(23.02.19) Nel
mondo milioni di persone hanno vissuto esperienze simili a quella della
donna Batwa della testimonianza di apertura. Altri
milioni (molti) hanno comunque sofferto perdita di reddito,
sradicamento, separazione dalla propria cultura, oppressione senza
che i loro lamenti potessero raggiungere il pubblico occidentale
ignaro di finanziare, attraverso il "benemerito" WWF e le altre grandi
organizzazioni conservazioniste, tante ingiustizie a danno dei più
poveri e dei più deboli.
Mentre i riflettori dei media si accendono
sulla “tragedia del mediterraneo”, dove altre Ong occidentali
giocano un ruolo ambiguo nella “migrazione africana”, i crimini
del land grabbing, dell'espropriazione di terre attuato in nome dello
sviluppo (dighe, piantagioni bioenergetiche) o - gli effetti sono gli
stessi - della creazione di
sempre nuove aree protette, si consumano silenziosamente nelle
foreste africane, nelle zone “cuscinetto” attorno ai parchi,
nelle savane. Storie di infinita oppressione e alienazione, di
migrazioni forzate, di sradicamento, guerre tra poveri. Ma anche
storie di aperta violenza: villaggi bruciati, torture, uccisioni,
stupri. L'occidente non sa e certo non gradisce sapere che in nome
dell'ambiente, dello sviluppo sostenibile in Africa il
neocolonialismo non ha mai spesso di assumere un volto feroce. Non
vuole vedere. Vuole credere alle favole ambientaliste. Vuole l'oppio
ambientalista.
Non
è facile dover riconoscere che i valori e le organizzazioni che in
occidente
godono in questa fase storica di più alto credito, ovvero la
"difesa della natura", la “biodioversità” , le “aree
protette”, le ONG conservazioniste, sono gli attori di uno dei più
cinici business neoliberali.
Un business che non si limita a trasformare la natura in merce e a
coprire i crimini ecologici con il green washing, ma che usa
normalmente, quotidianamente, sistematicamente, la violenza contro i
più deboli, i
senza voce, i senza rappresentaza politica, provocando povertà e
marginalizzazione sociale, perdita
irreversibile di intere culture umane, in perfetta continuità con la
storia di violenza dell'accumulazione del capitale (non solo
“primitiva”).
La
forza di questo business consiste nella capacità di mantenere
intatta,
in barba alla realtà, l'immagine di un ambientalismo senza fini di
lucro, anzi generoso, disinteressato, quasi eroico a dispetto della
realtà di una
piena integrazione nelle strutture e nelle strategie del capitalismo
predatorio globale.
It
has been part of the genius of neoliberal theory to provide a
benevolent mask full of wonderful-sounding words like freedom,
liberty, choice and rights to hide the grim realities of the
restoration or reconstitution of naked class power [Uno degli
aspetti geniali della teoria neoliberale è consistito nel fornire
una maschera accattivante, piena di parole che suonano in modo
meraviglioso come libertà, facoltà di scegliere, diritti, al fine
di celare la torva realtà della ristrutturazione e della definizione
dei nuovi fondamentali del nudo potere di classe]2.
In
occidente qualcuno sospetta e non pochi denunciano che la
moltiplicazione delle tante
"belle parole" (diritti umani, diritti dei popoli indigeni,
biodiversità, sostenibilità, contrasto del riscaldamento globale,
riduzione delle emissioni) nasconda business e speculazioni
ma quasi nessuno sospetta e pochissimi denunciano come dietro le "belle
parole" ambientaliste chi sia anche brutalità del vecchio colonialismo.
Invece occorre
chiarire che esproprio di terre appartenenti ai popoli indigeni,
le espulsioni e i trasferimenti forzati, la riduzione in povertà e in
condizioni degradanti sino alla schiavitù, la violenza
fisica sono un elemento sistematico del biocapitalismo, del
capitalismo predatorio ammantato di ambientalismo e conservazionismo,
del conservazionismo neoliberale.
Al
colonialismo è subentrato il green grabbing (l'accaparramento
espropriativo in nome dell'ambientalismo) ovvero un mascheramento
sofisticato che con il presupposto di ridurre le emissioni di
carbonio e tutelare la biodiversità si traduce in esproprio di beni
comuni, privatizzazioni, nuove disuguaglianze sociali,
marginalizzazione, sradicamento di comunità e spinta all'emigrazione
interna e
intercontinentale. In questo quadro le "aree protette" non
solo, molto spesso, non mettono al riparo da forme convenzionali di
estrazione neocolonialistica delle risorse (leggasi petrolio, legname
pregiato, uranio, diamanti, minerali rari) ma diventano anche lo
strumento
di forme più subdole di sfruttamento come il bioprospecting: si
tutela la biodiversità per commercializzarla, non solo vendendo
titoli e derivati finanziari sui mercati delle "compensazioni
ecologiche" ma anche sfruttandola direttamente sotto forma di
brevetti di molecole estratte da piante rare, presenti solo in certi
ambienti3.
Come
è possibile questo sofisticato, "imbroglio ecologico"?
Cerchiamo
di capirlo dopo aver chiarito alcune premesse. Caduto il muro di
Berlino e con la crisi dello stato sociale il neoliberalismo si è
accreditato come l'unico sistema sociale in grado di continuare a
garantire lo stile di vita consumistico acquisito e, al tempo stesso,
di fronteggiare i problemi ambientali. Se, in passato, il
capitalismo industriale cercava di minimizzare la gravità dei
problemi ecologici, oggi al contrario - concentrando l'attenzione sul
riscaldamento globale a scapito di altri forse più gravi problemi che
ha meno interesse a sollevare -
sostiene che la soluzione è interna al sistema, che i disastri
ecologici sono le conseguenze di un funzionamento difettoso del
mercato piuttosto che del risultato delle pratiche e delle relazioni
basate sull'ideologia mercatista in sé. I problemi ambientali
attuali del pianeta possono essere fronteggiati, secondo l'idea
neoliberale, se alla natura viene attribuito un valore di mercato, se
essa viene mercificata e si pone quindi nella condizione di pagare
in moneta sonante per essere preservata4
.
Detto
in modo meno brutale, il mercato dovrebbe internalizzare i costi
derivati dalla scarsità delle risorse e dalla perdita di biodiversità,
in modo da rendere profittevole la sua tutela. Il neoliberalismo,
lungi dal ridurre i profitti trae vantaggio dai danni inferti dal
capitalismo industriale trasformando in nuove merci le risorse divenute
scarse e
proponendosi per la "riparazione" dei danni ecologici. Spostarsi
sul fronte green, specie mentre molti settori tradizionali
dell'economia stagnano o comunque vedono i tassi di profitto ridotti,
diventa così strategico, non solo sul
piano della legittimazione ideologica ma anche dell'economia. La
mercificazione della natura significa nuove opportunità di
accumulazione
del capitale e di autoespansione del sistema di mercato5.
Attraverso
la conoscenza, la quantificazione, il controllo delle risorse
naturali e della biodiversità queste risorse sono trasformate in beni e
servizi oggetto di scambi e di finanziarizzazione 6
. Invece di ridurre la presa del mercato sulla società che determina la
pressione sull'ambiente si ingloba nel mercato anche la natura. Questa
via, contestata dall'ecologia sociale, che però non ha megafoni, è
benedetta dal conservazionismo egemonico neoliberale che ha potenti
megafoni.
La strategia biocapitalista (fare della
conservazione delle risorse e
della biodiversità un business) si è estrinsecata attraverso il
noto meccanismo del mercato dei crediti di carbonio e dei connessi
progetti Redd+ (Reducing Emissions
from Deforestation and forest
Degradation). Dello stesso genere sono i titoli e i derivati
finanziari basati sulla
biodiversità e i PES (pagamenti per i servizi ambientali).
Sull'efficacia
di questi meccanismi c'è poco da dire: servono egregiamente a
produrre profitti speculativi e volatilità dei mercati, ma non ai
fini per i quali sono stati pensati e millantati. Valga l'esempio,
meglio conosciuto, dei crediti di carbonio che racconta di un
clamoroso insuccesso, con il valore dei titoli sceso da 20 a 3 $ a
causa della crisi del 2008 e la fuga degli investitori alla ricerca
disperata di altri strumenti speculativi.
Coelho
and Gilbertson, nell'analizzare i vari aspetti di questi mercati,
hanno osservato a proposito dei titoli legati alla biodiversità
(anch'essi alla base di prodotti finanziari
derivati)7,
che le supposte compensazioni connesse al mercato dei titoli stessi
sono discutibili perché basate sulle sommarie valutazioni
della superficie interessata alla compensazione e al "grado di
biodiversità"8.
Si baratta la conservazione di tot ha di foresta qui con l'impatto
devastante di mega infrastrutture là. Come con i diritti di inquinare.
Dietro
queste fittizie equivalenze, applicate ai programmi di "sviluppo" della
Banca mondiale, basate sui soliti presupposti riduzionistici
dell'approccio scientifico conservazionista, vi
sono realtà di habitat unici difficilmente "pesati" in termini di
superfici, sia pure corrette per un abbastanza arbitrario coefficiente
di biodiversità che tiene conto dell'abbondanza di specie e della loro
rarità ma non può tenere conto di complesse relazioni ecologiche.
L'ideologia conservazionista, con la
separazione concettuale tra uomo e natura e la creazione di una natura
protetta che, al di là delle differenze ecologiche concrete è
valorizzata per questa qualificazione astratta che accomuna la "natura
protetta" ha reso
possibile questa quantificazione del suo valore universale come
premessa di mercificazione e scambiabilità, in stretta analogia con il
valore universale delle merci che, nonostante le loro diverse
caratteristiche fisiche e d'uso sono tutte raffrontabili attraverso il
prezzo. Un processo reso possibile grazie al "feticismo della merce" di
marxiana memoria che trova corrispondenza nel nuovo "feticismo della
natutura protetta", prodotto dell'ideologia conservazionista 9.
Mantenere
"sotto una campana di vetro" o dietro i bastioni di una fortezza un
territorio per
mercanteggiarerne il valore di biodiversità delle specie animali e
vegetali rare presenti, il valore delle piante in piedi quale deposito
di carbonio ecc. e consentire la
devastazione di habitat da qualche altra parte (a volte a fianco dei
perimetri dei parchi dove si realizzano nuove piantagioni abbattendo la
foresta), non si traduce in una
efficace difesa della biodiversità.
Anzi. Vantaggi e svantaggi di questi scambi speculativi, infatti, sono
ingiustamente distribuiti
tra gli attori in relazione al loro potere e forza economica e non in
base alla loro capacità di contribuire a mantenere la biodiversità e
questo
squilibrio non può che nuocere alla sua tutela 10.
In questo trade-off si crea nuova povertà, nuova marginalizzazione che,
a dispetto dell'insensibilità sociale (al di là delle dichiarazioni
ufficiali) ambientalista, rappresenta un pessimo viatico per la
conservazione delle aree protette e della biodiversità. La pressione
degli espulsi, immiseriti, sulle stesse aree protette dove erano
insediati o su altre superfici forestali e di valore naturalisticoè
inevitabile .
Le
devastazioni ambientali nel Nord del mondo sono "compensate" con i
parchi militarizzati del Sud del mondo. Doppio business. Così si
puntella il saggio di profitto capitalistico
L'ingiustizia
socio-ecologica di questa mercificazione delle natura a vantaggio dei
ricchi e a svantaggio dei poveri è
evidente nel caso del Reed+, il programma delle Nazioni Unite per
ridurre le emissioni di carbonio attraverso il contrasto alla
deforestazione e degradazione delle foreste nei paesi "in via di
sviluppo" . Esso riguarda le compensazioni offerte in cambio del
mancato taglio o incendio delle foreste, calcolate in base alle
mancate emissioni di carbonio. Queste compensazioni vengono erogate
attraverso programmi che, secondo diversi studi sul tema,
beneficiano gli attori locali più forti che si intestano i diritti
di proprietà. Per i membri politicamente ed economicamente più
deboli delle comunità locali che erano gli utilizzatori consuetudinari
di quelle superfici anche in assenza di formali diritti di proprietà,
vi è la perdita secca del
mancato utilizzo delle foreste che offrivano loro servizi
indispensabili in un contesto di generale aggravamento delle
ingiustizie sociali11.
Ci
sono autori12
che hanno giustamente messo in connessione il mercato dei crediti di
carbonio con quanto comporta in termini di trasferimento (esproprio)
a vantaggio di enti pubblici o privati di diritti di uso
collettivo (raccolte, pascolo, caccia, coltivazione
contadina) con il famoso movimento
delle enclosures
che si verificò in Inghilterra tra l'inizio
dell'età moderna e il XIX secolo. Tale movimento consentì,
attraverso l'espropriazione delle popolazioni rurali di creare le
condizioni per l'accumulazione capitalistica. Grazie alla
sostituzione dell'agricoltura di sussistenza (a campi coltivati a
cereali) in
pascoli
per le greggi dei grandi proprietari terrieri usurpatori dei diritti
comunitari, la nascente industria capitalistica ebbe a una
preziosa materia prima (la lana) ma anche la necessaria
manodopera a basso costo scacciata dalle campagne e costretta a
vivere in condizioni disumane in assenza di altre opportunità di
reddito, senza poter più disporre di beni alimentari autoprodotti e in
condizioni igieniche spaventose, negli slums delle fuliginose città
industriali. Le analogie con quanto accade oggi in Africa, ma anche in
altre parti del mondo, sono impressionanti. Il
capitalismo neoliberale è ancora cattivo, l'ambientalismo, che ne è una
componente organica, partecipa alle peggiori infamie del
capitalismo globale.
