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(08.01.16)
Milano città d'acque e di
latte
La sistemazione della Darsena e la
bella mostra Milano Città d'acque(Palazzo Morando, Via
Sant'Andrea sino 14-02-2016) rappresentano occasioni perché
Milano riscopra anche i legami che le vie d'acqua hanno storicamente
stabilito con i territori vicini ma anche con lontane valli alpine.
Sono legami che riguardano anche l'agricoltura, la zootecnia, gli
alpeggi e il caseificio. Vediamo come. leggi tutto
(02.04.15)Un
patrimonio in attesa di
recupero: le storiche casere di Pasturo
La documentazione del
degrado di un pezzo di storia valsassinese e lombarda. A partire dal
1877 sorsero a Rompeda, sopra Pasturo, una serie di casere che
sfruttavano le correnti d'aria fredda (le "lanche")
provenienti dalla roccia calcarea. Oggi rimangono solo ruderi e due
imponenti fabbricati semi diroccati. Sono lontani i tempi in cui i
primi industriali caseari salivano sin qui dalla Bassa per acquistare
le casere o terreni per realizzarle e in cui le carovane dei muli
scendevano fino alla strada carrozzabile per Lecco per trasbordare
gli stracchini sui carri e trasportarli sino alla stazione della
città manzoniana. Ma un rilancio è possibile quanto
auspicabile. leggi tutto
(26.09.14)
Viaggio nelle sedi
ancestrali dei bergamì
La Valzurio, in alta val Seriana è una
valle di bergamì per eccellenza (ma anche di pastori). Amata da
chi ama la montagna autentica, non le rappresentazioni turistiche e
alla National Park. le sue contrade sono autere e rivelano antica
ricchezza e splendore. Volevo girarla tutta in una giornata con
l'amico Andrea Messa di Nasolino ma siano riusciti a vederne meno di
metà. Perché di elementi interessanti storici, ambientali ce ne
sono paerecchi
(20.08.14)
I bergamini visti da
Scheuermeier
Il mio libro - uscirà a metà
settembre - "La civiltà dei bergamini. Una tribù
lombarda di malghesi tra i monti e il piano tra il
quattordicesimo e il ventesimo secolo", edito da Centro Studi
Valle Imagna ha l'onore di essere illustrato anche con immagini
(anche inedite) di Paul Scheuermeier l'etnografo svizzero
che, negli anni '20, eseguì migliaia di riprese fotografiche che
rappresentano una fonte unica sulla civiltà rurale dell'Italia e
della Svizzera italiana e retoromancia.
(03.01.01)
Quei legami tra montagna e
città
La cultura cittadina, non certo da oggi, è poco
disposta a riconoscere come la montagna abbia contribuito in
modo determinante a costruire l'economia, la società, la cultura
delle nostre regioni. E' ora di farglielo sapere.
I
bergamini e la transumanza bovina lombarda - di
Michele Corti
(Atti del I seminario di studio sulla transumanza e l'alpeggio, Asiago,
VC, settembre 2006)
I bergamì - di Luigi Volpi (PDF)
(Rivista di Bergamo, giugno 1930, pp.261-266)
Articoli per argomenti
|
I bergamini ritornano nel cuore
di Milano
di Michele Corti
Venerdì 28 aprile alle 18 alla Sala del
Grechetto della Biblioteca comunale centrale di Milano (Via Francesco
Sforza, 7)
(23.07.17) Si torna a parlare di bergamini a
Milano. Un ritorno a casa degli allevatori-casari transumanti di
origine
orobica che rappresentarono per secoli una presenza ben visibile nella
metropoli lombarda. L'occasione è offerta dalla presentazione dei miei
libri sul tema dei bergamini alla biblioteca centrale comunale (Palazzo
Sormani-Andreani). L'evento si inserisce nel quadro del ciclo di
incontri Grechetto-dipoesia e
delle attività di Latte&Linguaggio onlus che
organizza a maggio alla ex Cascina
Chiesa Rossa (biblioteca comunale realizzata in una vecchia
stalla di bovine da latte) l'omonimo convegno-sagra rurbana
Alla sala del
Grechetto della Sormani si parlerà di bergamini e Milano, bergamini e
Valsassina, con Michele Corti e Giacomo Camozzini (autori). Antonio
Carminati (editore), Luigi Ballerini (anima di Latte&Linguaggio).
Ma non è strano parlare di allevatori-casari, per di più montanari, nel
centro di Milano? D'accordo che questi personaggi sono oggetto di
libri, ma... E invece i bergamini, proprio nella precisa zona di Milano
dove sorge la più frequantata biblioteca cittadina, erano di casa.
Partiamo dalla via
I bergamini,
come altre "categorie"
che hanno contribuito alla vita economica e di Milano del tardo
medioevo e della età
moderna, hanno - in pieno centro della città - una via ad essi
dedicata, nel quartiere dove si concentrano e aleggiano le loro
memorie. Come gli orefici, i cappellari, gli spadari, gli
armorari ecc.
