Celebrare
le transumanze:
i
bergamini lombardi
2020 anno della
transumanza
(26.12.19) La transumanza ha veramente meritato di essere proclamata
"patrimonio
dell'umanità". E' bene ribadirlo in un contesto in cui questi
riconoscimenti appaiono ormai sempre più inflazionati e le attribuzioni
largamente influenzate da fattori politici. Oggi, però, il
riconoscimento Unesco ha ancora un valore (che diminuirà
inesorabilmente con la moltiplicazione dei riconoscimenti). Di certo
catalizza l'attenzione del pubblico e delle istituzioni. Tutto ciò va
utilizzato per far emergere i contenuti che danno sostanza ai
"patrimoni". Nel caso della transumanza siamo di fronte a un valore che
non è difficile provare. Lo attesta la sua antichità, la sua
diffusione, il suo influsso economico, sociale, culturale, la sua
grande varietà.
Varietà, per
l'appunto. L'immagine stereotipata è però legata ai "belanti fiumi
lanuti" ma la transumanza ha coinvolto e coinvolge altre specie
animali. Nelle Alpi essa ha riguardato (e riguarda ancora, sia pure in
misura ridotta) anche lo spostamento dalla pianura alla montagna di
mandrie di vacche da latte con i loro muggiti e scampanii. Con il
declino dell'industria laniera in età moderna, soprattutto con la
limitazione della filiera delle lane "nostrane" a un comparto
minore del lanificio , destinato al settore di mercato delle divise
militari e dei panni "grossolani" per i contadini, l'importanza
economica della transumanza bovina, legata alla produzione casearia, ha
sorpassato ampiamente nelle regioni alpine italiane l'importanza
economica della transumanza ovina.
Particolarmente
importante da questo punto di vista è stata la transumanza dei bergamì delle valli orobiche (dalla
Valsassina alla Valcamonica) di cui tratta l'efficace compendio di Antonio Carminati, direttore del
Centro Studi Valle Imagna, che qui presentiamo. Questa transumanza, che
proveniva anche dalle valli bresciane (Trompia e Sabbia), è stata
praticata dal Quattrocento a tutto il Novecento ed è grazie ad essa che
si è sviluppata la moderna industria casearia lombarda. E' dai
transumanti che discende in larga misura il ceto agricolo attuale della
bassa pianura lombarda che si è formato attraverso il continuo secolare
passaggio dei bergamini nelle file della categoria dei "fittavoli", un
passaggio che si è fatto più imponente dopo le due guerre mondiali
quando i bergamini sono diventati spesso anche agricoltori proprietari.
L'importanza
della transumanza dei bergamì
va oltre l'aspetto economico. Essa rappresenta un capitolo importante
di storia sociale in forza dei legami che la transumanza ha stabilito
tra montagna e pianura, tra vallata e vallata, tra le stesse provincie
di pianura. I bergamì
attraverso i loro spostamenti (potevano svernare un anno nel pavese,
l'altro nel milanese, un anno nella bassa bresciana e l'altro nel
lodigiano), attraverso i matrimoni, estendevano i ceppi famigliari su
più valli e più aree della bassa, creando una rete di connessioni.
Una storia ancora
misconosciuta, specie alla luce della sua significativa valenza
socioculturale. Nonostante che, almeno da quindici anni a questa parte,
il Centro Studi Valle Imagna e, dal 2014, il Festival del pastoralismo
di Bergamo, operino attivamente per la sua divulgazione.
L'attenzione che
il riconoscimento Unesco della transumanza, ma anche quello, sempre da
parte dell'Unesco, di Bergamo quale città creativa per la gastronomia
(grazie ai formaggi delle valli orobiche nati dalla tradizione
bergamina), fanno ben sperare sulle possibilità di operare nel 2020 una
svolta ai fini di un meritato riconoscimento da parte di istituzioni e
comunità lombarde della storia singolare e importante dei bergamini che
sono al tempo stesso: "veramente figli delle nostre montagne" (come
diceva l'etnografo bergamasco Volpi) ma anche figli delle nostre
pianure, veramente figli della Lombardia, un paese in realtà molto più
unito, pur con tutta la sua ricchezza di differenze e policentrismi, di
quanto esso si percepisca. E i bergamini stanno a ricordarcelo o,
meglio, a farcelo scoprire.
