Bergamini
pilastro del caseificio lombardo
2020 anno della
transumanza
Nel
celebrare la proclamazione della transumanza "patrimonio dell'umanità"
è doveroso richiamare come la transumanza, in ambito alpino-padano,
ebbe una connotazione particolare, basata sull'allevamento di vacche da
latte e sull'attività casearia. Le tradizioni casearie lombarde (ma
anche delle regioni vicine) e la stessa nascita della moderna industria
del latte devono molto allla transumanza dei "bergamini".
di Michele Corti
(27.12.19) Nell'affermare
l'importanza della transumanza dei bergamini, casari e allevatori di
bovini da latte, non si cesserà mai di insistere sull'effetto
formidabile che lo scambio tra pianura e montagna ebbe sullo sviluppo
della moderna agricoltura a indirizzo zootecnico della pianura
irrigua lombarda. Oggi è difficile capire questo
fenomeno per non poche ragioni ma due valgono a farci capire: 1) il
ruolo insostituibile del concime organico nel determinare
l'affermazione di un'agricoltura intensiva basata su rotazioni,
irrigazione e... letame. Nel medioevo, era dominante la
cerealicoltura estensiva asciutta che utilizzava i bovini quali
animali da lavoro. Le poche vacche servivano per lo più da madri di
buoi e davano due litri di latte al giorno. Il latte e i formaggi
erano per lo più pecorini, frutto di un sistema pastorale e
transumante che sfruttava gli spazi ancora incolti. Un sistema del
tutto separato dal punto di vista agronomico e sociale da quello
agricolo. I grandi proprietari concedevano i diritti di pascolo su
larghe estensioni ai "malghesi" (che avevano per lo più
pecore da latte, qualche capra e qualche vacca) mentre i latifondi
coltivati erano suddivisi in tante unità mezzadrili gestite da una
famiglia di coltivatori con scarsi mezzi. La rivoluzione
dell'irrigazione è stata anche una rivoluzione delle strutture
fondiarie: al posto delle piccole unità mezzadrili sorsero poche
grandi unità organiche, le cascine, ampiamente provviste di
fabbricati, incluse stalle e caseifici. Le cascine vennero cedute in
affitto a imprenditori. Il capitale bestiame, però, lo portarono i
montanari transumanti e solo molto gradualmente gli affittuari si
dotarono di mandrie proprie di lattifere, chiamate nel milanese
"bergamine" proprio perché alle origini della moderna
agricoltura della pianura irrigua lombarda, le mandrie
erano il larga misura transumanti e, un estate tornavano per
l'alpeggio sulle Alpi orobiche. "Bergamina" era la mandria
di vacche da latte e bergamino il suo proprietario.
I
bergamini, grazie alla possibilità di svernare in pianura, dove
acquistavano il fieno dagli affittuari che conducevano le
cascine,
potevano allevare molte più vacche dei contadini di montagna. Questi
ultimi spesso ne avevano solo una, 4-5 era già un bel "capitale".
Bisogna pensare che: 1) i prati erano pochi perché il montanaro
doveva coltivare segale, orzo, grano saraceno, rape, fagioli, mais,
patate; 2) ogni famiglia aveva un po' di bestiame e
quindi tanti avevano tanti piccoli appezzamenti; 3) il fieno andava
sfalciato a mano, spesso su terreni in pendio, e ci voleva tempo e
fatica.
Un tipico insediamento di ceppi di bergamini in alta val Seriana
I
bergamini, molto spesso, erano originari di contrade e nuclei rurali
posti al di sopra dei paesi. Qui, sia per l'altitudine che per la non
necessità di coltivare cereali, patate ecc. (in inverno i generi
alimentari erano forniti ai bergamini dai conduttori delle cascine
della bassa), i bergamini potevano disporre di prati che servivano per
accumulare scorte di fieno che le loro mandrie, relativamente grosse,
consumavano nei brevi breve periodi pre e post alpeggio. Poi bisognava
mettersi in marcia, a tappe di 20 km al giorno verso la pianura. Il
tragitto poteva essere breve , con una sola sosta o lungo sino a 200
km. I bergamini grossi dovevano dirigersi verso la
bassa pianura irrigua, dove le cascine avavano grandi stalle e grandi
produzioni di fieno, quelli piccoli potevano fermarsi nella fascia di
alta pianura e di collina (tra Varese e Brescia).