Per chi non lo sapesse la via bergamini era chianata (prima della più
fredda intitolazione "via bergamini"), "contrada dei bergamini". Così,
al plurale, era chiaro a chi ci si riferisse. Poi la toponomastica
modernizzante ha censurato quegli arcaici "dei" e ciò non aiuta gli
ignari.
La via quindi è intitolata ad una categoria, ai
bergamini, non a un sig. Bergamini (cognome peraltro piuttosto
diffuso). Essi costituivano una categoria che, per i milanesi, era
altrettanto famigliare e chiaramente identificabile dei cappellai
o degli orefici. A togliere ogni dubbio c'è il fatto che, sulla
targa, non appare nessuna di quelle
"qualificazioni", dal sapore burocratico (a volte dagli esiti comici quali:
"Spartaco:
gladiatore"), che accompagnano
l'intitolazione della via sulle bianche targhe marmoree (che, per
inciso, sono uno dei vanti
della città; nessun
cantone ne è sprovvisto, al contrario di altre città, anche lombarde,
dove alzi gli occhi sulla cantonata e ti chiedi scandalizzato: "ma in
che diavolo di via sono?" E apri google map con la localizzazione).
Ecco come si
presenta oggi (foto sotto) la via Bergamini (in fondo ad essa si vede bene la
facciata dell'ex Ospedale
grande, ora sede dell'università). Sino a qualche decennio fa sulla via si
affacciavano ancora le botteghe dei furmagiatt.
Anche a occhi chiusi qui - chissà quanti milanesi se lo ricordano - si
percepiva il (fragrante, ma anche penetrante)
nesso con una "storia di cacio e stracchino". Chissà, però, quanti
degli studenti
che frequentano la "statale" conoscono i bergamini? Da tempo medito di
eseguire un sondaggio in proposito.
Di piazzarmi sotto la targa e fermare gli studenti: "scusa, non sono un
rompiballe, ma un prof, e vorrei fare un piccolo sondaggio sugli
studenti che passano da questa via... sai a cosa si riferisce?"
La dedica della via -
che ha dato luogo a ricostruzioni a volte fantasiose - era legata,
ovviamente, alla
presenza dei bergamini al "mercato della Balla" (il mercato
"istituzionale dei latticini", che ebbe durante la sua lunga storia più
sedi e si teneva ogni tre
giorni). Per secoli la sede era nell'area di via Torino (esiste ancora
la via Palla,) poi venne spostato alla Cà granda (via Festa del
perdono). Nell'opera Milano e il suo
territorio, curata da Cesare Cantù
ed edita nel 1844 si legge:
Ab antico si chiama la balla il mercato
dei burri e latticinii in città
e dapprima stava tra Sant Alessandro e San Giorgio ove ne dura il nome,
poi fu trasferito presso l' ospedale grande sotto una tettoia nè bella
nè comoda,
Ma un mercato dei commestibili è un altro de pensieri che la città va
maturando (1)
L'imbocco di via
Bergamini negli anni Venti
Bergamini venditori diretti
I "mercati
contadini" non sono certo invenzione degli ultimi anni. Le autorità
annonarie cittadine (quel Tribunale
di provisione che ci è famigliare dai Promessi sposi) si
preoccupavano molto di calmierare i prezzi, di far affluire le derrate,
di allontanare i sospetti di scarsità e speculazioni (2).
In un "mercato regolato" (inconcepibile oggi ai tempi del neoliberismo
ma
che non funzionava poi così male) numerosi e dettagliati
"capitoli" (articoli dei regolamenti) si preoccupavano di come far
affluire le merci, di assicurare un regolare svolgimento delle
compavendite, di evitare - per quanto possibile - le truffe e di
controllare i prezzi. Così i nostri bergamini li vediamo citati spesso
nei capitoli delle grida relative alla gestione del mercato cittadino
dei prodotti
alimentari. Così nei
capitoli relativi a Olij, Grassi,
Sevi, Candele, & Mele
del Sommario
delli ordini pertinenti al
tribunale di provisione della citta et ducato di Milano... (3).
Cap.
IX. Alcuno Postaro, ò rivenditore
di questa Città non ardischi comprare, ne incaparare alcuna quantità
di butiro, o mascarpe da alcuno Bergamino,
ne altra persona, ne
qualsivoglia vettovaglia in questa Città innanzi la seconda nona, ne
di fuori per miglia dodici, ma tal butiro, & vettovaglie, che si
conducono dalli Bergamini &
altri alla Città, quali le debbano
vendere loro stessi publicamente nelli luoghi destinati, publici, &
soliti, conforme però sempre alli ordini, & non le possino
vendere ad alcuno venditore di questa Città, ma solamente quelli,
che vorranno comprare per uso proprio, & non altramente (salvo
doppo l'hora della seconda nona come sopra alli Postari), & tutto
ciò sotto pena de scuti cinquanta d'oro, e di tratti tre di corda,
overo d'essere posto alla berlina o catena all'arbitrio delli detti
Signori […]
Il mercato quindi era riservato alla
vendita diretta alla mattina. Le facilitazioni offerte ai bergamini
erano chiaramente finalizzate a calmierare il prezzo dei latticini
mettendo produttori e consumatori a contatto con la "filiera corta". Ma
le autorità si preoccupavano anche dell'approvvigionamento del
fieno che rappresentava il "carburante" per i quadrupedi
necessari ai trasporti delle merci ma anche al trasporto (4). Così ai
capitoli Fieno, et paglia del
già citato Sommario delli ordini ...