La
transumanza dei bergamini orobici patrimonio culturale immateriale
dell'umanità
di Antonio Carminati
N.d.r. nel testo
l'autore utilizza le forme della parlata della valle Imagna. La parlata
dei bergamini di altre valli poteva presentare forme diverse. Per tutti
valeva poi una più o meno ampia contaminazione con le parlate della
pianura come conseguenza di una lunga frequantazione.
Negli ultimi mesi sono balzati agli onori della cronaca
alcuni fenomeni sociali ed economici, sedimentati nel corso dei secoli
e connessi alla straordinaria fioritura di attività zoo-casearie, che
hanno richiamato l’attenzione sulla dimensione rurale delle valli
orobiche. Innanzitutto il riconoscimento di Bergamo quale “Capitale
europea dei formaggi”, con le sue nove Dop, rispetto alle cinquanta
esistenti su tutto il territorio nazionale, e le ulteriori trenta
produzioni storiche che rendono straordinariamente articolato il
paesaggio del gusto. Poi è intervenuta la dichiarazione di Bergamo
quale “Città creativa Unesco per la gastronomia”. Infine la
dichiarazione ufficiale, sempre targata Unesco, della transumanza quale
patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Tre elementi
strettamente correlati, i quali, per quanto ci riguarda, mettono in
relazione i prodotti caseari con territori ben definiti e la tradizione
umana e professionale dei malghesi. La cultura dei bergamini esprime la
vita e il lavoro di gruppi transumanti sostenuti da un’economia
zoo-casearia, dei quali Bergamo rappresenta la principale culla storica
e culturale. Al centro di questo nuovo interesse, ancora prima dei
formaggi, certamente espressioni eloquenti di una articolata capacità
produttiva, ci sono le persone, i bergamini, che, soprattutto nel
passato, hanno saputo esprimere elevate e ingegnose attitudini
professionali, instaurando relazioni coerenti e sostenibili col loro
ambiente umano durante il regolare succedersi delle stagioni. Una
corporazione costituita da gruppi familiari seminomadi, abili
allevatori di vacche da latte provenienti dalla montagna, transumanti
dal monte al piano seguendo le stagioni, specializzati nella
lavorazione del latte, dotati di una propria organizzazione sociale e
di un particolare codice linguistico. Quello del bergamino transumante
è innanzitutto uno stile di vita.
Attrezzi
per la lavorazione del latte. Sant'Omobono, 1927. Fotografia di Paul
Scheuermeier
In
un suo scritto pubblicato nel 1930 sulla Rivista di Bergamo, Luigi
Volpi così descrive i bergamini: “Veramente figli delle nostre montagne sono
questi uomini rudi e solitari che portano il nome della nostra terra
quasi a significarne una caratteristica […] E quando «i bergamì» chiudono la loro
giornata raccogliendosi nella baita a pregare Iddio che ha loro dato
prosperità e salute essi devono sentirsi figli prediletti della terra
nostra, che madre generosa dà loro il pane e l’esistenza serena e libera.
Negli stessi anni in cui Volpi descriveva i bergamì, per la precisione solo tre
anni prima, il linguista ed etnografo svizzero Paul Scheuermeier
compiva la sua straordinaria ricerca sul mondo contadino italiano,
costituendo un archivio di ineguagliabile valore. Le immagini relative
ai bergamì che
vi proponiamo in questo racconto non sono molte ma, ma rappresentano
documenti importanti su un fenomeno che ebbe lunga durata e vasta
estensione ma che è rimasto largamente “sotto traccia”. Da anni il
Centro Studi Valle Imagna, insieme ad alcuni studiosi, ha intrapreso un
programma di ricerca e divulgazione su un capitolo di storia sociale
lombarda, quello dei bergamì,
la cui importanza viene via via confermata dal progresso delle indagini.