I bergamini, con le loro "bergamine", erano ben accolti dagli agricoltori di pianura. I contratti
d'affitto, da essi stipulati con la grande proprietà (enti
assistenziali e patriziato milanese), imponevano di mantenere sul
fondo un certo numero di vacche da latte, pena l'escomio. La ragione
è evidente: non si voleva, dopo tutti gli investimenti in opere di
irrigazione, bonifiche, fabbricati, che la terra perdesse fertilità
e che il capitale fondiario "evaporasse". Ma il
"fittavolo" che aveva già il suo bel da fare a gestire
un'azienda con decine di dipendenti, a seguire i mercati, le
complicate procedure dell'utilizzo e del pagamento dell'acqua di
irrigazione, cercava di esimersi dalla "grana"
dell'allevamento e della lavorazione del latte.
Erano
epoche (lo fu sino all'Ottocento) in cui le competenze relative alla
cure delle malattie del bestiame, alla riproduzione animale, alla
lavorazione del latte erano considerate alla stregua di saperi
esoterici i cui depositari li custovivano gelosamente, di padre
in figlio. Gli agricoltori di pianura non avevano alcuna
domestichezza con il bestiame (gli animali venivano acquistati dai
commercianti e non riprodotti in azienda); in più il clima, il
regime alimentare, le condizioni igienico-sanitarie, i sistemi di
stabulazione (scarsità di luce e di ricambi d'aria) rendevano
impossibile o comunque anti-economico allevare la "rimonta",
ovvero allevare vitelle da vita. Dopo il Cinquecento, massicciamente
nel Settecento e nell'Ottocento, il rifornimento delle giovani vacche
(si acquistava l'animale che aveva già partorito e prodotto latte)
veniva principalmente dai montanari svizzeri che si erano
specializzati nel rifornire il mercato degli agricoltori della
bassa. Anche se il problema del rifornimento della "rimonta"
aveva trovato una soluzione con l'import da oltre Gottardo, restava
il problema del personale addetto al bestiame. Ma lo scoglio
principale era quello della caseificazione. I casari assunti dai
fittavoli pretendevano salari elevati, una casa più che decente e...
facevano di testa loro.
Così
anche quando i fittavoli iniziarono gradualmente a gestire
direttamente le "bergamine" (con personale che, specie i
capi-stalla, era in prevalenza costituito da elementi di origine
bergamina), l'attività di caseificazione, con tutti i rischi che
comportava, continuò ad essere demandata ai lacé (laté).
Una
cascina diroccata nell'Est milanese. A destra il "casone"
(caseificio) di impostazione ottocentesca
Costoro
erano figli "cadetti" di famiglie transumanti con diversi
eredi al ruolo di regiùr o che, per motivi vari,preferivano
staccarsi dal padre/zio o dai fratelli e che si dedicavano in
prevalenza alla lavorazione del latte (pur continuando a mantenere
qualche vacca e ad allevare suini), rimanendo in pianura tutto
l'anno. L'attività di lattaio non richiedeva una famiglia numerosa
(come quella dei transumanti che spesso dovevano dividersi tra più
compiti e più località) ed era gestibile individualmente.
In
una statistica del 1857 si osserva che nel circondario di Lodi e nel
Pandinasco la presena dei bergamini era preponderante tra
i gestori dei "casoni". Dove i "bergamini di
ventura" erano già stati in parte o in tutto sostituitidalal
gestione diretta del fittavole della stalla, vi erano ancora parecchi
"lattaj". Nella zona di Codogno erano be erano
rimasti pochissimi. Come si spiega questa forte differenza
nell'ambito dlelo stesso lodigiano? Nella parte bassa lo sviluppo
delle grandi cascine era stato più precoce, in più la dimensione
dei fondi è rimasta maggiore. Nella parte più a Nord le aziende
erano di dimensioni ridotte e di conseguenza gli affittuari avevano
meno risorse organizzative ed economiche. Intorno a Lodi, la
zona dei Chiodi (corrispondente ai Corpi santi di Milano) era
caratterizzata da piccole cascine e da un'attività casearia favorita
dal facile rifornimento alla citta con la vendita diretta.