si stabiliva che:
Cap. I. Nissuno Bergamino, o altro
simile, ardisca havere, ne tenere vacche presso alla Città per miglia
cinque ne per far mangiar fieno, ne pascolar prati, ne detti Bergamini,
ne altri possino comprare, ne alcuno che habbia fieno ardisca vendere
cambiare, donare, ne altrimente contrattare qualsivoglia quantità
ancora che minima di fieno raccolto nelle dette cinque miglia presso
alla Città a detti Bergamini ne altri per condurlo altrove […]
Al cap. II si proibiva tassativamente ai
fittavoli di ospirate o cedere foraggio ai bergamini (5). Da queste
disposizioni emerge come i bergamini rappresentassero attori di
primaria importanza nell'ambito zootecnico e caseario. Esclusi dalla
fascia delle 5 miglia essi si addensavano oltre questa corona
off-limits.
Nella categoria dei "bergamini"
figuravano anche quei personaggi che, pur continuando una vita "nomade"
spostandosi da una cascina all'altra, avevano abbandonato la
transumanza e si erano concentrati sull'attività casearia. Si tratta
dei latée. Probabilmente essi
non erano ancora numerosi nel XVII secolo e la categoria "bergamini"
tendeva a ricomprenderli. In ogni caso la differenza tra bergamini e latée era relativa: i bergamini
lavoravano (quasi sempre) il loro latte, salvo quando lo "affittavano"
ai latée. Questi ultimi
eranio non solo casari ma anche allevatori; non solo
mantenevano diverse vacche da latte ma, con il siero e il
latticello residuo delle lavorazioni casearie, allevavano anche diversi
maiali che, una volta ingrassati, erano esitati sul mercato cittadino.
A sfumare le differenze contribuiva il fatto che tra i bergamini ve ne
erano non pochi che, in estate, invece di tornare ai paesi di origine o
comunque di trasferirsi all'alpeggio, restavano in pianura (6).
I bergamini (e i latée) erano
in ogni caso gente con una particolare sensibilità e affinità con gli
animali (in
testa avevano ... i bes-cti).
Giancarlo
Vitali. Il mediatore.
Esisteva una graduazione senza soluzione
di
continuità tra chi allevava e transumava, chi allevava e caseificava e
chi - infine - si specializzò nell'attività di "negoziante", vuoi di
prodotti caseari, vuoi di bestiame. Da questo punto di vista va infatti
ricordato come il "negoziante" non fosse solo un commerciante. Il
bergamino (e i latée)
vendevano gli stracchini freschi, spesso freschissimi (non ancora
salati).
Era il "negoziante" che, in appositi magazzini semi-interrati
(dislocati
in precise aree della città, come vedremo poi), provvedeva alla
lavorazione, stagionatura, conservazione degli stracchini (e del
grana). Ultimo anello della catena erano i rivenditori, i postari, i
bottegai (ma spesso questa attività era legata a quella di commercio e
stagionatura e, comunque era gestita da diversi rami delle stesse
grandi famiglie).
Quando, con l'espansione della città, che divorava
marcite e cascine, diminuì l'offerta di stalle e foraggio ma aumentarono
le bocche da sfamare, non pochi piccoli bergamini (i grossi diventarono
agricoltori o imprenditori caseari) divennero "lattai", non più nel
senso di "casari" ma di piccoli esercenti la vendita al
minuto di latte e latticini. Chi è nato negli anni
cinquanta-sessanta ricorda con nostalgia quelle latterie che oggi sono
oggetto di
un curioso, ma non troppo, revival. Non pochi divennero anche cervelée.
La presenza e la geografia dei bergamini a Milano è quindi legata a una
costellazione di figure ad essi vicine per rapporti di parentela e di
affari. Figure
stabilmente presenti in città: "negozianti" di formaggi,
mediatori, commercianti di fieno e di bestiame, rivenditori di generi
alimentari.
Una
geografia dentro le mura
La
presenza dei bergamini nella città si raggrumava in quello spicchio
urbano entro la cerchia dei Navigli che unisce piazza Fontana alla Cà
Granda. Dal punto di vista temporale i bergamini diventano visibili
(agli atti) nel XVI secolo. Nel XVII rappresentano una presenza molto
"famigliare" tanto che non solo i capitoli del mercato della balla ma
anche altre normative li citano senza bisogno di aggiungere altro.