Contadino
intento a "bàt la ranza". Sant'Omobono, 1927. Fotografia di Paul
Scheuermeier
Per
i bergamini la società era suddivisa in tre principali gruppi: c’erano
innanzitutto loro, ai livelli più elevati della scala sociale
dell’antico mondo contadino, in continuo movimento stagionale tra la
montagna e la pianura, grandi camminatori di un tempo, allevatori di
monte dotati di grandi aperture verso la realtà esterna, situata al di
là della loro culla naturale circondata da crinali.Continue e affinate
relazioni sociali hanno consentito loro di padroneggiare dovunque
andassero, di cascina in cascina alla Bassa, di pascolo in pascolo
sulle alture, con abilità e coraggio. Sono stati veri e propri
imprenditori nel settore zoo-caseario, molti dei quali hanno dato
origine a tradizioni economiche familiari di prim’ordine. Poi c’erano i
marà,
ossia i piccoli allevatori di monte rimasti per sempre ancorati nel
loro piccolo mondo antico, espressioni della piccola proprietà
contadina della montagna orobica, agganciati a un economia molte volte
di sussistenza, i quali non avevano avuto la forza o la necessità di
scendere dai monti al piano con il loro modesto allevamento zootecnico.
Anch’essi praticavano forme di transumanza interna alla valle, dalle
contrade in prossimità del villaggio di residenza durante la stagione
invernale, sino ai pascoli di monte, nei löch [letteralmente "luoghi", i
maggenghi] anche molto distanti, durante l’alpeggio estivo. Infine i móch erano i
braccianti o semplici agricoltori della pianura, considerati i servi
della terra, che peraltro non possedevano, vivendo in uno stato di
pesante soggezione nei confronti dei padroni, espressioni dell’antica
nobiltà terriera di estesi latifondi, o dei loro diretti intermediari e
fittavoli. Il loro limite consisteva nel non aver mai respirato l’aria
di libertà della montagna e di non essere riusciti ad affrancare la
loro esistenza nemmeno alla piccola proprietà contadina.
Dice
bene un caro amico - classe 1933, nato e vissuto da bergamino – quando
afferma che la montagna, se per un verso riempie i polmoni di aria
fresca di libertà, in modo particolare l’estate durante l’alpeggio,
dall’altro, tutte le mattine, al risveglio, ti dice già quello che quel
giorno non puoi non fare. Mungitura, lavorazione del latte, pascolo
delle vacche, e pi di nuovo la ripetizione nel pomeriggio delle
medesime azioni. Sempre, tutti i giorni, per tutta la vita. A riempire
gli spazi intermedi, poi, ecco una miriade di altre attività, connesse
e accessorie a quelle principali, come fà la fòia, bàt dó ol rüt
[raccogliere la foglia per la lettiera, spandere il letame], curare la
vacca colpita da ü
culp de mòrbe [mastite], consegnare
gli stracchini ai commercianti,…
La
lavorazione del latte in alpeggio. Borno, 1920. Fotografia di Paul
Scheuermeier
Ol cagièr (quel bergamì specializzato
nella lavorazione del latte) ha tra le mani un mastello basso di legno
sopra la grossa culdìra
[caldaia] di rame appesa alla sigógna, il braccio orizzontale di
legno girevole, imperniato su un altro verticale, utilizzato per
avvicinare e allontanare la caldaia dal fuoco, in relazione alle
esigenze derivanti dall’attività di caseificazione. All’intorno sono
presenti alcuni attrezzi utilizzati dal casaro, come lo spino, un grosso penàcc (la zangola)
e il caratteristico secchio per la pesa e il travaso del latte. Al
termine della cagliata, dopo aver riposto la pasta ancora calda,
avvolta nel patì
[tela], dentro il fassaröl
[fascera], il bergamì trasporta,
avvalendosi delle due sègie
[secchi di legno]
appese al bàsol [bilancere],ol pastù [beverone] per i maiali
(la pòrca coi purselì) [la scrofa
con i suinetti], da versare nell’àlbe [truogolo] scavato in un
grosso tronco. I maiali, liberi in alpeggio con le vacche, accompagnano
sempre la bergamina
[mandria] e vengono allevati con il siero residuo ottenuto dalla
lavorazione del latte. Prima di lasciare l’alpeggio per la pianura,
durante la stagione autunnale egli porta a termine lo spandimento del
letame nei prati migliori, avvalendosi del dèrel dol rüt [cesto
del letame],
e il riordino della baita, dove farà ritorno la stagione successiva.