La
loro condizione era comunque in qualche modo altrettanto "nomade"
di quella dei bergamini che continuavano a salire in montagna per
l'alpeggio a ogni fine primavera. Sia i lattai che i bergamini
stabilivano con i conduttori delle cascine contratti semestrali: da
San Michele a San Giorgio e da San Giorgio a San Michele. Il primo
era il contratto per l'acquisto del fieno, tipicamente dei
transumanti (che a maggio salivano in montagna), il secondo era il
contratto "per l'erba" che stipulavano i bergamini che
restavano in estate in pianura. Anche per i lattai valeva una uguale
ripartizione che corrispondeva - in termini caseari - alla
produzione, alla "sorte", "vernenga" e di quella
"maggenga" che contraddistinguevano due produzioni distinte
per qualità e prezzo con riferimento al prodotto più importante,
specie nel lodigiano, ovvero il formaggio "di grana".
Un
bergamino (un Papetti di Foppolo), orgoglioso del proprio bestiame)
I
lattai, come i bergamini si spostavano spesso da una cascina
all'altra; era rarissimo che tornassero per più anni nella stessa.
Molti si spostavano ogni anno o ogni sei mesi. I motivi potevano
essere pratici (se la "bergamina" cambiava di dimensione
servivano stalle e fienili adeguati alla nuova situazione) o legati a
contestazioni sulla qualità del fieno. Fondamentalmente, però, il
bergamino (e con lui il laté che partecipava delle stesse
origini e della stessa cultura), preferiva non vincolarsi a rapporti
stabili che gli avrebbero fatto perdere la sua indipendenza. Egli era
l'unico che non si cavava il cappello davanti al fittavolo. Si
sentiva alla pari con il fittavolo (che, non di rado, era
stato a sua volta bergamino o era discendente di bergamini).
Famiglia
di bergamini di Parre (val Seriana) in alpeggio a Bienno
(Valcamonica). I bergamini per l'alpeggio si spostavano anche in
altre vallate.
Così
come il bergamino acquistava il fieno, e con esso il diritto all'uso
dei locali di abitazione, stalle, caseificio, porcilaia (più legna,
farina e altri generi alimentari), anche il lattaio "affittava"
il latte che pagava a scadenze regolari (dopo aver venduto il
formaggio) e otteneva gli stessi "appendizi contrattuali"
del bergamino (locali, legnoa...). Orgogliosi della propria
indipendenza, il bergamino e il lattaio di origine bergamina erano
insofferenti in massimo grado alla rigida organizzazione per scale
gerarchiche, formalismi e rigide competenze della cascina . Un senso
di indipendenza che queste figure hanno conservato a lungo.
D'altra parte, all'interno della grande
famiglia
bergamina vi era una organizzazione del lavoro tutt'altro
che improvvisata. Solo che i ruoli erano "flessibili" e
spesso interscambiabili.
Alcune
delle località dove è stato attivo Antonio Invernizzi, figlio del
"Pedron", papostipite del ceppo degli Invernizzi Pedron di
Barzio (Valsassina) e nonno di Egidio Invernizzi fondatore della
INALPI di Moretta (Cuneo)
Le
donne bergamine per vestiario e atteggiamenti e competenze non si
differenziavano troppo dagli uomini. Una sosta nella transumanza
(Piazza Brembana)
Le
donne, per esempio, al contrario di quello che potrebbe far sembrare
(superficialmente e pregiudizievolmente) il regime patriarcale erano
capaci di svolgere anche le mansioni tipiche degli uomini: guidare i
carri, assistere i parti delle vacche. Nella famiglia bergamina era
chiaro chi comandasse, ma secondo logiche comprensibili e accettate,
non per affermazione gerarchica fine a sé stessa, come
rivendicazione di uno status sociale o di forme esteriori di
superiorità, come invece accade nelle grandi organizzazioni
impersonali. La superiorità delle PMI, che in Italia derivano da
solide famiglie contadine patriarcali, è legata a questa capacità
organizzativa, alla flessibilità che contrasta con le distorsioni
burocratiche e gerarchiche delle grandi imprese. I bergamini hanno
trasposto queste qualità nel settore alimentare (latte e industria
suina).
A
Melzo nel 1906 sorge, per opera di Egidio Galbani, il primo
stabilimento caseario con impianti moderni e in corrispondenza dello
scalo ferroviario. Inizialmente Galbani aveva operato, come tanti
altri lattai bergamini nell'ambito delle cascine della zona. La
scelta di Melzo era legata ai collegamenti ferroviari ma anche alla
presenza in zona di molti bergamini (la zona, caratterizzata
dall'affioramento dei fontanili e quindi propizia all'irrigazione e
alla produzione foraggera è anche all'incrocio delle rotte di
transumanza da Nord, dalla Valsassina e da Est, dalle valli
bergamasche).