Le enclosures
inglesi
hanno rappresentato il modello paradigmatico di un
movimento che, inesorabile, ha raggiunto, prima il continente europeo -
dove ancora resistevano forme di gestione collettiva dei beni comuni
(vedi, per la nostra realtà alpina, le iniziative napoleoniche e poi
lombardo-venete e sabaude della prima metà dell'Ottocento) - poi i
paesi colonizzati di tutti i continenti. Quella che è in atto nel
mondo ohhi è la fase terminale (la "soluzione finale") a
danno dei diritti delle comunità rurali e indigene, una fase che
consiste non solo nell'immissione forzata nel sistema di
accumulazione capitalistica delle aree più remote del pianeta ma
anche in una controllo ancora più forte del territorio anche in aree
interne dei paesi sviluppati ai fini del loro spopolamento e del
passaggio di proprietà di enormi superfici a parchi e altri enti
quali percettori e gestori dei titoli derivanti dai "servizi
ecologici" (mancate emissioni, mantenimento di specie animali e
vegetali, acqua pulita). Su questo aspetto, sulla fondamentale
concordanza in un mondo globalizzato tra quanto avviene in aree remote
del mondo e sulle Alpi, sull'effetto di schiacciamento e polarizzazione
della mondializzazione, che tende a rendere sempre più simili le
condizioni di oppressione, trasversalmente alle vecchie suddivisioni
tra paesi sviluppati e sottosviluppati, torneremmo in un prossimo
contributo.
La
polizia indiana demolisce capanne di aborigeni tornati abusivamente a
stabilirsi nei parchi della tigre
Quello
che gli studiosi esprimono in forma più paludata nel linguaggio
accademico, Tom Goldtooth, direttore dell' Indigenous Environmental
Network lo ha espresso senza perifrasi: Most of the forests
of the world are found in Indigenous Peoples’ land. REDD-type
projects have already caused land grabs, killings, violente victions
and forced displacement, violations of human rights, threats to
cultural survival, militarization and servitude [La
maggior parte delle foreste mondiali è all'interno di territori di
popoli indigeni. I programmi tipo REED hanno già causato,
appropriazione di terre, omicidi, espulsioni violente, deportazioni,
violazioni dei diritti umani e minacce alla sopravvivenza culturale,
militarizzazione e schiavitù]13.
Sviluppi
recenti o connessione organica tra conservazionismo e capitalismo
Non
conoscendo la storia del conservazionismo si potrebbe pensare che in
questi sviluppi della green economy, nella mercificazione della
natura, il conservazionismo giochi un ruolo ancillare, che si limita
al green washing, a fornire patenti di sostenibilità, ad avallare le
iniziative delle grandi corporation in cambio di generosi
finanziamenti. Non è così. Non è affatto così. Il ruolo delle Ong
è di protagoniste, di motore di processi, non di assecondatore. Il
conservazionismo neoliberale del resto non è che l'ultimo capitolo
di una lunga e fruttifera relazione sinbiotica tra conservazionismo e
capitalismo14
che risale alla formazione dei primi parchi nazionali negli Usa e
alle prime associazioni conservazioniste (Sierra Club).
L'azione di
John Muir, il padre dei parchi, ricordato per il suo romanticismo, non
avrebbe avuto successo senza il
supporto lobbystico delle compagnie ferroviarie15
e di influenti ambienti dell' élite sociale di Manhattan16.
Quello che è certo è che il conservazionismo esprimeva
gli interessi e bisogni delle grandi città industriali e (già allora)
finanziarie e introduceva il concetto di
una natura da mettere "sotto vetro", salvo favorirne la
"valorizzazione" turistica e "per ritemprare lo spirito" a contatto con
la natura sublime,
stressato dai ritmi della vita urbana. La collaborazione, all'insegna
della creazione dei parchi nazionali, tra i primi conservazionisti e
i capitalisti-filantropi (promotori di quello stesso sviluppo
capitalistico che comportava pesanti impatti ambientali), ha fatto da
modello alle connessioni che tutt'ora caratterizzano il rapporto
tra
capitalismo e ambientalismo istituzionalizzato o mainstream che dir si
voglia 17.
Dopo
un periodo (anni '60-'70 del secolo scorso) in cui l'ambientalismo
era sembrato porsi in modo critico nei confronti del capitalismo,
arrivava la "terza ondata" ambientalista con la quale le
grandi organizzazioni conservazioniste si sono collocate, dopo gli
anni '80, su una linea di completa collaborazione con il capitalismo
in nome della green economy18.
Nel
mentre l'ambientalismo guadagnava, guarda caso, il pieno supporto
dei grandi media 19
e diveniva un elemento di quella "società dello spettacolo"
in cui le celebrità del mondo del cinema, dello sport, della
politica svolgono il ruolo di testimonial delle campagne
ambientaliste 20.
Le Ong
conservazioniste si fanno imprenditrici della
mercificazione
e spettacolarizzazione della natura, a
tutto vantaggio della nuova
classe capitalistica transnazionale (ben diversa da quella a cui pensa
chi è fermo alla concezione: capitalista = padrone delle ferriere) alla
quale appartiene il loro management, fattore di connessione delle Ong
tra loro e delle Ong e le big corp transnazionali21
.
L'azione
conservazionista
presunta disinteressata, l'aureola di santità che meritano, di default,
parole
o azioni che hanno a che fare con "specie a rischio",
"biodiversità", il disinteresse e la generosità
(sempre supposte) delle Ong a favore dell'ambiente e dell'umanità
diventano
elemento di auto-evidenza, non più contestabile. Così
l'ambientalismo e i suoi sacerdoti, circonfusi del riverbero
della sacralità della (pura) natura, alla quale rendono culto, si
sostituiscono al ruolo tradizionale delle religioni. A loro tocca
rimettere i peccati ambientali (gli unici peccati veramente gravi
ancora contemplati, insieme alla mancata accoglienza indiscriminata dei
"migranti" dalle stesse chiese cristiane). A loro tocca vendere le
(eco)indulgenze e impartire le (eco)benedizioni. Il tutto in vista di
un
"nuovo ordine religioso mondiale" in cui le vecchie religioni sono
arruolate in blocco
a svolgere un ruolo propagandistico subalterno sui temi ambientali
presso le masse "arretrate", ma pur anche vaste, ancora sotto la loro
influenza22.
Immagine emblematica: il WWF, cinica ed
efficiente macchina da soldi capitalista, si assimila, in posizione
egemonica, alle religioni storiche dell'umanità.
Ci si chiede perché tanta compiacenza da parte delle religioni
Assisi
1986: il WWF raccoglie le religioni sotto le sue ali
Sintomatica
di questi sviluppi è stata la creazione, nel 1986, da parte
dell'allora presidente internazionale del WWF, il principe Filippo,
di una nuova Ong, l'Alliance of
Religions and Conservation
(ARC) costituitasi a seguito di un incontro ad Assisi dei
leader di cinque delle principali fedi cui seguì, nel 1995, il
coinvolgimento di ulteriori quattro religioni. La ARC opera con il
sostegno della Banca mondiale23.
Ciò
avviene in un contesto in cui è del tutto venuta meno l'aura di
superiore
moralità che promanava da una sinistra che ha continuato, anche dopo
l'adesione al sistema neoliberale, a fingersi
erede dei movimenti che avevano interpretato le speranze (un tempo
caricate di contenuti palingenetici di tipo religioso), di
riscatto sociale delle classi lavoratrici. Non solo ma a questa
"secolarizzazione politica" (l'adesione al PCI aveva i connotati
dell'adesione a una chiesa) corrisponde una fase di estrema
secolarizzazione in cui la chiesa cattolica
è esposta al ludibrio degli scandali omosessuali e i luterani
mettono in vendita le chiese per mancanza di fedeli. L'unica
grande
organizzazione sociale che non è chiamata a rendere conto della
congruenza tra i fini dichiarati e il reale modus operandi (e che
quindi è oggetto di una “fede” che prescinde da verifiche
razionali), è l'ambientalismo conservazionista (alla WWF perché
Legambiente è percepita più "laica" e compromessa con la sinistra).
Un contributo molto significativo
verso questi esiti l'ha offerto, grazie alle posizioni assunte in
materia ambientale, lo stesso papa Bergoglio che - oltre a
contribuire in tante occasione a delegittimare dall'interno
la chiesa - in materia ecologica ha marcato una chiara
differenza con i suoi predecessori, attenti a non confondere
l'ecologia sociale (ispirata alla tradizionale dottrina sociale della
chiesa), con
l'ambientalismo tout court di matrice liberal-progressista-darwiniana.
Bergoglio ha fatto
propri in modo piuttosto acritico i temi dell'ambientalismo, conferendo
ad esso sempre più autorità morale.
Non è solo la
capacità di egemonia ideologica24
a
conferire al mainstream ambientalista la sua
forza ma anche quella di sostituirsi alle religioni come autorità
morale e di
giocare abilmente su piani in apparente palese contraddizione tra loro:
tra richiami emotivi, appelli ad una superiore
etica ambientale dall'afflato spiritualista, razionalismo scientifico
positivista e spietato spirito commerciale, il tutto senza
dover "pagare dazio". Significativa la capacità di far convivere (e di
usare come registri più convenienti in base all'occasione), lo
scientismo di matrice positivista darwiniana e una versione soft e
allusiva di quella religiosità della Madre terra, cosmica e panteistica
alla quale l'ecologismo "profondo" dichiara espressamente di aderire.
Questa è la forza del potere: la capacità egemonica, frutto di
abile e ambigua capacità di conciliare eterogenee ispirazioni ma anche
di penetrazione nei meccanismi di formazione del consenso e
dell'immaginario grazie al sostegno di schiere di intellettuali
ideologici operanti nel mondo dello spettacolo, dell'editoria,
dell'istruzione.
Dietro a questa capacità egemonica, come insegnava Gramsci, non c'è il
caso, la fortuna, l'abilità ma un blocco storico, nel nostro caso la
nuova classe capitalista transnazionale.
La
spettacolarizzazione della natura selvaggia come strumento di
consenso e di mercato
Nel
capitalismo neoliberale non c'è differenza tra intrattenimento,
propaganda, informazione. Tutto si paga, tutto è merce, anche gli
strumenti di creazione e mantenimento del consenso peraltro inglobati
dentro le merci stesse. Paghi anche le catene dorate del
consumismo. Le "aree
protette" sono il principale prodotto del
conservazionismo. Abbiamo già visto come esse, attraverso il
controllo centralizzato di vaste aree e un sistema mondiale ben
monitorato si prestino ottimamente a
garantire l'offerta di mercato aggregata dei titoli di carbonio,
biodiversità, PES ecc.
Le aree
protette sono, però, occasione
di altri business tutt'altro che trascurabili. La prima forma storica
di commercializzazione della “natura protetta” dai tempi di
Yosemite, il turismo, continua ad essere la più importante tra
grazie al passaggio dal turismo di elite all'ecoturismo accessibile
a strati intermedi (mentre il turismo d'avventura continua ad
alimentare l'offerta di nicchia)25.
Non importa poi se il turismo è la principale forma di "disturbo
antropico" nelle aree protette.
Il turismo è
trainato dalle produzioni multimediali. È dalla
nascita delle televisione che al telespettatore occidentale sono
somministrate dosi massive di documentari naturalistici. Queste
produzioni hanno creato i presupposti per l'ulteriore
spettacolarizzazione e commodificazione della natura ma hanno avuto
anche un ruolo strategico nella veicolazione dell'ideologia della
"natura incontaminata", a partire dal film incoronato da
Hollywood nel 1957: No place for
wild animals di Michael
Gzimek figlio di Bernhard autore di un omonimo libro dove, senza
fondamento scientifico, il direttore dello zoo di Amburgo attribuiva
ai pastori Masaai (a seguito di ciò cacciati dalle loro terre) la
responsabilità di una presenta drammatica riduzione della fauna.
L'oppio
del popolo viene somministrato grazie a forme di spettacolo e
comunicazione capaci di suscitare emozioni. Sul clichè dei primi
documentari per il cinema, la
televisione ha poi riproposto per decenni i documentari di Sir David
Attemborough e dei suoi cloni (ce ne sono stati anche in Italia) sino
ad arrivare alle trasmissioni di intrattenimento
ambiental-conservazionista alla Licia Colò. Il consumo più di massa
(cinema, tv) di "natura selvaggia" trascina a sua volta
l'editoria specializzata (National
Geographic e i suoi cloni come Airone)
genera un indotto di pubblicità per le Ong (donazioni,
affiliazioni), ma anche di destinazioni turistiche, abbigliamento
outdoor, attrezzature da campeggio, auto fuoristrada. Un non piccolo
consumismo "verde". C'è poi quel
mercato che gli addetti ai lavori non amano ricordare perché
riguarda loro stessi: i finanziamenti per i progetti di ricerca, i
contratti di consulenza, le opportunità di istruzione, viaggio,
riconoscimenti pubblici, avanzamenti di carriera26.