Natale Arioli, nipote di un berlaj
(nel lodigiano i bergamini che praticavano la transumanza erano spesso
chiamati così), ex docente Itas Codogno e allevatore (oltre che
studioso), ha rintracciato la presenza dei bergamini in molti documenti
(notarili) del XVI-XVIII secolo. E' sorprendente come gli atti di
secoli fa ci riconsegnino la realtà viva di persone che testimoniano in
tribunale, o da un notaio, a Milano e potevano venire dalla remota val
Tartano (che è nelle Orobie ma sul versante abduano). Oggi parli con
amici "montagnini" e per loro venire a Milano sembra un'avventura nella
jungla (metropolitana). Mezzo millennio fa i nostri antenati montanari
a Milano erano a casa loro. Viene da chiedersi se la tecnologia abbrevi
o allunghi le distanze. I bergamini andavano e venivano a Milano da 100
e più km di distanza, con le condizioni delle "strade" di montagna
dell'epoca (che, proibitive per i carri, imponevano di compiere il
tragitto dalla montagna alla pianura imbastando i cavalli).
La transumanza (e le migrazioni stagionali qualificate in genere)
allargavano gli orizzonti e i montagnini erano tutt'altro che spaesati
in città. In Valsassina i comuni affidavano ai bergamini servizi di
"tesoreria". Tranne in estate, quando alpeggiavano, essi, dalle
campagne dove svernavano, si recavano a Milano spesso e
volentieri (per vendere i prodotti o "fare mercato" di animali,
acquisto del fieno ecc.). Così nel XVIII secolo, a Cassina, il comune
incaricava il bergamino Giovan Battista Combi dell'effettuazione di
pagamenti e si vide abbuonato di parte dell’affitto in cambio del
versamento a Milano, , a nome del comune,
di importi ad estinzione di debiti e imposte dovuti dal
comune stesso (7).
Dettaglio
della mappa di Milano di Giovanni Brenna del 1860
I bergamini erano ben visibili, con i
loro tabarri, al mercato di piazza Fontana che si teneva due volte la
settimana. Già, piazza Fontana...
La frequentazione della piazza (e della
banca che serviva come appoggio per le operazioni) da parte dei
bergamini intabarrati non era ancora cessata nel 1969 quando, il 12
dicembre, una bomba devastò il salone
della Banca nazionale dell'agricoltura causando la strage che inaugurò
un triste periodo nella storia italiana. Camilla Cederna, in un
pezzo giornalistico che
fece scuola (8), li citò tra le figure di un mondo rurale che stava
scomparendo, ma che esisteva ancora e che fu crudelmente colpito.
Erano presenze caratteristiche quelle dei bergamini; presenze che non
potevano
sfuggire ai milanesi, anche a una giornalista che, prima di passare al giornalismo politico, si era occupata di
frivolezze. Nell'anteguerra la loro "divisa" era ancora più
interessante. "In Piazza Fontana
a Milano non è più dato
vederli avvolti nei loro caratteristici mantelloni pelosi di lana verde
[...]" (9). Così scriveva negli anni Settanta Luigi Formigoni
(zio di Roberto). Il veterinario Formigoni, a partire dagli anni Venti,
ebbe parecchio a che fare con i bergamini della Valsassina, capendoli e
ammirandoli (fatto raro tra i tecnoburocrati). Fu, infatti
funzionario responsabile della zootecnia della Cattedra
ambulante di agricoltura e poi di direttore dell'Ispettorato agrario
provinciale di Como. L'abbigliamento dei bergamini in piazza Fontana
emerge in modo più preciso dalla
descrizione di un informatore bergamino, raccolta di persona diversi
anni fa (10).
Prima della guerra i bergamìn prima de tutt gh’éren i uregìn d’òor, bei uregìn. Vegnéven
in piazza [Piazza Fontana] cun la scussalìna magàri un scussaa, quéi
scussaa che metéven sü a fa i strachìn, de téla gròssa e i ligàven
chidedrée [girato sul fianco e di dietro ] cun la tracòlla. Vegnéven in piazza cul
scussaa, magàri gh’e n’era de quèi che metéva sü anca un para de
zuculàss gh’e n’era de quej che vegnéven sü cun scussàa e bastùn perché
el bastùn el mülàven no; l’utanta per cént di bergamìn
vegnéven in piazza cul bastùn e l’era pròpi un abitùdin.
Come tutte le
categorie che si rispettano i furmagiatt
avevano un patrono e un"sindacato". Si trattava di San Lucio
martire e del Pio
Consorzio intitolato al santo della val Cavargna. Il Consorzio venne
canonicamente
eretto nel venerando santuario di San Bernardino alle Ossa. Fondato nel
1835, il sodalizio commissionò al pittore Ignazio Manzoni nel
1845 un grande dipinto ad olio, da cui fu ricavata una splendida stampa
della raccolta Bertarelli, destinata a una certa popolarità: una scena
animata che ripropone il santo
nella sua opera di carità verso i poveri. Il dipinto era collocato a
destra dell'altare maggiore, nel corridoio che porta all'uscita di via
Verziere ma ora non è più esposto perché ammalorato e necessità di restauro.