Il Quadrilatero del latte e dei bergamini è a cavallo dell'Adda e delle provincie di Milano, Bergamo, Cremona e Lodi.
Si spiega con la presenza della linea dei fontanili, di terreni adatti
alla foraggicoltura (specie nel Pandinasco con falda freatica poco
profonda), con l'incrocio delle rotte della transumanza.
Oggi l'industrializzazione e l'urbanizzazione hanno spostato a SE
l'epicentro del latte e del caseificio (verso la bassa bresciana e
mantovana).
La
presenza della fascia delle risorgive, dei fontanili, è uno dei fattori
di ordine naturale che spiega la vocazione foraggicola e zootecnica di
alcune zone della pianura lombarda. Così per la Lomellina che, prima di
divenire terra da riso (un processo iniziato lentamente dal XV
secolo) è stata, sino al XIX secolo, eminentemente terra di latte e
formaggi. Grazie ai canali artificiali, alle bonifiche, alle opere di
irrigazione anche vaste zone a Sud della fascia sono divenute "terre da
latte". In epoche in cui il trasporto dei formaggi freschi era
limitato anche la dislocazione rispetto ai grandi centri di consumo ha
spiegato la vocazione casearia. Così con le aree di risorgiva (e dei
navigli) a Ovest e a Est della capitale lombarda.
Nell'ambito
dei tanti piccoli caseifici gestiti dai lattai bergamini che, nel
corso del Novecento, si sono gradualmente distaccati dalle cascine
per aprire caseifici autonomi, sono emersi veri e propri capitani di
industria. Il più grande è stato Egidio Galbani.
A lui si devono
molte delle innovazioni che hanno fatto la fortuna dell'industria
casearia italiana anche se bisogna ricordare che, già nel 1926, il
Galbani abbandona (le circostanze non sono mai state chiarite) la
ditta da lui fondata verso il 1880. Essa manterrà il nome del
fondatore ma sarà gestita dai fratelli Invernizzi (Achille - che fu presidente del Milan - e Rinaldo), una famiglia con
radici in Valsassina come quella di Galbani, meno celebrata, sia
per i forti legami con il regime fascista sia per le poco limpide
circostanze della cessione alle multinazionali. A Melzo vi era anche
la Invernizzi, una ditta importante ma che si mosse sempre sulla scia
della Galbani (vai qui per approfondire la storia di questa ditta). Chi non ricorda la "mucca Carolina" e le
campagne promozionali "all'americana" della Invernizzi! Ma
a Melzo, a sottilineare una storia fatta non solo dalle "punte"
vi erano almeno altri sei piccoli caseifici Invernizzi!
Ai
Galbani, agli Invernizzi, ai Locatelli si riconosce di aver saputo
creare una grande industria casearia partendo dalla storia dei
bergamini, dalla transumanza praticata dalle famiglie di estrazione.
Ci si dimentica, però, che la storia del caseificio lombardo
comprende anche altre ditte grandi e medie di origine bergamina. Ci
si dimentica anche che le maestranze, i tecnici, i direttori degli
stabilimenti appartenevano alla stessa "comunità di pratica",
erano figli o nipoti di bergamini , avevano maturato le loro
esperienze nelle piccole latterie, da lattai, da figli di lattai.
La
sede londinese della Mattia Locatelli. La Locatelli ha radici che
risalgono ai primi dell'Ottocento e per lungo tempo ha mantenuto la
sede a Ballabio, poi trasferita a Lecco e, in ultimo, a Milano. Era
la ditta più orientata all'export, con sedi a Londra, New York e
Buenos Aires.
In
Italia aveva sedi produttive in Piemonte, in Lazio, in Emilia e in
Sardegna in modo da coprire la produzione dei principali formaggi
tipici itraliani da esportazione (Grana, Pecorino, Gorgonzola). A
Londra, però, c'erano ai primi del Novecento almeno sei ditte
valsassinesi con una sede o una rappresentanza
Non
si darebbe il giusto riconoscimento ai bergamini se ci si limitasse a
legare il loro contributo a quelle poche famiglie da cui sono sorti i
celebrati marchi del caseificio italiano (tutti finiti nelle mani dei
francesi). Tra le grandi ditte di matrice bergamina va
senz'altro collocata anche la Arrigoni di Crema. Limitata alla
tradizionale produzione di Gorgonzola era la Devizzi che ha operato a
Gorgonzola tra il 1889 e il 1981.