Un prodotto delle "aree protette" è anche il
green
washing. Wilfried Huismann, nel suo documentario e libro
inchiesta Pandaleaks the dark side of WWF 27
racconta come, con la benedizione
del WWF, grandi estensioni di foresta
indonesiana sono state trasformate in piantagioni di palma
(certificata "sostenibile" dal Panda), lasciando qua e là
delle ridotte aree protette. Lo stesso in Argentina dove il Parco
Nazionale Pizzarro compre solo 4 mila dei 20 mila ettari sui quali si
estendeva in precedenza l'area protetta, ora coltivati a soia ogm. Il
parco ha in dotazione solo una bicicletta anche se l'organizzazione
argentina Fundación Vida Silvestre,
associata al WWF e con questo in
stretta collaborazione28,
ricevette 167 mila dollari dal Global
Environment Fund per realizzare
un piano di gestione del parco. Il finanziamento è stato
completamente destinato a consulenze (deve succedere spesso).
Esibire
materiale filmico e fotografico delle aree protette è utile per
coprire operazioni a danno dell'ambiente esercitate (appena fuori dei
perimetri dell'area) da potenti gruppi economici29.
Attraverso il materiale filmico e fotografico dei paesaggi e della
fauna delle aree protette sono stati creati nuovi prodotti come
lo Starbucks
conservation coffe e il McDonald Endangered Species Happy Meals.
La
simbiosi tra consumismo e conservazione contribuisce alla diffusione
del messaggio rassicurante che sia sufficiente consumare per salvare
il pianeta. Con la postilla che è meglio consumare i prodotti della
grande multinazionale (che devolvono alle Ong parte dei ricavi e ne
ottengono le indulgenze ecologiche del caso) che quelli dei piccoli
produttori. Questi ultimi, se del caso, saranno protetti in qualche
riserva indiana del mercato equosolidale grazie alle relative linee
di prodotto delle multinazionali. Ovviamente il WWF presenta le cose
diversamente30,
ma la sostanza non cambia: la
protezione della natura passa per la
transazione tra qualche regola, facilmente sopportabile dal
bussiness, e il viatico del logo del panda o di qualche forum con la
partecipazione del WWF impresso ai prodotti.
La maggior competitività
dei prodotti benedetti come "sostenibili" rispetto agli
altri legata al loro appeal presso il pubblico "consapevole",
compenserà il costo
dell'uso del logo (la decima al WWF) e i costi aggiuntivi richiesti
per dare un ritocco cosmetico ai processi produttivi. Un meccanismo
win-win dove tutti ci guadagnano? Non proprio perché tra i
produttori non benedetti dai sacerdoti conservazionisti alcuni
potrebbero essere
effettivamente meno virtuosi, ma altri semplicemente piccoli produttori
che utilizzano canali di commercializzione diversi da quelli delle
grandi società. I grandi gruppi che hanno ricevuto le green label
dal WWF: Monsanto, Coca-Cola, Shell, HSBC, Cargill, BP, Alcoa, Maine
Harvest hanno beneficiato in termine di immagine ma il loro business
è rimasto pressoché invariato. Solo che mentre qulche anno fa
l'immagine delle multinazionali era molto negativa ora è stata
grandemente ripulita e le denunce contro il "business as usual" cadono
nel vuoto. Benedetto ambientalismo.
La
spettacolarizzazione cinica
La
spettacolarizzazione cinica, attenta all'estetica, al messaggio
emotivo e ai contenuti rassicuranti, unita al ruolo di testimonial
delle celebrità contribuisce alla condizione egemonica del
conservazionismo capitalista e riesce a nascondere ingiustizie e
conflitti così come i costi del consumismo globale e le
contraddizioni sociali e ambientali.
Immagioni
di paesaggi sconvolti, uomini e donne dall'aspetto esotico e
animali "carismatici"31
sono tutti soggetti commoventi (specie se cuccioli strappa lacrime)
utilizzati per proporre
soluzioni immediate a problemi urgenti e situazioni disperate
che solo la determinata Ong è in grado di affrontare32.
Vedi le campagne con gli orsi bianchi fanno credere che con i
necessari investimenti resi a loro volta possibili da generose
donazioni, o dal consumo di prodotti che prevedono la destinazione di
una quota al WWF, tutto si risolve o quasi. Queste campagne hanno un
altro scopo: far credere al pubblico che il WWF e soci, dipendano dai
contributi della gente comune, distrarre dalla realtà dei cospicui,
sostanziali finanziamenti dei governi, delle multinazionali (in forma
alla luce del sole e mimetizzata), delle fondazioni.
Grazie ad una
immagine inossidabile
le denunce, documentate, della truffe sottese al conservazionismo
capitalista, delle violenze, delle deportazioni dei
crimini commessi a danno delle comuinità contadine e dei popoli
tribali vengono facilmente rimosse e dimenticate in forza del potere
egemonico (oltre che in azioni specifiche messe in atto dalle ONG e
dagli altri soggetti che presiedono all'imbroglio ecologico).
Mentre
il WWF proclama di difendere gli oranghi concede alle piantagioni di
palma da olio che hanno sostituito la foresta e distrutto l'habita
degli oranghi, la patente di sostenibilità accettando che al posto
delle immense foreste di un tempo siano lasciati dei fazzoletti di
terra (in proporzione) con l'etichetta di area protetta.
Il già
citato Pandaleaks,
contro la cui uscita il WWF aveva opposto istanze legali, è stato per
un po' un best-seller in Germania ma non ha scalfito la sua immagine.
Il pubblico, in forza dell'immagine costruita intorno al WWF dagli
apparati mediatici e dal sistema di pubbliche relazioni
dell'organizzazione, tende a non credere agli scandali e alle denunce
che mettono sotto accusa il Panda. I pochi critici sono subissati da
un fuoco di accuse mentre nel mondo ambientalista vige
l'autocensura e raramente le altre Ong criticano in
pubblico il WWF per timore di ritorsioni33.
Tra
i giornalisti che hanno sperimentato il trattamento riservato dal WWF
ai suoi critici vi è il precedente famoso di Kevin Dowing. Nel 1989
Dowing rese pubblici i risultati di un rapporto interno al WWF
redatto da John Phillipson, un professore di Oxford, che
sosteneva come le azioni del WWF in Africa e in Cina (panda) fossero
risultate del tutto inefficaci. Per di più emergeva come dal 1961,
quando il WWF aveva iniziato la campagna di raccolta fondi a favore
del rinoceronte nero, al 1973 non un penny era stato speso per questo
scopo. Per far fronte alle conseguenze che queste rivelazioni
avrebbero potuto avere in termini di ridotte raccolte di fondi
WWF dovette creare una unità di crisi investendo 350 mila
sterline34.
Dowing aveva anche osato mettere a nudo vicende sensibili che
riguardavano i rapporti tra la corona e i servizi inglesi da una parte
e il WWF dall'altra.
In particolare l'impiego da parte del WWF di mercenari ex
appartenenti alla forze speciali inglesi (SAS) per organizzare in
Sudafrica unità paramilitari di lotta al bracconaggio a colpi di
esecuzioni sommarie. Di per sé inquietanti queste attività
risultavano intrecciate a quelle di addestramento delle formazioni
dell'UNITA (fazione armata mozambicana in lotta contro il MPLA,
quest'ultima di
ispirazione comunista) e di antiguerriglia ( sempre sotto le specie
della lotta al bracconaggio), contro l'ANC di Mandela (che, accolto tra
i potenti del mondo, ricevette
anni dopo la più alta onorificenza del WWF). Dowling fu pesantemente
denigrato e finì solo e dimenticato i suoi giorni. Monito per i
posteri.
Non
diversamente dai giornalisti anche gli studiosi che espongono
risultati negativi in termini di efficacia delle politiche
conservazioniste del WWF sono subissati di critiche. Il WWF è il
committente diretto o indiretto (attraverso finanziamenti alle
università e ai centri di ricerca) di una grande quantità di studi;
se poi si considerano anche quelli finanziati da partnership con i
parchi o altri enti con i quali il WWF collabora e ha influenza, non
è difficile comprendere come gli outsider che osano contraddicono
l'immagine del Panda rischino di diventare dei paria. Paul Jepson,
autore nel 2003 di un report indipendente sullo stato dell'elefante
asiatico35
riferisce che le sue osservazioni critiche non gli sono valse altro
che commenti negativi anche da parte dei suoi stessi colleghi e ne ha
tratto l'amara conclusione che It is
to no avail. People do have a
preference for believing that WWF is good.[Non ne vale la pena.
La gente preferisce credere che il WWF sia una cosa buona].
Diventa
ancora più arduo sottoporre a critica le "aree protette",
il simbolo, la legittimazione stessa delle ONG conservazioniste. Se
questa critica diventa accusa nei confronti delle aree
protette di operare in aperta violazione dei diritti umani e dei
diritti dei popoli indigeni e tradizionali, di essere causa di
ingiustizia sociale, povertà e violenza, allora la reazione dei
grandi interessi conservazionisti si fa durissima. Lo
testimonia quanto riferito dagli organizzatori di un seminario
svoltosi a Washington, presso il Department of Anthropology
dell'American University il 16-19 maggio 2008. Il seminario riuniva
gli appartenenti a una rete internazionale di studiosi e attivisti
preoccupati per i modi in cui la natura viene mercificata e
privatizzata in nome della conservazione della biodiversità, e per
le modalità con le quali le popolazioni locali vengono allontanate
dalle loro case o private dei loro mezzi tradizionali di
sostentamento in nome del conservazionismo36.
Le
persone appartenenti a questa piccola rete "disobbediente",
come essa stessa si definiva, erano
- come loro stessi dichiararono - state oggetto di censure, minacce
di azioni legali, contatti da parte dell'FBI, minacce di
licenziamento o di chiusura di canali di finanziamento della ricerca.
Non solo ma diversi partecipanti al workshop riferirono di essere
stati vittime di diffamazione, insulti e aggressioni verbali in forme
tali da far loro ritenere che dietro tutto ciò vi fosse
un'azione orchestrata con l'obiettivo di isolare e demoralizzare le
vittime e indurle a sensi di colpa, ad auto-interrogarsi rispetto
alle loro osservazioni sul campo e alle loro dichiarazioni37. La denuncia assume particolare
gravità perché proveniva
dall'interno di un mondo (università, Ong, charity) dove raramente
"volano gli stracci" in forma pubblica. Tra i
"disobbedienti" vi erano alcuni degli studiosi che avevano
partecipato al dibattito scientifico tra la fine degli anni '90 e i
primi anni del nuovo secolo aveva riguardato l'impatto delle
politiche conservazioniste e, in particolare, della creazione e
ampliamento delle aree protette, sulle popolazioni , a partire dal
fenomeno dei "rifugiati del conservazionismo" (si, ci
sono anche quelli, anche se sono tenuti nascosti, mentre si sbandierano
i rifugiati climatici).
I
guardiaparco finanziati e istruiti dalle Ong conservazioniste sono
spesso protagoniosti di esecuzioni sommarie a carico dei "bracconieri"
e delle espulsioni brutali di comunità già insediate su quelle che
vengono decretate nuove aree protette
Il
dibattito sui profughi del conservazionismo,
che era già
iniziato negli anni '90, vide un'accelerazione nel 2003 con il
Congresso mondiale sulle aree protette dell'IUCN a Durban in Sud
Africa. Qui vennero presentati contributi specifici sul tema dei
trasferimenti forzati tra i quali si segnala quello di Michael Cernea National
parks and poverty risks: Is population resettlement the solution?38.
Dopo anni di intense vicende e di molte pubblicazioni, meetinf,
workshop, il dibattito sul tema scottante e politicamente scorretto dei
conserservation
refugees ebbe termine nel 2009 , quando la rivista Conservation
and Society ha dedicato un
intero fascicolo al tema dei trasferimenti forzati di popolazioni con
il trasparente intento di "chiuderla lì".
Il dibattito ha
coinvolto dall'interno il mondo conservazionista scientifico
nella sua duplice componente di matrice biologica tradizionale
"pura" e socio-conservazionista, quest'ultima più legata
alle iniziative delle agenzie internazionali per lo "sviluppo"
(Banca mondiale, USAID), la prima direttamente alle grandi Ong
conservazioniste o attaverso gruppi di specialisti IUCN. Non si può
notare come ad aprire e a chiudere il
dibattito sul fascicolo dedicato da Conservation
and Society siano i
contributi di due autori 39
di cui uno affiliato alla WCS, una delle Ong, sia pure non tra le
principali, che viene messa sotto accusa dai difensori dei diritti
dei popoli indigeni. Traspare la volontà di stoppare il dibattito
una volta per tutte e il ruolo un po' imbarazzante di difensori
d'ufficio delle Ong (e di sé stessi) di alcuni dei partecipanti che
si appellano, in mancanza di meglio, alla constatazione che,
dopotutto, si dispone di poche centinaia di pubblicazioni (delle
quali si mette anche in dubbio la qualità) per migliaia e migliaia
di aree protette. Nella loro fredda ragionieristica
conservazionistiva l'aspetto “qualitativo” delle violenze contro
le più indifese comunità umane del pianeta, comunque documentate in
molte circostanze, viene svalutato in assenza di una più cospicua
messe di documentazione che mai potrà essere prodotta ma che viene
invocata solo come ipocrita al fine di tacitare una coscienza sociale
molto rilassata. I
conservazionisti fanno finta di non sapere che non ci sono, come per
altri argomenti per accattivanti, stuoli di fondazioni, agenzie
internazionali e sponsor vari desiderosi di finanziare lo studi di
un problema così scabroso come quello dei rifugiati causa dei parchi
o degli abusi a danno delle popolazioni indigene a causa della
presenza di aree protette.