Una riproduzione del quadro (sotto) è visibile all'esterno del
caseificio di Morterone (in Valsassina).
La
chiesa di San Bernardino alle ossa rappresentò a lungo un punto di
riferimento
costante per i bergamini .
Come testimoniato dalla ricevuta sotto riprodotta rilasciata al "divoto
signor
Giuseppe Arioli" per la celebrazione di messe di suffragio. Gli
Arioli (ne abbiamo conosciuto giù uno) rappresentano una dinastia di
bergamini originari di Piazzatorre
e Mezzoldo in alta val Brembana che conta ancor oggi allevatori e
imprenditori casearinell'area del lodigiano e nell'abbiatense.
Nella nostra
geografia dei bergamini riteniamo di includere anche il palazzo
Sormani-Andreani. E non solo per ragioni simboliche. Esso, fino al
1783,
era palazzo Monti e i Monti, originari della Valsassina, che
diventarono i
feudatari della valle nel 1647. Per la famiglia, osteggiata nelle sue
pretese feudali (rivelatesi poco più che onorifiche) dai Manzoni
e da altri potenti locali, l'esborso
per il feudo
rappresentò un pessimo affare economico. Si consolarono con... gli
stracchini dei bergamini. Uno dei pochi vantaggi conseguiti
all'infeudazione fu il possesso del monte (alpeggio)di Artavaggio. Nel
1731 il conte Cesare Monti (nipote del cardinal Monti) affittò il
monte a Giuseppe Bera di Moggio per 1330 £ più un appendizio di 20
libbre di stracchino (poco più di 15 kg) da consegnare presso il
suo palazzo milanese (11). Il palazzo è l'attuale sede della
biblioteca comunale centrale (famigliarmente nota come "la Sormani").
Per il bergamino, che si recava già in zona per il mercato,
l'appendizio non doveva
risultare così gravoso. Quanto alla modestia della fornitura non ci si
deve ingannare dai parametri d'oggidì (condizionati dalla produzione
industriale e dallo svilimento dei caci). Lo stracchino era piuttosto
prezioso se, sino a tempi recenti, l'appendizio contrattuale dei
fittavoli che ospitavano i bergamini nelle cascine da essi condotte,
comprendeva uno stracchino... al mese.
In via
Francesco Sforza, dove speriamo di veder tra qualche anno scorrere ancora le acque di
quella che era la"cerchia interna", oltre alla Sormani e alla Cà
Granda possiamo aggiungere un altro tassello della geografia dei
bergamini-furmagiatt. Spostiamoci
di poche centinata di metri. Al Policlinico. Ma prima serve una
premessa. I bergamini, in alcuni casi, fecero strada,
alcuni in modo strepitoso, entrando a far parte della più ricca
borghesia cittadina. Uno di questi fu Romeo Invernizzi. Gli Invernizzi
erano bergamini originari di Morterone (località che abbiamo già
incontrato e che si raggiunge oggi
da Ballabio mediante una tortuosa strada di 16 km). Carlo Invernizzi,
padre
di Giovanni, il fondatore della ditta, era nato nel 1837. Svernava
nell’area di Treviglio e di Vaprio. Nel 1870 si stabilì definitivamente
in pianura, , a
Settala (a Sud di Melzo), lavorando come latée,
il latte raccolto in zona. Nel 1908, fondò
la ditta che portava il nome del padre bergamino e, nel 1914, aprì uno
stabilimento a Melzo (a breve
distanza da quello della Galbani, altra ditta con origini bergamine
valsassinesi).
Nel 1925 alla guida della
ditta subentrerà il giovane Romeo
che impresse un deciso impulso all'azienda. Il padre mantenne, però,
sino
alla
morte avvenuta nel 1941, il compito di selezionare le cascine fornitrici
di latte.
Giovanni
Invernizzi si
occupava anche di “rastrellare” aziende agricole, in un periodo in
cui i proprietari, appartenenti all'aristocrazia lombarda, erano
in difficoltà.
Dall'acquisizione di diverse piccole cascine nacque la proprietà di
Trenzanesio
sulla Rivoltana (oggi un po' mortificata dalla bretella
della brebemi) nello stile della tenuta all'inglese, con tanto di
daini. A far schiattare d'invidia vecchi aristocratici e borghesi, dai
consolidati blasoni industriali, era anche la sontuosità della dimora
cittadina degli Invernizzi, il palazzo-villa con fronte Corso Venezia(e
giardini pensili)
e retro su via Cappuccini,
con il famoso parco dei fenicotteri rosa. Un'ostentazione (ma di stile)
che le vecchie aristocrazie avevano abbandonato dopo l'epoca barocca.