Lo
stabilimento Arrigoni di Crema negli anni Venti del Novecento
Magazzini della Devizzi di Gorgonzola
A
sottolineare la dimensione "corale" del fenomeno dello
sviluppo dell'industria casearia a partire dall'attività dei
bergamini si può prendere in esame la presenza, nelle
ragioni sociali delle ditte casearie nelle provincia di Milano
(comprendente anche Lodi e parte della prov. di Monza e Brianza), di
cognomi di matrice bergamina nel periodo antecedente la seconda
guerra mondiale. Su 233 ditte con un cognome nella propria
denominazione, 111 sono riconducibili a detta matrice. Quasi la metà.
Tabella
- Caseifici "bergamini" in provincia di Milano
(Annuario
industriale della
provincia di Milano, Edito dalla
Confederazione fascista degli industriali della provincia di Milano,
Milano,1939)
-
Cognome
|
Origine
|
Caseifici n.
|
Invernizzi
|
Valsassina - V.Imagna
|
28
|
Locatelli
|
Valsassina - V. Imagna - V.Taleggio
|
12
|
Vitali + De Vitali
|
V.Taleggio
|
10
|
Manzoni
|
Valsassina -V.Taleggio - V.Imagna
|
9
|
Ticozzi + Ticozzelli
|
Valsassina
|
5
|
Danelli
|
V.Taleggio
|
4
|
Stracchi
|
Alta V. Brembana
|
4
|
Cattaneo
|
Alta V. Brembana
|
3
|
Valsecchi
|
Valsassina - V.Imagna
|
3
|
Arioli
|
Alta V. Brembana
|
2
|
Caccia
|
Gandino (V.Seriana)
|
2
|
Migliorini
|
Alta V. Brembana
|
2
|
Mor Stabilini
|
Alta V.Seriana
|
2
|
Papetti
|
Alta V.Brembana
|
2
|
Plati + Platti
|
Valsassina
|
2
|
Redondi + Rotondi
|
V.Taleggio
|
2
|
Sfondrini + Fondrini
|
Alta V. Brembana
|
2
|
Bellaviti
|
V.Taleggio
|
1
|
Bonetti
|
Alta V. Seriana
|
1
|
Buzzoni
|
Valsassina
|
1
|
Calvi
|
Alta V. Brembana
|
1
|
Chiaveri
|
V.Taleggio
|
1
|
Combi
|
Valsassina
|
1
|
Dedè
|
Alta V. Brembana
|
1
|
Devizzi
|
Valsassina
|
1
|
Moretti
|
Alta V.Brembana - V.Seriana
|
1
|
Oldani
|
V.Taleggio
|
1
|
Pigazzi
|
Valsassina
|
1
|
Rebuzzini
|
V.Taleggio - V.Brembana
|
1
|
Scandella
|
Valsassina/V.Seriana
|
1
|
Sconfietti
|
Alta V. Brembana
|
1
|
Scorletti
|
Alta V. Brembana
|
1
|
Zenoni
|
Leffe (V.Seriana)
|
1
|
La
presenza dei caseifici "bergamini", che in molti casi sono
ancora attivi all'interno delle cascine, è legata ai due "poli"
della valle del Ticino e della Martesana, alle zone quindi della
linea delle risorgive, e dei navigli (al tempo stesso canali di
irrigazione e importantissime vie di trasporto (vedi qui
il mio saggio: "I navigli vie di acqua e di latte. O
meglio
di caci e stracchini"). Qui sorsero anche le prime
industrie casearie (ad Abbiategrasso e Magenta più che stabilimenti
depositi di raccolta della produzione artigianale dei bergamini
da parte delle stesse grosse ditte).
I
bergamini e i lattai di matrice bergamina sono quasi assenti a Nord
di Milano in ragione dell'assenza, mancando l'irrigazione (almeno
sino alla realizzazione del canale Villoresi) di grosse cascine ad
indirizzo misto (foraggero e cerealicolo). Qui vi erano parecchi
caseifici gestiti da famiglie dell'alta Brianza dove non era assente
una tradizione locale di caseificio (vedi il formaggino di
Montevecchia).
