i recinti e i cani"), poi, però, loro
stanno in ufficio mentre i pastori si sorbiscono tutte le rogne
derivanti dalla detenzione dei cani. In estate, sulle Alpi, l'impiego
dei cani da guardiania si scontra con la presenza turistica, in
inverno, quando i pastori scendono nei paesi o in pianura, la gestione
del cane è ancora più difficile.
Tenuti rinchiusi per
evitare problemi, i cani, ovviamente, abbaiano ad ogni rumore od odore
non famigliare. Anche di notte perché se il cane da guardia è chiuso o
legato, e non può effettuare alcuna ispezione, può solo segnalare da
fermo, come deterrenza, che è vigile e presente. E qui arriva il
"neo-rurale" che si è insediato, venendo via dalla città, in una ex
casa colonica della stessa grande proprietà. In campagna l'udito
diventa sensibile e a trecento metri con abitazione ristrutturata
completamente (senza rispettare le caratteristiche della dimora rurale
originale ma ben insonorizzata e coibentata), l'abbaio diventa molesto.
Ora, essendo un solo
cittadino a lamentarsi, non si configura il "disturbo della quiete
pubblica" ma, il cittadino si lamenta direttamente con la proprietà che
ha lasciato in comodato i pascoli al pastore. Ancora una volta il
"neo-rurale", socialmente più influente, fa valere il suo disturbo
sulla bilancia con un maggiore peso specifico rispetto alle esigenze
del pastore. Da osservare che, in zona, sempre per problemi di
lamentele per "disturbo sonoro" da parte della stressa persona, un
agricoltore ha dovuto silenziare il "cannone" per allontanare i
piccioni dal campo di girasole. Notare anche in questo caso la
morsa della cultura urbana che si chiude sul mondo rurale: gli
animalisti impediscono di controllare i piccioni e i lupi, gli
agricoltori/pastori devono adottare delle misure alternative allo
schioppo (per non offendere la sensibilità urbana animalista), le
misure adottare offendono però la sensibilità acustica dei cittadini
insediati in campagna. E il cerchio si chiude, il contadino soccombe,
getta la spugna. Obiettivo raggiunto.