Romeo, che si avvalse nella sua attività
della collaborazione del cugino Remo, mantenne le redini della
società sino al 1982 e si spense a Milano nel 2004 alla veneranda età 98 anni al
termine di una lunga vita che l’aveva visto esordire da bambino come laté, raccogliendo il latte prima
di andare a scuola, e poi concluderla da ricchissimo industriale. Ricchissimo, ma attento a ricalcare la
tradizione meneghina
di sostegno alle istituzioni ospedaliere. Così, di fronte alla vecchia Cà Granda - dove i
bergamini vendevano i loro stracchini sotto i portici -
sull'opposta "sponda"
del naviglio (per ora, ahimè, ancora coperto dall'asfalto tombale), grazie ai lasciti dell'ex-laté, nipote di un bergamino transumante, è sorto il padiglione più moderno del Policlinico (Fondazione Cà Granda). Le
molte persone che transitano ogni giorno per il nuovo Pronto
soccorso facilmente si imbatteranno in una coppia elegante che
occhieggia nel corridoio: sono Romeo Invernizzi e la consorte Enrica
Pessina ritratti nel loro palazzo (la foto è quella qui sopra, della
Fondazione Cà Granda).
Una geografia che esce
dalle mura
Il
comune di Milano, fu circoscritto
entro le mura ("spagnole") sino al 1873, quando vennero assorbiti i
Corpi santi, che costituivano un comune "a corona", a sè, intorno alla
città. Il perimetro esterno dei "Corpi" divenne quello del comune di
Milano, salvo poi dilatarsi
ulteriormente in seguito alla fagocitazione, in
tempi successivi, di parecchi altri comuni. Tra questi Lambrate e il
Vigentino sui quali torneremo. I Corpi santi, istituiti nel 1781,
rappresentavano una
"camera di compensazione" tra la città e la campagna vera e propria,
più o meno corrispondente a quella fascia di cinque miglia off-limits
per i
bergamini stabilita dalle antiche grida. Nei Corpi si
praticava un'agricoltura intensiva, con moltissime cascine. Quelle
della prima fascia, di un miglio o poco più erano piccole e la
produzione di latte era indirizzata prevalentemente al consumo fresco.
Mano a mano che ci si allontanava dalle mura cittadine le cascine dei
Corpi santi (così verso il Vigentino e Chiaravalle) assumevano
l'aspetto
di quelle tipiche della "bassa", con grandi corti che potevano ospitare
anche centinaia di vacche da latte, appartenenti a più bergamini. Nei
Corpi santi
erano dislocate attività quali osterie, mulini, lavanderie in
stretta relazione con i bisogni della città ma anche attività
industriali (concerie, fonderie, fornaci).
Il
borgo di San Gottardo, che per
i
milanesi era el burgh di
furmagiatt (12) ,
almeno sino a non molti anni fa, deve la sua
fortuna alla presenza dei Navigli e della Darsena ma anche delle strade
regie che correvano ai lati delle alzaie e conducevano verso il
Piemonte e Pavia. Un ruolo decisivo nel determinare il suo
sviluppo lo svolse però la normativa fiscale. I Corpi santi erano
esenti
da dazio, quindi era possibile il magazzinaggio di merce deperibile
destinata alla città (dove entrava solo quanto necessario al consumo
cittadino) ma anche ad altre destinazioni interne Questa
favorevole condizione si instaurò, però, solo dopo il 1828. Sino a
quella
data, al fine di rendere meno agevole l’ingresso a Milano di merci di
contrabbando, era vietata qualsiasi attività di deposito anche nei
Corpi santi e i furmagiatt milanesi
avevano pertanto stabilito grandi magazzini di
stagionatura a Corsico. A metà degli anni cinquanta del XIX
secolo i depositi caseari del burgh raggiunsero
il numero notevole di
105(13).
El burgh di furmagiatt
mantenne una grande importanza nel commercio caseario sino agli anni
trenta, quando la stagionatura del gorgonzola venne trasferita a
Novara.
Per un certo periodo, mentre la funzione di magazzinaggio ormai
declinava, le ditte mantennero ancora le sedi commerciali nel borgo
(14).
Corso San Gottardo - El burgh di furmagiatt
A Milano le attività di stagionatura dei
formaggi non rimasero esclusive del burgh
di furmagiatt. Verso la fine dell’ottocento si affermarono
attività di stagionatura anche nella zona a N-E della città. Le storie
di bergamini originari della val Taleggio ci consegnano notizie di
stagionature tra Porta Tenaglia (oggi Porta Volta) e Porta Venezia. Non
sappiamo se e in quale misura queste attività (sicuramente di rilievo
molto inferiore a quelle di Porta Ticinese) si rifornissero attraverso
il vicino porto del Tumbun de San
March (15).
Per una strana coincidenza le due testimonianze
riguardano due
originari della contrada Grasso di Taleggio: uno, Pietro Bellaviti,
nato nel 1828, si trasferì a Milano nel 1850 avviando un’attività di
stagionatura a Porta orientale (attuale Porta Venezia), di certo in
connessione con i numerosi bergamini di origine taleggina presenti
nella zona
dell’Est milanese. Il pronipote racconta come il bisnonno realizzasse
nel 1880 due edifici in via Spallanzani dove prima esisteva l’osteria Tri basèi (16).