Inzago
(Martesana): qui si trovano ancora aziende che praticano la
transumanza. Come la famiglia Cattaneo che alpeggia a Cambrembo, in
alta Val Brembana, da dove è originaria (come Carlo Cattaneo)
Se
ci spostiamo nel Novarese, una statistica di diversi anni precedente
(1905) attesta una schiacciante preponderanza dei produttori caseari
di origine bergamina. Sono 113 su 168. Per di più tra gli altri
produttori parecchi hanno cognomi brianzoli, comaschi, milanesi,
pavesi.
Tabella
- Caseifici "bergamini" in provincia di Novara
L. Richter, Guida Tecnica
Industriale dei
Circondari di Novara, Domodossola, Pallanza, Varallo, Tipografia
Gioachino Gaddi, Novara 1905. Prima edizione.
-
Cognome
|
Origine
|
Caseifici n.
|
Invernizzi
|
Valsassina - V.Imagna
|
35
|
Ticozzi + Ticozzelli
|
Valsassina
|
16
|
Arrigoni + Arrigone
|
Valsassina - V.Taleggio
|
14
|
Galbani
|
Valsassina
|
9
|
Annovazzi
|
Valsassina - Alta V. Brembana
|
8
|
Combi
|
Valsassina
|
5
|
Locatelli
|
Valsassina - V.Taleggio - V.Imagna
|
5
|
Casari
|
Valsassina
|
4
|
Gipponi
|
V.Brembana
|
4
|
Rosa
|
Valsassina
|
3
|
Bergamini
|
Valsassina/Ardesio (Alta V.Seriana)
|
2
|
Orlandi
|
Valsassina
|
2
|
Zanotti
|
Media V. Seriana
|
2
|
Bonetti
|
Alta V. Seriana
|
1
|
Merlo
|
Valsassina
|
1
|
Santi
|
Alta V. Brembana
|
1
|
Scandella
|
Valsassina - V.Seriana
|
1
|
Zanetti
|
Alta Val Seriana
|
1
|
Tra
i produttori caseari di matrice bergamina nel Novarese predominano in
modo schiacciante i valsassinesi (concentrati nell'area di
Abbiategrasso). Anche nella precedente statistica milanese avevamo
notato una forte presenza valsassinese ma bilanciata da una
significativa presenza dei taleggini e di originari dell'alta val
brembana, con qualche caso di matrice seriana. Anche a Novare, in
ogni caso, non è trascurabile la presenza di originari dell'alta val
Brembana e della val Seriana. Il caseificio Santi di Cameri, fallito
qualche anno fa, è la testimonianza più importante. Non a caso i
Santi (Sàncc) sono presenti nella statistica del 1905.
Oggi
la presenza valsassinese a Novara è manifesta nella presidenza
(riconfermata) del Consorzio del Gorgonzola in capo a Renato
Invernizzi. La ditta SI (di cui era titolare Renato) è però stata
acquistita la scorsa estate (come in precedenta la Santi) dal gruppo
IGOR, ormai leader incontrastato nel mondo del gorgonzola.
Si
mantengono indipendenti, nel mondo del gorgonzola, gli Eredi
Baruffaldi, anch'essi originari di Barzio in Valsassina.
Tornando
nel Milanese tra i piccoli caseifici di origine bergamina troviamo i
Papetti di Liscate, alle porte di Milano (presenti a Liscate nella
statistica del 1939) che continuano con successo a produrre il loro
stracchino da generazioni.
A
produrre gorgonzola nel milanese, ad Abbiategrasso ci sono gli
Arioli, famiglia tra le più blasonate per le secolari transumanze da
Piazzatore (e in minor misura Mezoldo), entrambe località dell'alta
val Brembana, e la Bassa. A Gorgonzola
non c'è più nessuno (anche in conseguenza dello scontro tra il
comune e il consorzio sulla deco "stracchino di Gorgonzola").
Il
nome Arrigoni è tenuto alto da diverse ditte. La più grande e la
Arrigoni Battista di Pagazzano nella bassa pianura bergamasca . La
bassa pianura bergamasca con Caravaggio, Treviglio, Fornovo San
Giovanni, Calvenzano, Pagazzano, ha costituito - in parte
costituisce ancora - un formidabile quadrilatero del latte con
Melzo/Gorgonzola, Lodi e Crema/Pandino.