Vita
in alpeggio. Gandino, 1932. Fotografia di Paul Scheuermeier
Il
bergamì
vive sui monti - da giugno a settembre - assieme alla sua bergamina (la mandria
delle vacche e manze) e i rifornimenti di generi alimentari di prima
necessità (soprattutto la farina gialla per la polénta) avvengono a dorso di asini
e muli. Così pure il trasporto di utensili e materiali vari. Quella del
mulattiere è una professione che si trasmette di padre in figlio. Al
ritorno dal monte, poi, i quadrupedi scendono carichi di cassette di
stracchini o di grosse ceste contenenti pesanti forme di strachitùnt. Esistono
diversi basti o selle di legno per gli asini e muli da soma, in
relazione al trasporto dei vari carichi.
Il
bergamì
è il proprietario del bestiame. Alla fine dell’estate lascia le sue
montagne per spostarsi nelle cascine della pianura lombarda, dove
trascorrerà l’inverno. In primavera, poi, ritornerà regolarmente in
alpeggio. Sul carèt
[carretto a due ruote] ha caricato le masserizie essenziali. Il carro a
due ruote, trainato da un solo cavallo, è dotato di un’impalcatura
lignea ad arco, a volte costituita da semplici pèrteghe, [pertiche] sopra la
quale, all’occorrenza, possono essere distesi i teli di copertura.
Elemento distintivo del singolare viaggiatore transumante è la grossa
caldaia capovolta sul carro, che il bergamì utilizza per le due
cagliate quotidiane.
Bergamini.
Sant'Omobono, 1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
Durante
la transumanza il bergamì
segue rotte e percorsi consolidati da una tradizione plurisecolare, che
si snodano lungo le aste fluviali dei principali bacini idrografici
lombardi (Brembo e Adda, Serio e Oglio). Queste, oltre a garantire
l’approvvigionamento idrico alla famiglia e alla mandria durante gli
spostamenti, facilitano l’orientamento in relazione alla localizzazione
delle cascine della Bassa. La transumanza può durare da tre o quattro
giorni, per coloro che si fermano nelle cascine distribuite nella
cintura a Est della città di Milano (Treviglio, Rivolta d’Adda,
Gorgoncola), sino a sei o sette giorni, necessari per raggiungere le
aree a Sud della capitale Lombarda, verso Melegnano, e, oltre ancora,
nel Lodigiano o nell’Oltrepò Pavese. La mandria non compie più di
trenta chilometri al giorno e un sistema organizzato di stallazzi,
distribuiti lungo le principali rotte bergamine, consentono di
organizzare le tappe successive.
Paul
Scheuermeier ha documentato la transumanza nel 1927 dalla Costa del
Palio sino a una cascina nel Cremasco della famiglia Invernizzi Pietro.
Il bergamì di
norma preferisce viaggiare la notte con le vacche, o la mattina di
buonora, per non essere disturbato dalle automobili, e quando
attraversa i centri abitati inserisce nelle ciòche [campanacci] delle vacche in
cammino öna bràca de
fé [una manciata di fieno], per bloccare il
suono dei campanacci. Il bergamì è sempre in cammino con la
sua mandria: chi in testa alla singolare caroàna [convoglio], impugnando il
lungo bastone da viaggio e indossando con orgoglio la scossàla [grembiule]
più bella, e chi, invece, cammina inserito a metà o in coda alla bergamina, tutti
vestiti con il semplice camisòt
[tipico camiciotto di tela azzurra] da lavoro e il cappello di feltro
sul capo. Egli sale a
caàl söl bast [a cavallo sul basto] solo per dimostrare, durante
una sosta in transumanza, come cavalca in montagna, seduto su una sella
imbottita di paglia, mentre il figlio porta appesa al collo la colàna [collare a
spalla] del cavallo, che l’indomani servirà al quadrupede per il traino
del carretto.