Raramente su riviste scientifiche si assiste a
dibattiti così
accesi. Le posizioni, così come presentate dagli opposti
schieramenti nel 2009 erano inconciliabili: mentre i difensori
d'ufficio
delle BINGO, le Big Ong (facilmente reclutabili tra i molti scienziati
ad legati
direttamente o indirettamente) si appellavano, da bravi
azzeccagarbugli scientifici, alla "mancanza di dati", alla
"non sufficiente documentazione". I critici come Kai
Schmidt-Soltau rispondevano per le rime sulla base di esperienze
dirette. Esemplare il duello tra lo stesso Kai Schmidt-Soltau 40
e
Curran e coll.41
Essi sostenevano di non aver potuto verificare un singolo caso di
trasferimento forzato nei parchi oggetto dell'indagione di
Schmidt-Soltau (che ne contava 54 mila) al che quest'ultimo ribatteva
che quanto da lui
osservato era stato confermato anche da altri autori e commentava,
sbottando: This
stark discrepancy suggests that the critique was not produced in
scientific recognition and respect of facts by truthseeking
researchers and scientists. Rather, it appears to be a belated echo
of the old strategy of camoufl aging human rights violations under
the guise of the good and necessary cause of biodiversity
conservation [Questa
netta discrepanza suggerisce che la critica non è stata prodotta
sulla base di un riconoscimento scientifico e nel rispetto dei fatti
da ricercatori e scienziati in cerca della verità. Piuttosto, sembra
essere un'eco tardiva della vecchia strategia di camuffamento delle
violazioni dei diritti umani sotto le spoglie della buona e
necessaria causa della conservazione della biodiversità] 42
.
Non solo quindi accusava ai conservazionisti
"tradizionali"
(organici alle Ong) di "falso ideologico" ma anche di
conflitto di interessi, ovvero
di criticarlo per il timore di perdere i finanziamenti. Una
motivazione che traspariva dalla prima pubblicazione di Curran e coll.
che era stata affidata all' house
organ della stessa WCS (World Conservation
Society, la Ong conservazionista patrocinata dallo zoo del Bronx)43.
Merita di essere citata ancora una considerazione di
Schmidt-Soltau
perché mette a fuoco l'atteggiamento conservazionista: my
critics presume to know better than those affected what is best for
those living around protected areas. This is the old sad story of
some individuals who assume to have the right and the knowledge to
sacrifice other people and/or their livelihood for some greater good. [i
miei critici presumono di conoscere meglio dei diretti interessati
ciò che corrisponde al loro bene. Si tratta della vecchia storia di
quegli individui che presumono di avere il diritto e le conoscenze
adeguate per imporre ad altri di sacrificare essi stessi e i loro
mezzi di sussistenza in nome di un bene supremo].
Le
grandi organizzazioni conservazioniste: WWF, IC, TNC, WCS ( le BINGO)
sono sempre
più ricche e potenti e continuano a godere di un'ottima immagine
pubblica. Esse hanno deciso che le foglie di fico del "coinvolgimento
comunitario" e le preoccupazioni per l'impatto sociale e
culturale che, solo sulla carta, esse stesse ritengono importanti, sono
in realtà solo
perdite di tempo, intralci per il vero lavoro di conservazione. Per
salvare la biodiversità occorre, secondo le BINGO, tirare dritto
sulla base delle incontestabili indicazioni della scienza biologica.
Hard conservancy.
Questa,
ovviamente, è una posizione di comodo, che consente al
conservazionismo mainstream di gestire come "cosa propria", senza
interferenze,
l'immenso ambito delle aree protette mondiali e le strategie di
conservazione come loro feudi. Le ONG conservazioniste sanno bene che
le popolazioni
scacciate da un parco, sia che si insedino ai suoi confini che
altrove, tenderanno a danneggiare la biodiversità, sia per rivalsa
che per evitare di essere scacciate di nuovo. Meglio eliminare la
fauna a rischio che rischiare altre "riallocazioni"
forzate. Le critiche al conservazionismo hard che calpesta i diritti
umani individuali e collettivi non vanno contro la difesa della
biodiversità, vanno contro gli interessi consolidati delle
BINGO.
Biodiversità
e sviluppo sostenibile para todos?
Occorre
però tornare indietro di qualche anno per capire questa vicenda. Nel
1992, il ruolo delle popolazioni indigene nelle aree protette è
stato uno dei temi principali del IV Congresso mondiale di Caracas
sui parchi nazionali e le aree protette
della
IUCN Unione internazionale per la conservazione della natura (la ONG
ombrello che raccoglie tutte le organizzazioni ambientaliste ma che è
partecipata anche da rappresentanti di agenzie governative)44.
In seguito, la IUCN e il WWF hanno iniziato a produrre una serie di
documenti che riconoscono il valore della conoscenza tradizionale, la
necessità di rispettare le tradizioni indigene e l'importanza della
creazione di partnership 45.
Nell'ottobre 1996 vennero ufficialmente presentati da parte delle due
ONG i Principles
and Guidelines on Indigenous and Traditional Peoples and Protected
Areas 46.
Il documento riconosceva che le popolazioni indigene hanno spesso
apportato contributi significativi al mantenimento di molti degli
ecosistemi più fragili della terra
e che
esse dovrebbero essere considerate quali partner legittimi e
paritari (sic)
nello
sviluppo e nell'attuazione di strategie di conservazione che
riguardano le loro terre, territori, acque, mari costieri e altre
risorse, e in particolare nella creazione e gestione di aree
protette. Bontà loro! Anche
se il tono era paternalistico, almeno il documento indicava la
necessità di cogestione e rispetto per le popolazioni indigene e la
loro conoscenza dell'ambiente.
Le ONG
conservazioniste
parvero
inizialmente aderire alla nuova visione e iniziarono a progettare
programmi per operare in sintonia con le comunità locali47.
Anche gli sponsor, le fondazioni private e le agenzie
internazionali
spingevano in tale direzione sinbo al punto di spingersi a un
ripensamento del ruolo delle aree protette in grado di contemperare
conservazione e utilizzo sostenibile delle risorse 48.
Gli schemi che si rifacevano a questa impostazione erano ovviamente
influenzati dalla grande eco che in quegli anni stava conoscendo lo
slogan dello "sviluppo sostenibile" al quale tutti (o
quasi) - anche se su posizioni tra loro inconciliabili - volevano
rifarsi. Le iniziative ispirate al nuovo spirito di partenariato e
rispetto per la popolazioni locali vennero identificati come
“community-based conservation,” “integrated
conservation and development programs” (ICDPs) ecc. 49.
Tutto questo entusiasmo, in larga parte sostenuto dalla formula magica
dello "sviluppo sostenibile" era destinato ad evaporare ben presto.
Nel 199,9 presso il Refugee Study Centre in Oxford si
tenne una storica
conferenza dal titolo Displacement,
Forced Settlement and
Conservation50
che raccolse contributi sul tema da tutto il mondo. Nel 2003, al V
Congresso dei Parchi Mondiali di Durban, organizzato
dall'IUCN, la necessità di tenere conto dei diritti delle
popolazioni locali, nel decidere le modalità di gestione
delle aree protette, rappresentò uno degli elementi principali delle
discussioni e non mancarono aspre proteste contro gli effetti spesso
devastanti della conservazione della natura sulla società e la
capacità delle popolazioni povere di procurarsi i mezzi di
sussistenza51
. I “conservazionisti scientifici”, quantomeno almeno una parte di
essi, accolsero
con freddezza queste “intromissioni” ed ebbero la
sensazione che il meeting fosse stato sequestrato da forze estranee
che avevano violato il loro sacro recinto 52
Nel
giugno 2003, secondo quanto riferisce Mac Chapin (un antropologo
dell'Università del Colorado che si è occupato in profondità del
conflitto tra conservazionismo e diritti dei popoli indigeni), i
rappresentanti di importanti fondazioni amaericane, preoccupate per la
perdita di
biodiversità sul pianeta e impegnate in generosi finanziamenti in
progetti atti a contrastarla, si riunirono in South Dakota per una
sessione del gruppo consultivo sulla biodiversità53.
Al secondo giorno diversi dei partecipanti si incontrarono per
affrontare un problema che era per loro causa di crescente disagio,
ovvero le segnalazioni di veri e propri abusi contro le comunità
locali commessi dalle tre maggior ONG conservazioniste (WWF, CI e
TNC), contro le popolazioni tribali e tradizionali e la loro
crescente esclusione (altro che “partecipazione”) dai programmi
di conservazione. Quello che infastidiva i rappresentanti delle
fondazioni era il fatto che le ONG in questione avessero ricevuto da
loro stesse stesse milioni e milioni di dollari. CI,
Conservancy International, fondata nel 1987 con personale
“scissionista” del WWF, era stata lanciata grazie al sostegno delle
fondazioni.
Jeff
Campbell della Ford Foundation si incaricò di svolgere due studi
sulle relazioni tra le ONG conservazioniste e i popoli indigeni,
mentre gli altri membri del gruppo di indagare sui bilanci delle
stesse. Lo studio della Fondazione Ford (Study on Critical New
Conservation Issues in the Global South)
conteneva due
indicazioni chiave: 1) le ONG in questione erano diventate molto
rapidamente più ricche e più grandi; 2) erano implicate in una
serie di contenziosi non solo con comunità indigene ma anche con ONG
nazionali e gruppi di attivisti per i diritti dei popoli. Due membri
del consiglio di amministrazione della fondazione Ford: Yolanda
Kakabadse,
presidente del IUCN, e Kathryn Fuller, presidente del WWF decisero
che lo studio non dovesse essere divulgato. Non doveva neppure essere
trasmesso ufficialmente ai funzionari della fondazione stessa che,
però, ebbero la possibilità di leggerlo. Il grande pubblico non
venne mai a sapere nulla di questo scontro aspro all'interno dei
centri di potere. Nell'aprile 2004 si tenne un incontro di quattro
giorni tra le ONG e le grandi fondazioni finanziatrici (rappresentate
dagli stessi presenti in South Dakota l'anno precedente) . Questa
volta oltre ai tre big si aggiunsero WCS e IUCN . Tutte le ONG erano
rappresentate al vertice. Dei popoli indigeni neppure l'ombra. Toccò
ai rappresentanti delle fondazioni, la facciata umanitaria e
altruistica del capitalismo, sostenere la causa dei popoli indigeni.
Uno di questi rappresentanti rinfacciò alle ONG di stare dalla parte
delle multinazionali, in modo particolare quando sono loro sponsor,
mentre i popoli indigeni si oppongono alle loro azioni di estrazione
di risorse da ecosistemi fragili. Le ONG ribatterono sdegnate: “non
facciamo politica”. Le ONG difesero senza cedimenti la loro
posizione accusando le fondazioni di “dare credito agli attivisti”.
Pur contenendo l'aggressività verbale entro i limiti della buona
educazione le ONG non si dimostrarono affatto compiacenti verso
coloro che li finanziavano. Nel frattempo, infatti, erano
riuscite ad essere foraggiate in forma più ampia dalle stesse
multinazionali. Il meeting si concluse rimandando ogni decisione. Ma la
riunione successiva, nel giugno 2004, si risolse in discussioni
inconcludenti. Tutto finì in nulla perché anche le fondazioni
avevano problemi aperti, dovendo tra l'altro rispondere (Ford) a un
comitato parlamentare del congresso americano dell'uso dei fondi per
il sostegno di gruppi politici estremisti e per vari conflitti di
interessi. La
morale di questo interessante scontro tra la componente più
“buonista” del sistema capitalistico (le fondazioni) e le Ong
conservazioniste è che il peso di queste ultime all'interno del
sistema è tanto cresciuto che esse possono rapportarsi direttamente
alle corporation, trattando le fondazioni con sufficienza.
Archiviato
lo scontro con le fondazioni le ONG conservazioniste ,
nel novembre 2004, al World Conservation Congress dell'IUCN a
Bangkok, affollato di 6 mila conservazionisti convenuti da tutto il
mondo, dovettero confrontarsi con nuove imbarazzanti proteste. Il capo
Maasai
Martin Saning'o, si presentò a una sessione del congresso
dichiarando, davanti a una platea di facce bianche attonite: Noi
siamo nemici della conservazione.
Di più: Non
vogliamo essere come voi, voi dovete essere come noi, noi siamo qui
per farvi cambiare idea, non potete ottenere risultati nella
conservazione senza di noi.
La protesta di Saning'o poteva essere considerata la punta
dell'iceberg di un movimento di popoli indigeni che si sentono
“rifugiati della conservazione”, ovvero cacciati a forza o con
vari mezzi di coercizione e persuasione dalle loro sedi per
“liberare” della loro presenza disturbatrice (per definizione di
wilderness) le aree protette. Una "evacuazione" che - a volte
formalmente presa da governi o Ong locali - presuppone il
coinvolgimento diretto (o quanto meno il tacito consenso) delle BINGO
senza che, dall'altra parte, i diretti
interessati siano coinvolti nelle decisioni sul loro destino54.