Tra le ditte Arrigoni va ricordata la
Arrigoni Sergio di
Almè e, più recente la casArrigoni che ha il merito di aver
mantenuto la sede nella frazione Peghera di Taleggio (dove c'è
anche la ditta Arnoldi). In CasArrigoni lavorano sia Tina che Marco,
figli del fondatore Giovanni. Il titolare è Alvaro Ravasio, marito,
di Tina che - a differenza di tanti che sono scesi in pianura - si è
stabilito in montagna affascinato dall'attività del suocero e della
moglie. Alvaro è presidnete del consorzio dello strachitunt, il
"gorgonzola dei bergamini", quello a due paste, nato quando
non esistevano frigoriferi e spore di Penicillium.
E il nome
Invernizzi,
quello che identifica, più di ogni altro, i transumanti (indicati
come "quelli che vengono in inverno", gli invernali, con
attributo poi cognominizzato), hanno ancora un nesso con la realtà
casearia. Non sono poche le piccole realtà che possono vantare il
blasone Invernizzi nella denominazione della ditta. Tra queste, in
Valsassina, culla del caseificio bergamino, la Daniele Invernizzi,
capace di fare della tradizione un elemento di innovazione, sia sul
piano del marketing (nomi dei formaggi, confezioni con riferimenti
storici) che sul piano della tecnica di produzione basata sull'uso di
latte km 0 e sulla stagionatura nelle classiche "grotte"
della Valsassina, veri frigoriferi naturali dove, dalla roccia viva,
spirano correnti a 7°C.
Gabriele
Invernizzi, figlio del fondatore Daniele (di famiglia di
transumanti), con Gualtiero Marchesi e il formaggio del Lasco, un
brigante valsassinese entrato nella leggenda
La grotta
della Daniele Invernizzi a Ballabio (il caseificio è a Pasturo). A
Ballabio avevano casere di stagionatura i Locatelli, la Galbani e
tante altre ditte ora dimenticate. Erano decine le "grotte"
per la stagionatura del gorgonzola, prima chge, negli anni Trenta, la
filiera si spostasse a Novara dove erano state realizzati grandi
magazzini refrigerati sotterranei presso lo scalo ferroviario. E' la
storia che rivive in questa grotta.
Perché
solo piccoli caseifici possono chiamarsi Invernizzi? Perché il
marchio Invernizzi, acquisto dalla Kraft (oggi della Lactalis),
rivendicava l'esclusiva contro i tanti produttori caseari di
cognome Invernizzi. La Kraft ha tollerato i piccoli ma ha imposto il
suo assurdo monopolio ai grossi. Fare formaggio è "mestiere da
Invernizzi". Abbiamo già visto che a Novarea la Invernizzi si è
chiamata SI. Un caso analogo, ma ancor più clamoroso è quello della
INALPI di Moretta (Cuneo). Un marchio che oggi sfrutta il
richiamo alle "Alpi" , un fatto non da poco perché
l'onnipresente Kraft (ciocolatto) utilizza solo latte "alpino",
e Cuneo - anche l'altopiano - è ricompreso nell'area. La ditta,
però, era nata con il nome del fondatore Egidio Invernizzi.
Lo
stabilimento INALPI a Moretta (Cuneo)
Oggi
Egidio. che a un certo punto decise di rinunciare alla battaglia
legale caratterizzata da alterni pronunciamenti, si consola
sostenenendo che, dopotutto, la ditta era giovane, fondata nel 1966 e
che non era un gran capitale di marchio. Però il nome Egidio,
rimanda al grande Galbani e coniugato con il cognome Invernizzi è un
concentrato di grande tradizione casearia. In ogni caso oggi
l'INALPI, gestita dai figli di Egidio, è una grande azienda
dinamica. Ma nel solco più puro della storia dei bergamini e del
caseificio lombardo. Un caseificio che in terra piemontese è
rappresentato anche dai Biraghi (evidentemente per il latte i
lombardi hanno una vocazione particolare) e, nella forma moderna,
industriale, è stato portato dai Locatelli. I Locatelli in Piemonte
hanno impiantato, sin dagli anni Venti del Novecento, ben sette
caseifici. Il più importante era quello di Moretta.