Il
bergamino Pietro Invernizzi. Sant'Omobono, 1927. Fotografia di Paul
Scheuermeier
Il
carèt
del bergamì in
viaggio segue la mandria in coda. Dietro rimane solo la pòrca [scrofa], che fatica a camminare e spesso
bisogna tirarla con una corda e spingerla di frequente con un bastone.
Durante la sosta giornaliera, in corso di transumanza, mentre la
mandria è al pascolo, il carro della famiglia bergamina rimane nel
prato vicino alla strada. Il telo bianco che lo copre durante il
percorso è stato tolto. Le gabbie con i polli, il vitellino e i bambini
vengono messi a terra. Sul carro passeranno la notte le donne con i
bambini, mentre il bergamì,
se la gimbarda [ripiano
appeso con catene sotto il pianale del carretto] è occupata dagli
utensili vari, dormirà per terra, avvolto in una semplice coperta,
senza mai allontanarsi dalle sue vacche. Nella notte il cammino
riprenderà.
Durante
la transumanza. Sant'Omobono, 1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
La
Costa del Palio, sino a tutta la prima metà del secolo scorso, l’estate
brulicava di vacche al pascolo, sia sul versante verso Brumano e
Fuipiano che nella valle di Morterone, verso la Culmine di San Pietro e
oltre ancora. L’abbaiare dei cani e il muggito delle vacche si
diffondevano nell’aria, richiamando la presenza dei gruppi di bergamini
in alpeggio. Tutti i giorni, dopo la festa della Madonna del Rosario a
Fuipiano (prima domenica di settembre), erano utili per la partenza, la
mattina, di buonora, sempre dopo la mungitura. Pietro Invernizzi
trascorreva la prima notte con la sua mandria a Selino Basso, dove il bergamì aveva avuto
la possibilità di pascolare un prato fino all’indomani: in pagamento
avrebbe dato al proprietario il latte munto la sera stessa e la mattina
dopo. Così farà anche nelle tappe successive, fino a quando raggiungerà
con la bergamina
la cascina alla Bassa - da tre a sei giorni di viaggio - dove tiene una
parte delle provviste raccolte in locali utilizzati l’anno precedente.
Altri bergamini provenienti dalla Costa del Palio facevano la prima
tappa a Ponte Giurino, dove c’era un grande stallazzo.
Durante
la transumanza. Sant'Omobono, 1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
Sul
carro dei bergamì
c’è di tutto: accanto alle masserizie della famiglia e agli attrezzi
per la lavorazione del latte e la gestione della stalla, trovavano
posto i bambini più piccoli, ma anche polli, maialini, vitellini nati
da poco,… colmo sino all’inverosimile, tutto ricoperto dal bel telo
bianco a nella parte superiore. È il carro da viaggio, una sorta di
casa ambulante, utilizzato per raggiungere la cascina in pianura.
Durante ogni sosta l’allevatore transumante si assicura dello stato di
salute delle sue vacche e provvede alle due mungiture, quella del
pomeriggio (appena giunto alla tappa) e nelle prime ore del giorno
successivo (prima di ripartire di nuovo). Il bergamì si lega velocemente alla
cintura lo sgabello da mungitura a una sola gamba con cinghie di cuoio.
La notte diversi bergamini, quando le vacche sono radunate, le legano
con d’ü cordöl [una fune], fissato a la gambìsa (l’arco di legno da
mettere al collo degli animali, a guisa di collare), a un picchetto
conficcato nel terreno; altri, invece, le lasciano libere nel pascolo
loro assegnato, ma sempre sorvegliate a vista dal famèi [garzone].