Ormai
erano chiari i segnali che, almeno presso alcuni ambienti più
informati, la favola del conservazionismo eroico, disinteressato e
generoso si stesse sgretolando. The
unpopularity of protected areas has come as an unwelcome shock for
many conservationists. For years conservation has enjoyed the moral
high ground. It was saving the planet, rescuing species from
extinction, and taking a stand against the rapacious consumption of
resources by one virulent species. This image of ‘global good guys’
is not only an important part of conservationists’ own
self-perceptions, it is also essential to the image of large
conservation organizations in their fund-raising appeals. Now these
same organisations find themselves engaged in publicity battles, the
negative consequences of which could be particularly damaging to
their institutional wellbeing.
[L'impopolarità delle aree protette è diventata uno shock sgradito
per molti ambientalisti. Per anni la conservazione ha goduto di un
alta considerazione morale. Stava salvando il pianeta, salvando le
specie dall'estinzione e prendendo posizione contro il rapace consumo
di risorse da parte di una specie virulenta. Questa immagine dei
"bravi ragazzi globali" non è solo una parte importante
dell'auto-percezione dei conservazionisti, ma è anche essenziale per
l'immagine delle grandi organizzazioni di conservazione nei loro
appelli per la raccolta di fondi. Ora queste stesse organizzazioni si
trovano impegnate in dispute pubbliche le cui conseguenze negative
potrebbero essere particolarmente dannose per il loro benessere
istituzionale]55.
L'Accordo
di Durban del 2005, elaborato dalla IUCN come risultato del Congresso
del 2004 56
andava ancora oltre sollecitando
le istituzioni e gli stati
a coinvolgere direttamente le comunità locali nella
creazione di aree protette. Queste raccomandazioni erano però
inserite nel contesto di una pletora interminabile di raccomandazioni
buoniste che ne denunciava il carattere di meri auspici e apparivano
comunque ormai superate dal nuovo atteggiamento delle grosse ONG
conservazionistre che – del
tutto insensibili alle critiche e infastidite da tutti quei vuoti
richiami all'attenzione alle popolazioni locali, stavano
riposizionandosi su un terreno "preservazionista" ovvero un
ritorno al conservazionismo duro e puro con programmatica esclusione
di presenza e attività umana nelle aree protette da difendere come
fortezze (e non in senso metaforico) 57.
L'insuccesso
delle iniziative all'insegna dello "sviluppo sostenibile" e
del coinvolgiomento delle popolazioni era inevitabile se si pensa
che le organizzazioni conservazioniste non solo non erano
attrezzate culturalmente e professionalmente per affrontare
problematiche socioculturali ma che, al di là di formali
accondiscendenze nei confronti delle agenzie internazionali e dei
vari sponsor, mantennero un approccio tecnocratico immutato ai
problemi. Le severe
critiche ai promotori, agli sponsor e agli attuatori dei progetti di
"community based conservation" f non tenevano conto
che, almeno nel caso in cui fossero implicate le grandi ONG
conservazioniste, era da ascrivere a loro responsabilità il
fallimento di programmi "partecipati"nei quali le comunità indigene non
erano
state realmente coinvolte58.
Esse sfruttarono questi fallimenti di cui erano almeno in parte
responsabili, per qualificare (non senza ragione) come "espediente
politico" la "moda" dell'uso sostenibile delle risorse
come strumento per proteggerle e tutta la retorica delle soluzioni
win-win 59.
Le
BINGO conservazioniste internazionali: WWF, TNC (The
nature concervancy), WWF, IC (International conservacy) WCS
(World conservancy society), rivendicavano che la tutela della
biodiversità doveva essere ricondotta a an
enterprise based on sound science [un
impresa basata sulla scienza sana]60
secondo l'approccio scientista e tecnocratico che ritiene che ogni
contaminazione con questioni politiche e sociali “contamini” la
scienza conservazionista. (come se essa non si muovesse in un vuoto
pneumatico sterilizzato dalle visioni, degli interessi, relazioni
sociali che, invece, condizionano gli elementi assiomatici del
paradigma stesso di ogni discorso scientifico, nel caso del
conservazionismo l'assunzione della separazione tra natura e cultura,
un costrutto sociale della modernità occidentale ignoto alle culture
extra-europee. Il riferimento alla scienza è anche
strumentale, evocativo di una competenza e autorità superiore alle
conoscenze delle persone comuni, alle quali inchinarsi con deferenza.
Un modo efficace per nascondere l'autoreferenzialità
conservazionista, la sua pretesa di considerare la difesa della
biodiversità un ambito esclusivo entro il quale le ONG e i loro
scienziati non devono subire "interferenze" di nessun
genere. Loro, i manovratori, non devono essere disturbati mentre
giocano al demiurgo, a Dio nel gran teatro della natura. Neppure gli
sponsor non
devono farsi troppe domande e troppi scrupoli: il “mestiere” è
affare delle ONG e dei loro staff scientifici e organizzativi; solo
loro possono farlo.
Mac
Chapin riferisce che un biologo di CI (Conservancy international) che
opera presso le tribù indios in Brasile ebbe occasione di esporgli il
suo
franco pensiero I don’t
care what the Indians want. We have to work to conserve the
biodiversity [Non me ne
importa di ciò che vogliono gli Indios. Noi dobbiamo lavorare per
conservare la
biodiversità]61.
Un atteggiamento quantomeno non
ipocrita.
Chapin riferisce che: «They see
themselves as
scientists doing God’s work,» says one critic, pointing out the
conservationists’ sense of « a divine mission to save the Earth.»
Armed with science, they define the terms of engagement. Then they
invite the indigenous residents to participate in the agenda that
they have laid out. If the indigenous peoples don’t like the
agenda, they will simply be ignored. ["Si
sentono come scienziati che stanno operando alla maniera di Dio"
osserva un critico che sottolinea il senso di "missione divina
per salvare la terra" . Armati di scienza essi definiscono i
termini dell'accordo. Quindi invitano gli indigeni residenti a
partecipare ad un programma che è già stato predisposto. Se agli
indigeni il menù non piace, essi saranno ignorati"62.
La
denuncia di deportazioni, abusi e violenze a danno delle popolazioni
in relazione alle politiche delle aree protette non è peraltro
cessata. Attivisti e Ong come Survival
internationalhanno
continuato la campagna aprendo anche, come vedremo oltre, dei
contenziosi con il WWF. Il mainstream conservazionista è ovviamente
irritato delle prese di posizione dei popoli indigeni e delle
organizzazioni che svolgono attività di advocacy nei loro confronti
(anche se sono punture di spillo, tiri di fionda contro i panzer).
Steven Sanderson, presidente della WCS è tra i
molti che è
ritengono che sollavare la questione dei diritti individuali e
collettivi di chi viene cacciato dalle foreste dove viveva da
migliaia di anni metta a rischio la conservazione delle foreste
stesse. Forest peoples and their
representatives may speak for the forest,
[...] They may speak for their version of the forest; but they do not
speak for the forest we want to conserve.
[I popoli delle foreste e i loro rappresentanti possono parlare a
nome della foresta. Essi in realtà parlano in nome della loro
visione di foresta, ma non parlano per la foresta che noi vogliamo
conservare]63.
Noi, i conservazionisti superuomini onniscenti e previdenti dobboamo
decidere cosa e come conservare. Una
dichiarazione che rappresenta la quintessenza dell'ideologia
conservazionista che maschera visioni e interessi di precisi attori
sociali per “necessità ecologiche scientificamente
incontestabili”. Il “parlare a nome della foresta” è infatti
legittimato nel contesto del paradigma dominante
razionalista-positivista che consente all'esperto, al sacerdote della
scienza, di vaticinare ciò che è giusto e meglio fare come se
fosse la natura stessa a parlare. Un'illusione più sofisticata
(messa bene in luce da Bruno Latour64)
ma in realtà non molto dissimile da quella degli antichi aruspici e
indovini. Si tratta di avere le chiavi per far parlare la natura. Ma
solo gli iniziati le possiedono.
Le varie categorie di sacerdoti, in realtà vaticinano quello che
desiderano e che corrisponde ai loro interessi e a quelli dei gruppi
sociali e di potere con i quali si identificano. Ovviamente la loro
forza consiste in un gioco delle ombre da caverna platonica per
nascondere questa prosaica realtà.
Fortunatamente
per i conservazionisti la foresta non può parlare direttamente e
smentirli. Parlano però i tanti insuccessi in termini di tutela
della
biodiversità delle politiche di parco-fortezza, di natura sotto la
campana di vetro, di irrisolti conflitti con le popolazioni dentro e
ai limiti delle aree protette, di arroganza con la quale si liquidano
le conoscenze e le pratiche millenarie di popoli che sono stati
capaci di vivere in sintonia, rispetto ed equilibrio con il loro
habitat naturale.
Le
"aree protette" rappresentano un core business per le
grandi ONG conservazioniste ma anche il terreno della collaborazione
tra capitalismo e conservazionismo e si capisce bene perché
reagiscano con durezza agli attacchi, specie a quelli più insidiosi.
Le aree protette rappresentano già 20 milioni di kmq, il 15% della
superficie terrestre65.
L'obiettivo cui tendono le
organizzazioni conservazioniste per il
2020 è quello del 17% di aree protette terrestri. Quello a lungo
termine non è dichiarato espressamente anche se alcuni scienziati
conservazionisti si spingono ad auspicare che il 50%, la metà, della
superficie
terrestre sia gestito come "area protetta"66
. La superficie delle aree protette continua in effetti ad aumentare67dall' 11.5%
al 12,9% tra
il 2003
e il 2005, dal 14,8
al 15% tra il 2016 e il 2017. Nel mentre diminuiscono le
foreste (dal 31,6 al 30,6% tra il 1990
e il 2015) e le terre agricole (dal 38,1 a 37,2% tra il 2000 e il
2015) e aumentano le terre
abbandonate e in via di spopolamento a causa dell'esodo rurale che
porterà il 70% delle popolazione mondiale ad abitare in grandi città
entro il 205068.
C'è un disegno preciso del capitalismo globale per ripartire il pianeta
tra formicai umani e aree protette disabitate entrambe saldamente
controllate? Forse, però, anche se non ci fosse, pare che la direzione
di marcia sia quella. E bisogna fermarla fin che si è in tempo.
Disegno
consapevole o portato della logica del tardo capitalismo, la tendenza
alla polarizzazione tra aree protette e aree super abitate e super
coltivate porterà come risultato la
rinaturalizzazione di molte superfici abbandonate o in vario modo
disturbate69.
L'ambientalismo vede in queste prospettive degli sviluppi positivi
fingendo di non considerare e o sottovalutando diversi aspetti
problematici: innanzitutto lo sviluppo di megalopoli determina enormi
fabbisogni di acqua pulita, cibo ed energia che devono essere
trasportati su lunghe distanze. Costretta in
aree sempre più ristrette e artificializzate l'umanità, secondo gli
auspici dei conservazionisti – che non
hanno mai rinnegato le idee malthusiane - raggiunto il picco di 9
o
10 miliardi di esseri umani, comincerà a declinare e a ridurre il
suo “disturbo”. Ma l'espulsione dell'uomo da una larga parte
delle superfici del pianeta già sottoposte ad influssi antropici
sarà la panacea che i conservazionisti auspicano? C'è da credere
alla rigenerazione della natura lasciata a sé stressa o si tratta
di misticismo pericoloso? Negli ecosistemi fragili (scarsa piovosità)
dove il suolo subisce compattamento, è soggetto ad erosione la
rinaturalizzazione delle aree abbandonate o soggette a pesanti
disturbi può richiedere secoli o persino millenni. In funzione delle
variabili considerate la stessa tipica foresta pluviale impiega 20-200
anni
per ricostituirsi70.
Tempi lunghissimi invece, si
riscontrano in aree aride e
desertiche71.
Tra
i fattori che rendono imprevedibile i tempi e le possibilità di
recupero di terreni abbandonati e degradati vi è il
peso crescente dell'influenza delle piante invasive rende (la
rimozione di alcune invasive apre la strada ad altre invasive
nel contesto di un impossibile equilibrio72 .
In generale anche l'ecologia è soggetta a quelle incertezze
probabilistiche, a quelle realtà di equilibri instabili che
caratterizza la realtà fisica.
Solo una narrazione ideologica, il
mito del “ritorno alla natura incontaminata”, può far credere
che nel movimento planetario di organismi, accelerato dalla nascita
dell'uomo e poi dalla modernità, una fetta di superficie terrestre
possa tornare quella che era dopo l'ultima glaciazione. Ma chi
garantisce che sottrarre grandi estensioni di superficie terrestre
alle attività umane migliori la salute degli ecosistemi terrestri?
Molti indicatori fanno ritenere che vi sarebbero peggioramenti.
La
concentrazione delle attività produttive in aree ad alta “vocazione”
(sulla base di parametri economici e non ecologici, attenzione) può
portare a disastri ambientali. Le acque costiere del Golfo del
Messico a causa dell'eutrofizzazione legata ai reflui zootecnici
stanno letteralmente morendo. Comprimere ulteriormente l'attività
di contadini e pastori amplia il world food system capitalistico,
controllato dalle multinazionali (tra le quali alcune che
sponsorizzano le Ong conservazioniste) ma toglie di mezzo quei
sistemi colturali e di allevamento che non utilizzano concimi
chimici e pesticidi, che riciclano ancora oggi in modo efficace
energia e materia grazie a cicli ecoeconomici circolari.