Nella foto via Spallanzani a Porta
(già Borgo) di Porta Venezia
Giacomo Danelli, nato negli stessi anni
di Pietro Bellaviti. nel racconto di una pronipote che ne conserva una fotografia di fine
XIX secolo ripresa a detta della discendente in Piazza Fontana e poi
"elaborata" da un fotografo di Melzo (riprodotta qui a fianco "ripulita"). Il
Danelli esercitò per tutta la vita l’attività di
bergamino, svernando solitamente nei Corpi santi. Come tutti i bergamini frequentava il
mercato di piazza Fontana e vendeva gli stracchini che produceva ad un
nipote “negoziante” (commerciante-stagionatore) che risiedeva in via
Paolo Sarpi (dove il processo di urbanizzazione si sviluppò negli anni Ottanta)(17).
La "polveriera" tuttora esistente in Corso Buenos Aires
(negozio Benetton)
Merita un accenno anche l'attività dei
commercianti di bestiame di origine bergamina (18).
Essi erano spesso parenti degli allevatori e visitavano assiduamente le
stalle
dei bergamini che svernavano nel Milanese. Acquistavano i capi anche a
gruppi piuttosto numerosi e li mantenevano nei loro depositi
fuori Porta Tosa (oggi porta Vittoria), Romana ed Orientale (oggi porta
Venezia) dove era possibile esaminarli e acquistarli anche a gruppi di
decine di
capi (un po' come si scelgono le auto in un salone
automobilistico). Tra i grossi commercianti di bestiame
figuravano dei
valsassinesi. Il barziese Lorenzo Buzzoni era nato all'inizio del XIX
secolo, operava fuori porta Venezia, l'epicentro dei commerci di
bestiame, e divenne proprietario di un edificio, tuttora esistente in
corso Buenos Aires all'angolo con la via San Gregorio (19). Il fratello, che
continuò a produrre latticini in Valsassina, ebbe meno fortuna. Il
palazzo, realizzato a fine Settecento come polveriera (si chiama ancora
così), era divenuto osteria con alloggio e stallazzo (parking per quadrupedi e attacchi). L'osteria era
luogo di incontro dei commercianti di bestiame (20).
Via Conte Rosso a
Lambrate
La zona a Est
della città era particolarmente ricca di cascine. Essa si estendeva poi
verso la Martesana che, grazie al Naviglio e al ruolo di crocevia della
transumanza di Gorgonzola, divenne (con Melzo) l'area del decollo industriale caseario.
Dopo Gorgonzola era Lambrate il centro caseario più
attivo nell'Est milanese. Sappiamo che nell’indagine sui ‘caselli’ del
1840 per la provincia di Milano (21) venivano segnalate, come
chiaramente distinte dai ‘casoni’ o ‘caselli’, un certo numero di
‘fabbriche del formaggio’. Di queste ben 13 si trovavano proprio a
Gorgonzola, mentre la maggior parte delle altre erano localizzate nella
zona immediatamente ad Est di Milano dove era possibile ricevere il
latte dai numerosi bergamini che operavano nell’area. Così ne sono
indicate quattro a Lambrate (oggi comune di Milano), tre a Limito, tre
a Linate (oggi comune di Segrate, confinante con Milano). A Lambrate ditte casearie (produzione e
/o commercio) di una certa rilevanza si segnalano ancora nel Novecento
e sono in genere gestite da bergamini della val Taleggio. A Liscate è
tutt'oggi attivo nella produzione
di stracchini il caseificio Papetti (il cognome, originario della val
Brembana, è uno tra quelli importanti nella storia dei bergamini).
Tutta
la fascia a Sud, Est e Ovest della città era area di densa presenza dei
bergamini. Qui ci piace ricordare, per concludere, almeno uno dei
vecchi comuni milanesi fagocitati dallo sviluppo (spesso brutto e
disordinato) della metropoli: il Vigentino (nella foto il municipio nella via Ripamonti). Molto fitta era la presenza dei bergamini a Sud della città
perché qui scorrevano i canali scolmatori (l'antica Vettabia e il
Redefossi) che veicolarono per secoli le acque luride di Milano
fertilizzando le campagne e consentendo produzioni foraggere super (per
quantità, non per qualità). I due fattori: vicinanza del mercato di
Milano e acque di irrigazione "grasse". Poi con il dilagare del cemento
le acque subirono un pesante inquinamento chimico a causa dell'uso dei
detersivi non degradabili e della proliferazione di scarichi dei reflui
di lavorazioni industriali. Ci sarà spazio anche per
"nuovi bergamini" nel futuro di Milano? Intanto al Parco del Ticinello
la Cascina Campazzo continua a produrre latte dopo aver scampato il
destino della lottizzazione . Ci sono tante cascine fantasmi di sé
stesse, tante superfici coltivate sommariamente (tanto per la Pac) che
attenderebbero di essere "riconquistate" dai bergamini.