Il
bergamino Pietro Invernizzi. Sant'Omobono, 1927. Fotografia di Paul
Scheuermeier
Ad
attendere la bergamina
in pianura, ecco le enormi masse di fieno frusciante accatastate sui
fienili della cascina. Il cas de fé [cassero, scomparto tra
un pilastro e l'altro del fienile] è il foraggio ben pressato e
compattato esistente tra un pilastro e l’altro del fienile situato al
primo piano. La parte esterna della mida dol fé [mucchio
di fieno], sotto la gronda, si affaccia dal piano superiore
verso la corte della cascina. Al piano terra c’è la stala de l’vache [stalla delle
vacche] e all’intorno, nello spazio antistante, è un continuo
andirivieni di persone impegnate nelle varie attività: chi è intento a
trasportare secchi di latte col bàsol, mentre altri provvedono alla
movimentazione di ras-ciàde
[forcate] di erba o di strame. Il bergamì era già sceso
in cascina il mese di agosto per fare il contratto con il fittavolo:
ora, però, si tratta di provvedere alla quantificazione definitiva del
peso di ciascun cas de
fé, avvalendosi dell’intervento dell’apposita squadra di taì [tagliatori], i quali provvedono a realizzare due
casèle [carotaggi]in altrettante zone distinte del
fienile, la prima scelta dal fittavolo, la seconda dal bergamino.
Vita
in cascina. Sant'Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
Giunti
in cascina, di norma ai bergamini veniva concesso il diritto di pascolo
sino al 25 novembre, quando… a Santa Caterina, i àche en cassìna.
Le vacche sarebbero poi rimaste rinchiuse nella stalla almeno sino a
San Giorgio (23 aprile), ossia sino all’apertura della nuova stagione
dell’alpeggio. Per molti allevatori rimaneva il problema di trascorrere
alla Bassa gli ultimi quaranta
dé [quaranta giorni] , sino a quando, ai
primi di giugno, si poteva cargà mut [salire
all'alpeggio], risalendo
con la mandria di bruno alpine i sentieri della valle per raggiungere i
pascoli ottenuti in concessione. In cascina il bergamino faceva una
vita di stalla e il suo impegno principale quotidiano consisteva nella
mungitura e nella lavorazione del latte, ma alla Bassa molti allevatori
iniziarono a vendere il latte alle grosse aziende di trasformazione
lattiero-casearia. La stala
de l’vàche della cascina era molto diversa da quella di piccole
dimensioni lasciata vuota in montagna e, sullo sfondo, oltre la prima
porta, c’è la stala de
manzète [manzette] e, più in là ancora, quella dol caàl. Il bergamì, quando può, organizza al
meglio la distribuzione degli animali, tenendo distinti gli spazi per
gruppi omogenei.
Vita
in cascina. Sant'Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
Anche
in cascina, come in montagna, l’abbeverata delle vacche avviene
all’esterno, all’occorrenza anche nel grosso mastello di legno,
chiamato in pianura segión
["secchione"], utilizzato in
mancanza di una fontana in prossimità del pozzo, collocato di norma al
centro nella corte. Non ci sono ancora le bacinelle per l’acqua
applicate alla mangiatoia e due volte al giorno, mattina e sera,
solitamente prima della mungitura, le vacche vengono slegate e, a
gruppi di cinque o sei per volta, in relazione alla grandezza della
fontana, si accompagnano all’esterno per l’abbeverata (dabbià fò i àche a bìf).
Vita
in cascina. L'avveberata . Sant'Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di
Paul Scheuermeier
I
fittavoli avevano stretto una formidabile alleanza con i bergamini, i
quali erano costantemente deficitari di foraggio durante l’inverno e
agivano da produttori di prezioso concime per campi e prati. Laggiù,
alla Bassa, i bergamini, anche davanti ai padroni delle cascine, i se tuìa do mai ol capèl
[non si toglievano mai il cappello, sottinteso "davanti al fittavolo o
al proprietatio della cascina"], ossia mantenevano la loro dignità,
grazie alla specifica forza contrattuale. Non si sporcavano le mani.
Due volte al giorno il fittavolo inviava nella stalla alcuni braccianti
per ripulire il letame dalla lettiera e trasportarlo nel luogo
prestabilito, all’aperto - la méssa dol rut [concimaia] - dove sarebbe giunto a
maturazione da lì a pochi mesi. Il trasporto del letame avveniva con la
carèta senza
sponde (stravacà la
carèta, rovesciare la cariola), ma in precedenza si utilizzava
la barèla [barella], trasportata almeno da due lavoranti.