La perdita
di terre dei popoli indigeni e delle comunità rurali contadine non
colpisce, anzi favorisce le attività industriali: l'agricoltura
industriale, l'attività forestale industriale, l'estrazione
mineraria industriale. La riduzione ulteriore dello spazio
dell'economia di sussistenza crea nuovi spazi al mercato delle
commodities alimentari e di altro genere e rende localmente
disponibili nuova mano d'opera a basso costo. La riduzione degli
spazi dell'economia contadina "mista" (in parte orientata
al mercato) riduce ancora di più la limitata concorrenza delle
produzioni artigianali al monopolio delle multinazionali. Per di più
le "aree protette", dopo che sono stati cacciate le
popolazioni che le utilizzavano da millenni, oltre ad essere
utilizzate per l'ecoturismo e il bioprospecting sono spesso concesse in
uso
a grandi società minerarie e di commercio del legname come
testimoniano le vicende africane. Difficile non vedere nella tendenza
a stringere nella morsa tra "aree protette" da una parte,
aree urbane e ad agricoltura industriale dall'altra, una tendenza di
fondo del capitalismo, incoraggioata, agevolata, benedetta dal
conservazionismo.
Solo una fede cieca nella religione
conservazionista e una colossale ingenuità possono far ignorare che il
controllo sulle aree protette da parte delle ONG equivale a una forma
di privatizzazione. in linea con il neoliberalismo aggressivo. Va
infatti ribadito che, specie in Africa, il controllo governativo della
gestione delle aree protette e la proprietà governativa delle stesse
sono solo delle maschere che nascondono l'incapacità di governi, la
mancanza di capacità organizzative e di funzionari competenti, la
corruzione. In questo contesto essi delegano alle ONG la loro
sovranità.
Questi aspetti della governance politica contemporanea dell'Africa post
(?) coloniale sono stei messi in evidenza da Mbebe 73
A parte l'uso spesso
discutibile delle aree protette, fosse anche solo per le presenze
turistiche (i fuoristrada e la presenza dei turisti non disturbano
la fauna?) si dovrebbe anche valutare quali siano stati i successi
delle organizzazioni conservazionistiche che ne hanno voluto
l'istituzione e che spesso gestiscono direttamente o indirettamente
le aree stesse. L'aumento delle aree protette ha contribuito
efficacemente o no alla salvaguardia di specie in via di estinzione e
alla difesa globale della biodiversità? Se si guarda ad alcuni dati
oggettivi si direbbe di no. Venter et al. 74
hanno stabilito che il 17% delle 4.118 specie di vertebrati a rischio
di estinzione non è presente in alcun parco e che l'85% di queste
specie non è comunque adeguatamente coperto nell'insieme delle aree
protette. Risultati simili erano stati ottenuti da uno studio
internazionale che arrivava alla conclusione che il 12% delle specie
non sono presenti nelle aree protette e che il 25% non sono presenti
in nessun area di superficie maggiore di 1000 ha o nelle categorie da
I a IV dell'IUNC, ovvero quelle che assicurano maggior protezione 75.
La scarsa dimensione delle riserve protette e il disturbo turistico
impattano in modo importante sulle presenze di specie di mammiferi 76.
Tabella - Classificazione delle aree protette secondo
la IUCN
ategoria
IUCN |
Denominazione |
Caratteristiche |
Categoria Ia |
Riserva
naturale integrale |
Area
protetta finalizzata alla ricerca scientifica e al monitoraggio
ambientale. |
Categoria
Ib |
Area
selvaggia |
Area
protetta finalizzata alla protezione della selvaticità delle specie
animali e vegetali. Vasta area di terra o di mare che mantiene le
proprie caratteristiche naturali, senza insediamenti umani permanenti o
significativi, che è protetta e amministrata in modo da preservare la
sua condizione naturale. |
Categoria
II |
Parco
nazionale |
Area
protetta finalizzata alla protezione di un ecosistema con possibilità
di fruizione a scopo ricreativo |
Categoria
III |
Monumento
naturale |
Area
protetta finalizzata alla conservazione di specifici elementi naturali
giudicati di particolare valore per la loro rarità, rappresentatività o
per particolari qualità estetiche o significati culturali. |
Categoria
IV |
Area
di conservazione di Habitat/Specie |
Area
protetta oggetto di intervento attivo a fini gestionali, in modo da
garantire il mantenimento degli habitat e/o per soddisfare i requisiti
di specie specifiche. |
Categoria
V |
Paesaggio
terrestre/marino protetto |
Area
protetta finalizzata alla protezione e fruizione di aree, marine o
terrestri, nelle quali le interazioni tra popolazioni e natura hanno
dato vita, nel tempo, a elementi di particolare valore estetico,
ecologico e/o culturale. |
Categoria VI |
Area
protetta per la gestione sostenibile delle risorse |
Area
protetta finalizzata all'uso sostenibile degli ecosistemi naturali in
cui la conservazione della biodiverità si
coniuga con la produzione di prodotti naturali in grado di soddisfare
le esigenze delle popolazioni locali. |
Perché
le aree protette non sono così efficaci? La causa è riconducibile
alle motivazioni, prevalentemente politiche, che portano alla
creazione dei parchi , cresciuti al di fuori di un disegno
strategico. Molta superficie terrestre è controllata dalle lobby
conservazioniste che gestiscono molte risorse per finalità diverse
dalla tutela della biodiversità (autopromozione, educazione,
turismo). Così c'è una evidente proporzione tra la grande
estensione di aree protette in Europa e zone temperate e altre
regioni ecologiche più ricche di biodiversità . Vi è però un aspetto
ancora pèiù importate, più strutturale: i parchi sono stati concepiti
come fortezze, avolte fisicamente recintati.
Un grande studio collettivo sulla
salute delle aree protette mondiali, apparso nel 2012
sulla prestigiosa rivista Nature 77 metteva
in evidenza come in metà delle aree protette tropicali esaminate si
registrasse una grave perdita di biodiversità. Il fattore principale
del deterioramento delle aree protette, peraltro esposte ai fattori
climatici planetari, risultava rappresentato dalla qualità della
copertura vegetale al di fuori del perimetro dei parchi. La conclusione
degli autori era che: Crucially, environmental changes
immediately outside
reserves seemed nearly as important as those inside in determining
their ecological fate, with changes inside reserves strongly mirroring
those occurring around them. These findings suggest that tropical
protected areas are often intimately linked ecologically to their
surrounding habitats, and that a failure to stem broad-scale loss
and degradation of such habitats could sharply increase the
likelihood of serious biodiversity declines. [ Il
fatto fondamentale è che i cambiamenti ambientali, immediatamente al di
fuori delle riserve, risultano quasi altrettanto importanti di quelli
all'interno nel determinare il loro destino ecologico; esso rispecchia
da vicino le trasformazioni che si verificano nelle aree circostanti.
Questi risultati suggeriscono che le aree tropicali protette sono
spesso intimamente collegate ecologicamente agli habitat circostanti, e
che il fallimento nell'arginare la perdita e il degrado su larga scala
di tali habitat potrebbe aumentare drasticamente la probabilità di una
grave diminuzione della biodiversità].
Che
senso hanno allora i "parchi fortezza"? Non è più saggio operare in
sintonia con le popolazioni dentro e fguori i perimetri dei parchi?
Quando una Ong conservazionista saluta come una vittoria il ritaglio di
un'area protetta circondata da piantagioni o aree di intenso
sfruttamento delle risorse forestali,
perpetua un conservazionismo ipocrita
che nasconde dietro il costante aumento
quantitativo delle superfici protette, la collusione con il capitalismo
predatorio.
Baraccopoli
di "profughi della tigre" abitanti del villaggio di
Kathbagai trasferiti a casa della creazione di una nuova riserva
integrale pert la protezione della tigre nell'ambito di un parco
Se
si guarda a una delle singole specie maggiormente oggetto di
protezione, la tigre, si constata che, in India, dal
2006, al 2010 le tigri - grazie ad aggressive politiche
conservazioniste - sono aumentate da 1.411 a 1706 esemplari,
per salire ulteriormente a 2.226 nel 2014. Per ottenere questo
sono state istituiti 50
tra parchi e riserve con costi sociali pesantissimi (espulsioni
di milioni di persone). L'efficacia, tenendo conto anche delle
ingenti risorse finanziarie mobilitatr, appare bassissima. Oltre
a chiedersi quali risultati sono stati ottenuti è doveroso chiedersi
anche a che prezzo. Quale quota delle risorse mobilitate dalle grandi
organizzazioni conservazioniste globali sono state effettivamente
destinate alla tetela della biodiversità e quante a finanziare le
campagne propagandistiche, le attività lobbystiche e l'apparato?
Quando
la difesa della natura implica la deportazione, l'esproprio, lo
sradicamento culturale, la marginalizzazione sociale
Ancora
più importante dell'efficacia (tutt'altro che certa e dimostrata)
delle aree protette è la valutazione dei costi sociali e culturali
del conservazionismo. Le aree protette continuano ad espandersi ma la
gran parte delle superfici interessate sono abitate78.
Spesso da popolazioni “invisibili” ovvero sparse di
cacciatori-raccoglitori o nomadi vittime di deportazione e violenza
senza che nessuno se ne accorga. Per le Ong conservazioniste
queste
popolazioni, non avendo insediamenti permanenti non esistono, quindi,
quando sono scacciate, o non si consente più loro di utilizzare
foreste e pascoli, non si deve contabilizzare alcun esproprio (la
proprietà della terra non agricola è governativa), alcun
trasferimento forzato, alcuna perdita di accesso alle risorse79.
I territori dai quali vengono cacciati questi gruppi umani erano però
la loro casa, la
loro base di sussistenza. La stessa IUCN
è arrivata alla conclusione che policies
which ignore the presence of people within national parks are doomed
to failure
[strategie che ignorano la presenza della popolazione nei parchi sono
destinate al fallimento]80.
Quante belle parole. Valgono meno della carta sulla quale sono scritte.
Queste belle parole si sono risentite in effetti ancora al congresso
del 2016 a Honolulu. Ma nella grande fiera del conservazionismo (10
mila partecipanti), con 120 risoluzioni sui temi più disparati, le
prese di posizione a favore dei popoli indigeni hanno rappresentato
solo una "sfumatura", una "sensibilità particolare", che non preoccupa
certo le BINGO, pronte, sulla carta, ad aderire a ogni dichiarazione
buonista.
L'ideologia
conservazionista della wilderness, che cerca di
far apparire “spopolate” terre che ospitano comunità umane
portatrici di una preziosa diversità culturale, non è solo una
pretesa furba per evitare “noie” con gli indigeni, per evitare di
trattare con loro e dover
pagare indennizzi. Bockington
osserva che cancellare la memoria dell'antico insediamento di una
popolazione in un'area dichiarata protetta è parte e premessa del
meccanismo di spoliazione e di perdita di capacità di incidere sul
proprio futuro di
una comunità (disempowerment)
e precisa: Celebrating
and proclaiming former homelands as wilderness denies people’s
place in these landscape. It thereby reduces the political space
available to them as they attempt to reclaim lost lands.
[celebrare e proclamare che quella che era la sede ancestrale di un
popolo è in realtà wilderness riduce le possibilità di azione
politica e mette in condizione il popolo stesso di reclamare con più
difficoltà la propria terra]81.
Presentare
un'area ma sottoporre a protezione come a un'area di wilderness
risponde quindi
a finalità di ordine ideologico, politico e pratico. Indubbiamente
fa comodo ai conservazionisti lasciar credere che nei progettati
parchi non vi sia nessuna o quasi presenza umana ma ovviamente
rappresenta un elemento di continuità e di autorafforzamento
dell'ideologia. Non importa se, come è facile constatare anche nella
sociologia quotidiana il concetto di territorio incontaminato, non
addomesticato rappresenta una percezione urbana, il punto di vista di
persone che sono state staccate profondamente dall'ambiente naturale
dal quale dipendono 82
. In realtà quasi tutta la superficie
terrestre è stata abitata e
modificata dall'uomo e anche alte densità di popolazione possono
essere compatibili con la vita selvatica. Di più si osserva anche che
nei più vari ambienti
ecologici si riscontra una forma di gestione da parte delle
popolazioni83.
In realtà è più facile che un
territorio sia oggetto di degrado
quando è esclusa la popolazione rispetto a quando essa è presente.
Ovviamente, come osservano Pimber e Pretti: This
reasoning represents a complete reversal for conservation policy. It
suggests that the mythical pristine environment exists only in our
imagination.
[Questo modo di pensare costituisce un ribaltamento della strategia
conservazionista. Esso ci indica che il mitico ambiente
primordiale esiste solo nella nostra immaginazione] 84
Non
si deve pensare, però, che il fenomeno dei profughi del
conservazionismo riguardi solo territori a bassa densità di
popolazione. Esso si riscontra in ogni continente, in condizioni di
popolamento molto diverse. Per nascondere la realtà dei
trasferimenti forzati dove è ben difficile farlo e sono in gioco
decine o centinaia di migliaia di persone e non poche migliaia, gli
stati e le Ong giocano sulle sfumature semantiche. Chiamano i
trasferimenti forzati in altro modo, li nascondono con giochi di
prestigio, loro e i loro compiacenti scienziati.