Note
(1) C.Cantù, a cura di, Milano e il suo territorio, Tomo
II,
Pirola, Milano, 1844, p.101
(2) Le autorità
intendevano evitata nelle città
non solo fame ma anche malcontento (mentre la carestia nelle campagne
era tollerabile perché meno
pericolosa). Era infatti difficile reprimere le rivolte cittadine, i
"tumulti". Che potevano facilmente degenerare nella "presa del
palazzo". Le cose, come noto, cambiarono dopo l'esperienza del 1848
quando, a partire da Parigi, si iniziò un "risanamento urbano". Esso,
eliminando il reticolo di viuzze, aveva lo scopo non tanto dissimulato
di consentire alle truppe (e ai cannoni, che anche a Milano furono
usate dal sabaudo Bava Beccaris) di impedire l'erezione di barricate.
(3) Sommario delli ordini pertinenti al
tribunale di provisione della citta et ducato di Milano.
Cominciato l'anno 1580, successivamente
ampliato nel 1613. Et finalmente perfettionato nell'anno 1657 con
aggionta delli Ordini seguiti al presente ec. Nella regia Ducal
corte
per Cesare Malatesta Stampatore ec., Milano, 1657
(4) Le carrozze (pesantemente
decorate ma comode e ammortizzate, da quattro a sei cavalli) erano un
cruciale
elemento di ostentazione e distinzione sociale e Milano che tra XVI e
XVII secolo era la città con il maggior numero in Europa (1587 nel 1666)
(5) Niuno fitavolo ardisca
accettare ne tenere bestie di sorte alcuna de Bergamini, ne con loro
fare alcuna convencione secreta, ne palese per far mangiare i fieni, ne
far pascolare i prati nelle dette cinque miglia [...]
(6) In questo caso si
applicava (da San Giorgio a San Michele) un "contratto erba" (l'erba
era pesata secondo vari metodi) in luogo del classico "contratto fieno"
("patti da bergamino", "contratto malghese") che intercorreva tra San
Michele a San Giorgio (comportando l'acquisto del fieno e la
concessione, in "appendizio", dei locali di abitazione, delle stalle e
del caseificio, nonché la concessione di legna da fuoco, paglia (in
cambio del letame) e generi alimentari (vedi M. Corti, La
civiltà dei
bergamini. Un’eredità misconosciuta. La
tribù lombarda dei malghesi tra la montagna e la pianura dal
quattordicesimo al ventesimo secolo, Centro studi
valle Imagna, Sant’Omobono
terme, 2014 (cap. 13)
(7) A. Dattero , La
famiglia
Manzoni e la Valsassina: politica, economia e società nello Stato di
Milano durante l’Antico Regime, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 55.
(8) C. Cederna, "Una
bomba contro il popolo", L’Espresso,
21 dicembre 1969.
(9) L. Formigoni, La Valsassina e l’allevamento del bestiame
bovino di razza Bruna Alpina, s.l., 1930. p. 7
(10) L'informatore era
Mario Magenes, nato nel 1922 e l'intervista la raccolsi nel novembre
2011 presso la sua abitazione di Cascina Pessina in località Novegro
(Mi), comune di Segrate (al confine con Milano)
(11) A. Dattero, op. cit., p.
56
(12) A Nord del
perimetro delle mura esisteva anche il burgh di verzeratt (gli ortolani)
(13) C. Besana “Note
sulla
produzione e il commercio dei prodotti lattiero-caseari”, in P.
Battilani, G. Bigatti, Oro bianco.
Il settore lattiero caseario in Val
Padana tra Ottocento e Novecento, Lodi, Giona, 2003, p. 130
(14) M.
Corti, op. cit., 2014, p. 272
(15) M.Corti, "I navigli
milanesi: vie d’acqua e di latte (o, per meglio dire, di caci e
stracchini)", in
Latte&Linguaggio, 3 (2017):145-164 (a cura di L.Ballerini e
P.La Torre, Danilo Montanari editore, Ravenna)
(16) A. Carminati
(a
cura di) Bergamini, vacche e
stracchini. Ventiquattro racconti di malghesi, lattai e fittavoli dalla
Valle Taleggio alle cascine di Gorgonzola e dintorni. Centro
studi valle Imagna, Sant’Omobono terme, 2015, p. 68
(17) Intervista
dell’autore alla pronipote raccolta il 3 ottobre 2015 presso la sua
abitazione in contrada Grasso di Taleggio.
(18) M. Corti,
G.Camozzini, P. Buzzoni. Zootecnia e
arte casearia. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite,
Missaglia, 2016 (cap.2).
(19) Buzzoni R., Barzio: pagine di
cronaca vissuta, Cattaneo,
Bergamo, 1958, pp-12-14.
(20) Ivi
(21) Archivio di stato
di Milano, Atti di governo, Commercio,
p.m., b. 15
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