Vita
in cascina. Sant'Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
Anche
nella cascina, il centro della vita del bergamì rimane sempre la stalla
delle vacche. Nel contratto di cascina è previsto pure l’utilizzo di
una o due grandi stanze per ospitare la famiglia transumante, ma
rimangono ambienti freddi; d’accordo, c’è il focolare, ma anche la
legna va razionata. La stalla, come avveniva prima in montagna, anche
alla Bassa rappresenta la sala, il luogo privilegiato dell’incontro tra
le persone, sino a trasformarsi in un piccolo ma efficace laboratorio
artigianale. La presenza della sedèla da muns [secchio per
mungere] e dol bidù
dol làcc [bidone del latte],
rivoltati all’insù sopra un cavalletto provvisorio, rivelano che siamo
in presenta di un’attività zoo-casearia. Le donne, soprattutto la sera,
sedute sulla baca [panca], posta contro il muro dell’andadüra [corsia
centrale della stalla], sono intente a lavorare a maglia e a
rammendare; altre, invece, sedute söl scàgn [su uno sgabello] o su
qualche altro appoggio,
filano la lana col füs [fuso]. La stalla si trasforma
in uno spazio di socialità. Gli uomini costruiscono scope di saggina e
altri piccoli manufatti di legno occorrenti per l’attività domestica
quotidiana.
Pescarolo,
1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
Il
bergamino vive in cascina, ma non partecipa alla vita e al lavoro
quotidiano nella corte. Lui è di passaggio e, soprattutto, non è
mezzadro, né dipendente. È in attesa di ritornare sui suoi monti.
Mentre osserva le sue vacche nella stalla, sull’aia della grande corte
alcune donne sono intente a fà sö la mèlga [raccogliere il mais
essiccato sull'aia] con in mano rastèl, palòt e scua [rastrello,
pala e ramazza]. Al centro c’è il pozzo, attrezzato di impianto
manuale per il sollevamento dell’acqua, mentre all’intorno non mancano
tettoie, granai, casa del fittavolo, portici del fienile, stalla per le
vacche (in grado di contenere anche cento o duecento capi), “casa del
bucato”, caseificio, abitazione degli “obbligati” o braccianti. Il
bergamino anche in cascina mantiene la propria indipendenza.
Vita
in cascina. Sant'Angelo Lodigiano, 1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
Un’altra
stagione è passata. Il bergamì
è ritornato alla vita in cascina, dove trascorrerà con la mandria e la
famiglia i mesi invernali. È il tempo del riposo e del ripensamento per
i tanti impegni conclusi e quelli da affrontare. Qui si confronterà
nuovamente con fittavolo e braccianti. Nella stalla, sempre accanto
alle sue vacche, seduto sullo scagn [sgabello],
si dedica a varie attività, si intrattiene con familiari e ospiti,
mentre osserva le sue mucche ruminare e vigila continuamente sul loro
stato di salute... Ma già pensa alla stagione successiva, a quando cioè
potrà ritornare in quota, sull’alpe, a traguardare lontani orizzonti...
Pescarolo,
1927. Fotografia di Paul Scheuermeier
SULLO
STESSO TEMA
Torna
la transumanza dei bergamì a Bergamo la seconda edizionel 26
ottobre 2019(23.10.19) Quando colla primavera […], i bergamini
lasciano la pianura dove hanno trascorso l’inverno e dal basso
milanese, dal cremonese o dal lodigiano vanno colle loro mandrie verso
le nostre montagne. Attraversano le città nelle vie meno battute
portando ai cittadini chiusi nei loro alveari di case e nei loro
labirinti di vie assolate la nota festosa delle loro campanelle che li
annunzia con gravi tocchi cadenzati, ed il senso della loro vita
semplice e libera.L.