La
Banca Mondiale85ha
però fornito una definizione dei trasferimenti forzati (chiamiamoli
così se “deportazione” da fastidio) che tende a comprendere anche
la fattispecie dell'allontanamento “spontaneo” dalle sedi
ancestrali a seguito della proibizione di utilizzare le risorse del
territorio secondo le modalità tradizionali:
- trasferimento
o perdita di abitazione;
- perdita
di risorse o di accesso alle risorse86;
- perdita
di opportunità di reddito o di mezzi di sussistenza anche
quando i soggetti interessati non sono costretti a spostarsi in nuovi
insediamenti ma subiscono l'impatto negativo del divieto legale di
accesso alle aree protette
in termini di procacciamento di mezzi di
sussistenza.
Come
si vede la definizione della Banca mondiale non lascia spazio
all'ipocrisia conservazionistica. Dal punto di vista della
volontarietà o meno del trasferimento Antoine Lasgorceix e Ashish
Kothari, che hanno studiato la realtà dei trasferimenti indotti
dalla realizzazione delle aree protette in India87,
distinguono tra:
- Trasferimento
volontario: quando le comunità o le famiglie interessate da sole, e
indipendentemente da situazioni create dall'area, protetta chiedono il
trasferimento;
- Trasferimento
forzato: quando avviene nonostante l'opposizione o la riluttanza delle
comunità o delle famiglie interessate;
- Trasferimento indotto: quando la
ricollocazione è voluta dalle comunità
o dalle famiglie interessate a causa delle circostanze create dall'area
protetta (da sola o in combinazione con altri fattori). Queste
circostanze potrebbero includere forti pressioni e vessazioni da parte
di funzionari, impedimenti all'accesso a di risorse naturali essenziali
per il sostentamento, negazione delle opportunità minime di sviluppo .
In
ogni caso molti trasferimenti sono realizzati manu militari o ad
opera delle forze governative (il cui unico ruolo spesso è quello
sporco della repressione) o dai guardiaparco (vere milizie armate).
Nel corridoio faunistico di Kibale in Uganda, nel 1992, 35 mila
persone furono scacciate con la violenza, furono bruciati dei
villaggi e persone che facevano resistenza vennero uccise88.
L'uso della violenza, in nome delle aree protette, della fauna, della
biodiversità, come vedremo oltre, non è limitato al passato. Continia
anche oggi. Il
nuovo colonialismo, quando serve, sa ricorrere ai metodi sporchi del
vecchio colonialismo. Bisogna anche insistere sul fatto che, nella
maggior parte dei casi, le vittime dei trasferimenti forzati non
ricevono né assistenza, né indennizzi. Dopo la crisi finanziaria
mondiale del 2008, le
Ong, che pure hanno continuato a disporre di ridotte ma pur sontuose
entrate, hanno
cercato di risparmiare ancora di più, se possibile, sui costi della
realizzazione della nuove aree protette. Esse, come visto, sono
continuate ad aumentare a ritmo impressionante anche dopo la crisi.
Chi paga lo scotto? Le popolazioni indigene. Nonostante le
raccomandazioni della Banca mondiale che accetta di supportare
progetti che implicano trasferimenti di comunità solo se vi sono
garanzie che:
- le
persone coinvolte siano informate circa le possibilità di scelta che
vengono loro offerte e i loro diritti;
- vengano
consultate, gli si offrano delle alternative che risultino praticabili
dal punto di vista tecnico ed economico;
- vengano
fornite rapide e adeguati indennizzi per i danni subiti a causa del
progetto89.
Questi
requisiti non sono difficili da assolvere quando si fa finta che
intere aree siano “spopolate” e si prendono in considerazione
solo una parte delle popolazioni coinvolte, quella più stanziale,
con più voce in capitolo, capace di rapportarsi alle autorità e
alle Ong, ben disposte ad accontentare i rappresentanti degli interessi
locali più forti.
La
maggiore incidenza di trtasferimenti forzati si registra in
Africa. Qui sono stati
eseguite alcune stime della dimensione del fenomeno90.
Secondo queste stime, effettuate da Geisler e De Sousa all'inizio
del nuovo secolo, che si basano sulla normale densità demografica
delle varie aree ecologiche interessate alla presenza di aree protette,
sono stati scacciati dalle aree protette
(solo quelle di classe I-III Iucn) dai 900 mila ai 14,4 milioni di
persone.
Michael
Cernea , limitatamente ai sei paesi del bacino del Congo, stima che la
maggior parte dei trasferimenti forzati siano avvenuti nel nuovo
secolo, in
coincidenza con un aumento esponenziale delle aree protette e
nonostante le “linee guida” del 1997 del WWF e dell'IUCN che
avrebbero dovuto mettere fine al fenomeno91.
Vale la pena
osservare che su 12 parchi esaminati da Cernea, tutti teatro di
trasferimenti forzati, ben 7
sono stati promossi dal WWF che reca pertanto una responsabilità
primaria nella perdurante politica di violazione dei diritti umani e
collettivi. Gli
studi disponibili per alcuni dei parchi considerati (gli autori citano
13 lavori che riferivano dell'entità delle espulsioni)
dimostrano la credibilità delle stime che individuano nell'ordine dei
milioni i rifugiati africani. Il solo parco Kruger del Sud Africa ha
provocato 250 mila rifugiati92.
Molte
difficoltà di stima e le discrepanze nella letteratura sul tema
derivano dalla già notata ambiguità semantica di categorie come
trasferimenti
non volontari, reinsediamenti ecc. In Africa dove, spesso, i governi
sono
dittatoriali ed espressione di alcune componenti etniche specifiche,
la politica dei parchi si è confusa con la pulizia etnica di etnie
lontane dal potere e perseguitate. La difficoltà di calcolare i
rifugiati a causa delle aree protette dipende anche dal fatto che
spesso le popolazioni non sono fisicamente trasferite presso altre
sedi ma private dell'accesso alle aree protette da cui traevano
mezzi di sussistenza, sono costrette a un esodo “spontaneo” che,
in realtà è forzato anche se consente ai conservazionisti di
evitare di contabilizzare come loro vittime gli interessati.
Le
fonti ufficiali sul fenomeno dei rifugiati a causa della
conservazione sono scarsissime, gli stati che forniscono dei dati
rappresentano l'eccezione. Il Chad negli anni '90 è passato da una
percentuale di territorio protetto dello 0,1% a una del 9,1%. Ciò ha
comportato l'espulsione di 600 mila persone93.
In India il governo ammetteva nel 2001 l'esistenza di 1,6 milioni di
rifugiati dalle aree protette e prevedeva che la creazione di nuove
aree avrebbe comportato il trasferimento di altri 2-3 milioni di
persone94.
Non
pochi autori hanno sottolineato la scarsa sostenibilità di queste
politiche alla luce di criteri di giustizia ambientale. Se le
popolazioni povere, senza potere e rappresentanza politica sopportano
gli impatti negativi chi ci guadagna? La risposta del conservazionista
è: l'ambiente e quindi le “future generazioni”,
ma se si abbandona per un attimo l'ideologia e si scende sul terreno
della vita reale ci si accorge che la distribuzione sociale di
vantaggi e svantaggi è fortemente iniqua: le aree protette sono
fruite da ricchi bianchi europei e americani sotto le categorie, non
sempre perfettamente distinguibile, di ricercatori, funzionari delle
Ong, turisti. I conservazionisti hanno buon gioco a confondere il
loro interesse (dopo tutto le principali Ong sono delle vere e
proprie multinazionali) con quello del fantomatico “ambiente” e
delle stesse “generazioni future” che non hanno possibilità di
parlare e di smentire chi parla in loro nome.
Per
l'elite
privilegiata del mondo del conservazionismo (scientifico o
imprenditoriale) vi sono entusiasmanti esperienze di “vita nella
natura”, unici occupanti di spazi di centinaia di kmq. It
is rare o find an African scholar in the research groups, and it is
unknown for inhabitants of nearby villages to wander around in the
national park to enjoy its ‘aesthetic and recreational values’.
[È raro trovare uno studioso africano nei gruppi di ricerca, e non
vi sono abitanti dei villaggi vicini che vagano nel parco nazionale
per godere dei suoi valori estetici e ricreativi ] 95 ha osservato
Kai
Schmidt Soltau, il sociologo svizzero autore di alcuni tra i migliori
studi sul tema degli impatti sociali del conservazionismo.
Andamento
delle popolazioni trasferite senza la loro volontà a causa dell'aumento
delle aree protette nei sei paesi del bacino del fiume Congo.
M.M.Cernea e K-Schmidt Soltau, "Les
parcs nationaux et les risques
d’appauvrissement: La relocation forcée des populations est-elle la
solution?"
Il
re è nudo (ma riesce a non farlo sapere a nessuno o quasi). I batwa
pietra d'inciampo e di scandalo per il WWF
Dopo
il 2009 il dibattito sui diritti violati dei popoli indigeni commessi
in nome del conservazionismo dai Signori della wilderness, dai Lord
delle aree protette, le grandi (e piccole) Ong occidentali è
scemato. Il grande pubblico non ne è stato minimamente coinvolto,
fuori dalle riviste scientifiche e dalle pubblicazioni delle Ong ben
poco è filtrato . Negli Usa, dove il dibattito è stato più accesso
il tema è stato trattato dalla sofisticata rivista ecologista Orion
da dove è riverberato sui una pagina interna di Repubblica104.
Vero che anche in ambito accademico i temi affrontati sono soggetti
alla moda del momento ma, in questo caso, c'è dell'altro. Gli
studiosi impegnati nel dibattito su posizione critica nei confronti
dei big del conservazionismo globale, hanno compreso di scontrarsi
contro un muro di gomma.
Il sistema capitalista globale è troppo
interessato al ruolo strategico dell'ambientalismo nel garantire i
livelli di accumulazione e profitto. Esso è fortemente interessato
alle possibilità offerte dalla green economy, per non parlare del
mercato delle compensazioni ecologiche, del green washing, delle
green label, delle ecoindulgenze e ecoassoluzioni che i sacerdoti
della nuova religione possono somministrare alle multinazionali.
Oltre a scambiarsi i manager dei consigli di amministrazione e oltre
a finanziare in modo massiccio le Ong, il capitalismo globale,
attraverso il controllo sempre più centralizzato dei media, assicura
al conservazionismo un fire wall impenetrabile che lo difende da ogni
accusa. Dalle foreste dell'India e dello Sry Lanka dal Messico alla
Sudamerica i popoli della foresta, cacciatori-raccoglitori sono
vittime di un genocidio culturale.
In India gli Asivasi105
rappresentano l'elemento aborigeno tutt'ora in forme tribali,
“intoccabili” i quanto fuori casta per gli hindu, hanno subito
pesanti espulsioni in varie parti dell'India a seguito della
realizzazione delle aree protette. Sono Adivasi i milioni di
rifugiati a causa del conservazionismo in India. Nel 2006 la politica
dei trasferimenti forzati è stata messa al bando ma non per questo
le cose sono cambiate. Impossibilitati ad accedere alle risorse della
foresta gli Asivasi (che utilizzavano per pascolare il bestiame e
raccogliere il miele) sono costretti a lavorare in forme di
semi-schiavitù nelle piantagioni. L'obiettivo è delle autorità
forestali, allineate al WWF, di costringerli al reinsediamento
“volontario”. Presto anche in India grazie alla collusione tra
governo e conservazionismo occidentale rimarrà ben poco dei popoli
autoctoni delle foreste.
Finirà come in Sry
Lanka dove i Wanniya-Laeto erano rimasti l'ultimo popolo indigeno di
cacciatori -raccoglitori. Nel 1983 il governo, condizionato
dagli "aiuti" da parte delle istituzioni finanziarie
mondiali creò il Parco Nazionale. I Wanniya-Laeto, in forza del
paradigma conservazionista occidentale della separazione tra uomo e
natura divennero non solo degli intrusi nella loro terra ma anche dei
criminali, dei "bracconieri"106,
la parolina magica che ha consentito dai tempi del vecchio
colonialismo e sino ad oggi, ai colonialisti bianchi (protetti dalla
fogliolina di fico del conservazionismo) di scacciare e uccidere i
popoli autoctoni per "difendere la natura". Tra i
cacciatori-raccoglitori vi sono anche popoli che non vivono nelle
foreste ma nelle savane.
Un
cacciatore Sun
I Sun (“boscimani”) del Kalahari sono
gli aborigeni dell'Africa meridionale vittime di un genocidio che
farà sparire una delle più antiche popolazioni umane del pianeta.
Vittime dalla maggioranza etnica Bantù immigrata nell'Africa
meridionale quando c'erano già i boeri ma anche del conservazionismo
dei bianchi. In Botswana la Riserva faunistica del Kalahari centrale,
grande come la Svizzera era territorio dei Sun cacciatori e
raccoglitori che da decine di migliaia di anni vivono qui. Vivevano
di caccia. La riserva è stata creata nel 1961 al tempo della nascita
del WWF, della decolonizzazione e della moltiplicazione dei parchi
africani con i quali gli inglesi intendevano mantenere il controllo
coloniale. Cacciati a forza dalle loro terre, bruciati i villaggi,
sigillati i pozzi, chiuse le scuole, i Sun sono stati costretti ad
abitare i campi di reinstallazione forzata che loro chiamano "posti
della morte", ciò nonostante la loro deportazione sia stata
giudicata illegale dai tribunali. Chi tenta di tornare a cacciare
nella riserva (per mangiare e con l'arco) viene spesso ucciso e
torturato dai feroci guardia parco107.