La storia di Egidio
Invernizzi e della Inalpi. Abbiamo già visto che il nonno di
Egidio era un lattaio "nomade" (come tutti i laté
bergamini). Un altro figlio del Pedron era
Battista
che vediamo nella foto sotto. Siamo negli anni Venti e la foto è
stratta da La Campagna, organo della Cattedra ambulante di
agricoltura di Como (none sisteva la provincia di Lecco). Fatto
eccezionale il bergamino Invernizzi Pedron si era meritato un
articolo . Nella foto è ritratto nella classica posa, con la
scussala (il grembiale da casaro) arrotolato sul
fianco. Sullo
sfondo il Pizzo dei Tre Signori. L'alpeggio è Sasso che era
proprietà della famiglia Invernizzi Pedron. Chi pensa ai bergamini
come a dei "poveri allevatori di montagna" sbaglia tutto se
confonde la loro vita dura, la loro "rozzezza" (molti si
recavano anche in piazza Fontana a Milano a fare mercato - ancora
negli anni Trenta - con gli zoccoli di legno, il bastone il tabarro)
con una condizione misera e mancanza di intraprendenza.
Non
pochi, come i Pedron avevano anche parecchi terreni in montagna.
I Pedron, in particolare, avevano (c'è tuttora)
una cappella al cimitero di Barzio essendo tra i più grossi
proprietari di terreni e di immobili del paese. I bergamini erano
gente dura e parsimoniosa, che badava al sodo, ma non erano privi di
intraprendenza. La vita nomade gli impediva di spendere in beni di
consumo (vestiti, arredamento) , così i guadagni andavano tutti
nell'ampliamento della bergamina (grande onore era avere
più di 100 capi) e nella tesaurizzazione (sino a tempi
recenti in monete d'oro). Quest'ultima era necessaria per
ricostituire la mandria in caso di epidemia (l'afta epizootica
picchiava duro). Così vendendo dei capi e utilizzando il "tesoretto"
i bergamini, con lo stupore di chi li considerava dei "poveri
montanari" sempre con la puzza di vacca addosso, erano in grado,
al momento buono, di acquistare anche dei fondi in pianura. Va
notato, però, che al insieme all'abbigliamento montanaro, indossato
con orgoglio, i bergamini esibivano catene d'oro dell'orologio,
orecchini d'oro (una vecchia tradizione contro il malocchio), gilè.
Durante la transumanza, che era una specie di festa e motivo di
ostentazione (specie delle belle vacche e dei costosi campanacci) il
bergamino si vestiva al meglio, così questi bambini come questi
ritratti a Taleggio in partenza per la pianura .
Tornando
a
Egidio Invernizzi egli ricorda che, da figlio di un laté,
gli toccava da ragazzo pulire le baste dei maiali. Nel frattempo si
dedicava agli studi. Dopo il diploma di ragioniere si recò
all'estero acquisendo una specializzazione in tecnologie casearie di
prim'ordine in Germania (dove si iscrisse a una scuola
superiore di caseificio non avendo ancora i requisiti di età
minima), in Olanda e in Nord America. Con il curriculum acquisito non
ebbe difficoltà a entrare alla Locatelli, prima della vendita alla
Kraft. Una mano la ricevette da degli zii, uno capo del personale,
l'altro della contabilità che erano uomini di fiducia di Locatelli,
gente di Ballabio, valsassinesi. Non andavano diversamente le cose
alla Galbani e alla Invernizzi: se eri di famiglia bergamina o solo
di paesi come Morterone (dove erano quasi tutti bergamini e in larga
misura Invernizzi) il posto era assicurato, anche senza cv. Dal
magazziniere al direttore. Dopo essere stato a Vevey per dei
corsi dalla Kraft, nel frattempo subentrata alla guida della
Locatelli, al rientro Egidio viene destinato allo stabilimento di
Moretta, che sarà per lui fatale. Qui conosce la futura moglie,
figlia di commercianti di bestiame. Con lei deve però
trasferirsi a Soncino (Cremona), dove c'era un altro stabilimento
Locatelli con il ruolo di direttore. Qui, però si rende conto che la
disciplina di una multinazionale svizzera non è compatibile con
l'indole indipendente di un bergamino; torna a Moretta e avvia,
partendo quasi dal nulla. una sua azienda favorito anche dalle
relazioni acquisite nella sede di Moretta della ex-Locatelli (oggi
acquisita dal pastificio Rana). E così dalla Locatelli è sorta una
nuova grande Invernizzi. Peccato che non possa chiamarsi così. Ma
essa rappresenta un capitolo in linea con una grande storia di
imprenditori con le radici in montagna o meglio nella transumanza: da
Egidio a Egidio.