Volpi, “I bergamì”, in Rivista di Bergamo 9, 6(1930):261-266
I
bergamini ritornano nel cuore di Milano
(23.07.17) Si torna a parlare di
bergamini a Milano. Un ritorno a casa degli allevatori-casari
transumanti di origine orobica che rappresentarono per secoli una
presenza ben visibile nella metropoli lombarda. L'occasione è offerta
dalla presentazione dei libri di Michele Corti sul tema dei
bergamini alla biblioteca centrale comunale (Palazzo Sormani-Andreani).
L'evento si inserisce nel quadro del ciclo di incontri Grechetto-dipoesia e delle attività di Latte&Linguaggio onlus che organizza a maggio alla
ex Cascina
Chiesa
Rossa (biblioteca
comunale realizzata in una vecchia stalla di bovine da latte) l'omonimo
convegno-sagra rurbana
(08.01.16) Milano città
d'acque e di latte La sistemazione della Darsena e la bella
mostra Milano Città d'acque(Palazzo Morando, Via Sant'Andrea
sino 14-02-2016) rappresentano occasioni perché Milano riscopra
anche i legami che le vie d'acqua hanno storicamente stabilito con i
territori vicini ma anche con lontane valli alpine. Sono legami che
riguardano anche l'agricoltura, la zootecnia, gli alpeggi e il
caseificio. Vediamo come.
(02.04.15)Un
patrimonio in attesa di recupero: le storiche casere di Pasturo
La documentazione del degrado di un pezzo di storia valsassinese e
lombarda. A partire dal 1877 sorsero a Rompeda, sopra Pasturo, una
serie di casere che sfruttavano le correnti d'aria fredda (le "lanche")
provenienti dalla roccia calcarea. Oggi rimangono solo ruderi e due
imponenti fabbricati semi diroccati. Sono lontani i tempi in cui i
primi industriali caseari salivano sin qui dalla Bassa per acquistare
le casere o terreni per realizzarle e in cui le carovane dei muli
scendevano fino alla strada carrozzabile per Lecco per trasbordare gli
stracchini sui carri e trasportarli sino alla stazione della città
manzoniana. Ma un rilancio è possibile quanto auspicabile.
(26.09.14)
Viaggio nelle sedi ancestrali dei bergamì
La Valzurio, in alta val Seriana è una valle di bergamì per
eccellenza (ma anche di pastori). Amata da chi ama la montagna
autentica, non le rappresentazioni turistiche e alla National Park. le
sue contrade sono autere e rivelano antica ricchezza e splendore.
Volevo girarla tutta in una giornata con l'amico Andrea Messa di
Nasolino ma siano riusciti a vederne meno di metà. Perché di elementi
interessanti storici, ambientali ce ne sono paerecchi
Quei
legami tra montagna e città
(03.01.11) La cultura
cittadina, non certo da oggi, è poco disposta a riconoscere come
la montagna abbia contribuito in modo determinante a costruire
l'economia, la società, la cultura delle nostre regioni. E'
ora di farglielo sapere.
La civiltà dei bergamini vista da
Scheuermeier (20.08.14) Il
libro "La
civiltà dei bergamini uscirà a fine settembre. Una tribù lombarda di
malghesi tra i monti e il piano tra il quattordicesimo e il
ventesimo
secolo", edito da Centro Studi Valle Imagna ha l'onore di essere
illustrato anche con immagini inedite di Scheuermeier
(18.08.14)
460
pagine che 'aprono' un capitolo sorprendentemente ignorato dalla
cultura ufficiale pianocentrica e urbanocenbtrica. Perché
i bergamini
erano (sono) personaggi scomodi per la cultura della modernità, per la
borghesia, per il progressismo coatto. E' la rivincita della montagna,
dei pastori che fanno conoscere la loro storia. Una storia che
raccontra come hanno scalzato gli agricoltori imborghesiti dalla
conduzione di molte aziende della pianura lombarda, di una mobilità
sociale straordinaria, di uno spirito d'impresa controcorrente, ma
anche di vera solidarietà di gruppo edi valori solidi, senza le
ipocrisie della 'società stanziale'. (uscita a metà settembre -
poi
acquisto su Internet sul sito Centro Studi Valle Imagna)