Nel 2014 il presidente del Botswana per
compiacere i conservazionisti
ha vietato la caccia in tutto il paese, tranne che nei ranch privati
dove, pagando profumatamente, i ricchi bianchi possono continuare a
sparare alla "fauna africana in pericolo". Oggi,
a seguito della crescita delle popolazioni di elefanti (che si registra
anche in altri paesi, il Botswana si appresta a riaprire la caccia gli
elefanti. Sono le conseguenze squilibrate della politica di chi "gioca
a Dio" con la fauna e gli esseri umani .
Sempre nel 2014
è stata aperta nel mezzo della grande riserva del Kalahari una
miniera di diamanti. L'ennesimo caso di preziosi giacimenti che
figurerebbero scoperti causalmente dopo l'istituzione delle aree
protette e che conferma come, al contrario, il WWF e i suoi simili.
nell'istituire le aree protette “pulite dalla presenza umana”
sappiano benissimo cosa nascondano le viscere della terra.
Donne Batwa nella foresta impegnate nella
raccolta
I
batwa costituiscono uno dei casi più vergognosi di espulsione dalle
sedi ancestrali “in nome dei gorilla” , ma – fatto interessante
- sono stati anche oggetto di un contenzioso tra una delle poche Ong
che si batte per i diritti di questi popoli infelici e il colosso
globale del conservazionismo, il WWF. La classica tenzone tra Davide
e Golia. I batwa erano stati espulsi manu militari nel 1991 dalle
proprie sedi dell'Uganda meridionale. Il parco (Ubanda Bindwi
Impenetrable National Park) , è stato creato con un finanziamento di
4,3 milioni di dollari della Banca mondiale e gestito formalmente
dalla Uganda Wild LifeAutority, di fatto dal WWF .
Per i batwa,
popolo di cacciatori-raccoglitori, la foresta era tutto: da essa
ricavano cibo e medicinali e in essa praticavano i loro culti. Non
praticavano la caccia grossa, tanto meno ai gorilla considerati con
grande rispetto. Ma è bastato il sospetto che tra i batwa vi fossero
dei “bracconieri” per espellerli. I bracconieri erano in realtà
di tribù bantù, la maggioranza etnica di agricoltori stanziali. Un
tempo tra pigmei e bantù si praticava lo scambio di prodotti della
foresta con quelli della terra, ma in seguito alla espulsione dei
pigmei dalle foreste il rapporto tra le due etnie è degenerato e i
pigmei, marginalizzati in una condizione di inferiorità in un
ambiente che non è il loro, costretti a una condizione di occupanti
abusivi di lotti di terra o di braccianti precari pagati in modo
irrisorio anche secondo gli standard africani subiscono l'oppressione
dei bantù. Senza alcuna possibilità di partecipazione politica108.
Molti sono gli aspetti negativi della nuova,
squallida condizione dei
Batwa, alleviata solo dalle organizzazioni di assistenza delle chiese
cristiane. Tra gli impatti negativi Zaninka109
cita
l'impossibilità di raccogliere il bambù per realizzare cesti e la
perdita dei diritti di pascolo nell'ambito della riserva, i danni
alle coltivazioni arrecati da scimmie, bufali e peccari. L'autore
osserva come i bakra sono divenuti dei senza tetto senza opportunità
di reddito o possibilità di stabilirsi in qualche luogo. Inoltre, a
causa del'impossibilità di raccogliere piante medicinali della
foresta vi è stato un aumento di morbilità e di mortalità.
Il
prof. Groh, autore di un report per le Nazioni Unite sulle condizioni
dei batwa dopo l'espulsione dalle loro terre, intervistato da
Wilfried Huismann110
parla senza peli sulla lingua di un popolo allo sbando, minato
dall'alcolismo, gli uomini costretti a lavorare per salari da fame
per i bantù e le donne a prostituirsi. Evoca un vero e proprio
genocidio dal momento che l'80% delle donne sono state violentati,
con figli (molto più alti delle madri) che sono dei paria non
essendo riconosciuti da nessuna delle due comunità.
L'aspetto
rivoltante è che il WWF insiste nel definire diffamazioni tutte
queste osservazioni e sostiene che la nuova condizione fornisce
l'opportunità per i Batwa di lavorare per i turisti. A parte qualche
guida, il “lavoro per i turisti” consiste nella messa in scena di
danze tribali in finti villaggi batwa, un vero zoo etnologico, in
cui la dignità umana è calpestata. Una storia in piena continuità
con quella famosa di Ota Benga, il pigmeo africano, esposto in gabbia
come un animale allo zoo del Bronx di New York nel 1906 per
dimostrare le teorie razziste alla Madison Grant, il naturalista ed
eugenista che contribuì a fondare lo zoo stesso e gettò le basi
della gestione conservazionista moderna. Significativamente
eugenetica razzista e conservazionismo non erano per Grant, come egli
stesso dichiarava, affatto
separate111.
I nipotini di Madison Grant, attenti al
politically correct, non si
possono permettere il lusso di un
razzismo dichiarato ma sono sinceramente neo-malthusiani. Hanno
scacciato i Batwa dalla loro terra, e ora la utilizzano pe il business
dell'ecoturismo per i ricchi bianchi “sulle orme dei gorilla” o
“sulle orme dei batwa” usando questa gente umiliata, impoverita,
marginalizzati, alienata dalla propria cultura e dalla propria terra
come comparse in spregio alla dignità umana. Quanto alla caccia,
vietata ai Batwa, (tranne – visto che soffrivano la denutrizione -
una ridotta fascia al perimetro del parco) per l'uomo bianco ancora
più ricco, che paga decine di migliaia di dollari, c'è anche la
possibilità di cacciare gli elefanti “in sovrappiù”.
Sul
terreno, in ogni caso, i funzionari del WWF secondo la testimonianza
di Groh si comportano come gli esponenti della “razza padrona”
che, in perfetta continuità con i vecchi colonialisti inglesi,
portano graziosamente, anche quando non richiesti, i frutti del
progresso (case di cemento, abiti all'occidentale) 112
mentre
gli ingrati vorrebbero... tornare a vivere nella foresta. Non
meno razzisti dei bianchi sono però i bantù. Michael Cernea
riferisce che , nel corso di una discussione in cui faceva notare
l'assenza di compensazioni per i pigmei cacciati dalle loro terre,
una funzionario governativo obiettava che ciò non rappresentava
affatto un problema dal momento che dei
nostri buoi parlanti
possiamo fare ciò che ci pare113.
La Fondazione dello
zoo del Bronx è la WCS, una delle più grandi Ong conservazioniste.
Le
denunce di Huismann sono pressoché cadute nel vuoto, come altre
prima. Il WWF è istituzione intoccabile. Il coraggio di sfidarla,
sempre relativamente ai batwa, l'ha avuto Stephen
Corry,
fondatore e direttore di Survival international,
la Ong che, insieme a Forest people, si è data la mission di dare
voce agli ultimi sulla terra, ai meno rappresentati, ai più
disprezzati.
Gruppo
di Bakra nella foresta. Rischiano la vita pur di poter tornare nelle
loro foreste a cacciare
Nel 2014 WWF
aveva risposto con arroganza ai rilievi di Survival rigettando le
accuse come generiche e accusando in modo diffamatorio (quando ci si
sente impuniti...) Survival di
utilizzare
le accuse della violazione dei diritti umani per farsi pubblicità (vale
la pena andare a leggere ciò che diceva il WW e che si è dovuto
rimangiare) 114. Nel
2016 Survival
international
è riuscita a ottenere che l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione
e lo sviluppo economico che riunisce le economie sviluppate) prendesse
in esame le accuse da essa rivolte
al WWF, ovvero di violazione delle linee guida115
in materia di espulsione ed esproprio di popoli indigeni.
Nel sud-est del Camerun, i cacciatori-raccoglitori Baka sono
stati sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali per fare
spazio ai
parchi nazionali, e rischiano devastazione dei loro campi arresti,
pestaggi, torture e morte per mano di squadre anti-bracconaggio
sostenute dal WWF secondo la denuncia di Survival
international.
L'Ocse,
nonostante che i governi che ne fanno parte siano sponsor
istituzionali del WWF, ha accettato di esaminare i rilievi mossi al
WWF in un rapporto di 228 pagine consegnato all'agenzia svizzera
dell'Ocse116. Un fatto storico perché
in questo modo il WWF, corporation del conservazionismo capitalista,
viene assimilata a una corporation come tutte le altre chiamate a
rispondere di gravi violazioni di diritti umani e collettivi. Dopo
l'accoglimento da parte dell'Ocse della procedura le due Ong sono
state invitate a confrontarsi a Berna presso uffici del governo
svizzero.
Il
WWF, ovviamente seccato per essere trattato come una
grande
società commerciale, non ha potuto certo sottrarsi al giudizio
dell'Ocse che raduna i governi che lo finanziano generosamente ma ha
rigettato la responsabilità per gli abusi
dichiarando di aver eseguito accertamenti e inoltrato segnalazioni
alle autorità . Uno scaricabarile che nasconde la ben nota realtà
africana delle debolezza delle autorità statali, spesso solo braccio
armato o giuridico delle Ong che hanno il potere reale di iniziativa.
Survival ha insistito sul fatto che i Baka non sono mai stati
consultati realmente, sostenendo di avere testimonianze sugli abusi e
mettendo in evidenza che il caso rappresenta solo la punta di un
iceberg.
Dopo due mesi
dall'incontro di Berna, nonostante gli sforzi
dei mediatori per arrivare ad una composizione del caso, tutto si è
bloccato davanti alla richiesta di Survival
al WWF di una dichiarazione in cui di affermava che, in futuro,
l'accordo con i Bakra circa la modalità di gestione delle loro terre
sarebbe stato vincolante per la creazione di nuove aree protette. Del
resto questo requisito è previsto nelle stesse linee guida del WWF
del 1996, dell'IUCN. Nel frattempo, mentre ancora si
tentava un accordo tra le due Ong, Survival provò a verificare
l'efficacia del meccanismi con i quali il WWF asseriva di poter
raccogliere le segnalazioni di abusi. Vennero sollevati altri casi di
abusi da parte di paramilitari a guardia di un un nuovo parco in
Congo (Messok Dja), istituito senza neppure informare le popolazioni
tribali. Le segnalazioni restarono senza risposta.
Ranger
all'opera per distruggere insediamenti abusivi nei parchi (da parte di
chi è stato scacciato dalle proprie terre)
A
questo punto è stato acclarato che il WWF non ha alcuna intenzione
di ottenere il consenso di coloro ai quali, in collusione con i
deboli e corrotti governi locali, ruba le terre. Non ha nessuna
intenzione di limitare con una
gestione consensuale l'immenso potere di controllo di vasti territori
e dei relativi bilanci. Le linee guida adottate dal movimernto
conservazionistico per prevenire la violazione dei diritti dei
popoli tribali 117
non valgono la
carta su cui sono scritti essendo solo fumo negli occhi da usare
nelle pubbliche relazioni. Per di più non ha intenzione di
controllare in modo efficace le forze paramilitari da esso finanziate
e istruite che, con il pretesto della repressione del “bracconaggio”
vessano le comunità alle quali sono state espropriati i territori
ancestrali, picchiando e torturando chi cerca solo di sfamare la
famiglia mentre, sempre su terre rubate alle popolazioni indigene, le
guardie dei parchi
(all'occorrenza esse stesse “bracconieri”) proteggono i ricchi
bianchi che praticano la caccia grossa.
Cos'è il conservazionismo in questi
territori africani? Un dominio di stampo feudale nell'ambito del
quale essi si gratificano del ruolo di lord. Possono gloriarsi di
poter giocare con la vita di milioni di persone espulse dalle loro
terre oltre che con quella degli animali (spesso anch'essi vittime di
una gestione riduzionista e presuntuosa quando non “carne da
safari”). La legittimazione con la quale pretendono di giustificare
il loro comando e controllo, il loro regno, la loro superiore
conoscenza conservazionistica scientifica che spesso non
vale quanto le conoscenze tradizionali dei popoli che hanno
convissuto con le foreste per migliaia di anni. Forte
di una autorità morale del tutto immeritata ma sapientemente gestita,
il conservazionismo è l'utile strumento del capitalismo predatorio.
Quegli
stessi "lavori sporchi" che, se fossero gestiti dalle multinazionali,
porterebbero a proteste e mobilitazioni, eseguiti dalle Ong
conservazioniste passano sotto silenzio. Così, senza neppure rendere
noto agli interessati della loro espulsione o ottenendo, fraudolenti
assensi alla svendita dei loro diritti (ai pigmei viene sottratta la
terra in cambio di un machete), le Ong continuano, ancora
oggi, a rubare ai popoli indigeni terre e diritti. In più i parchi
vengono utilizzati come forma di compensazione per proseguire
nell'opera di trasformazione di foreste in monocolture, per offrire
patenti di sostenibilità a filiere dai forti impatti ambientali e
sociali, per mettere la coscienza a posto. Grazie all'oppio del popolo
del ventunesimo secolo.
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