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CULTURA


Bergamini e Brescia
   

In vista del 2023 (Bergamo-Brescia "capitale della cultura"), l'inzio di una "riscoperta", anche a Brescia,  dell'epopea dei bergamini, rappresenta un  positivo segnale nella direzione del riconoscimento di un capitolo di storia sociale che accomuna le due provincie

di Michele Corti




La "transumanza" a Bagolino. Dalla Valsassina  alla val Sabbia, ferro e formaggio contraddistinguono un comprensorio caratterizzato da grandi competenze nella metallurgia, nel caseificio e nell'allevamento. Il comprensorio dal quale, per secoli, si sono dirette, verso le pianure lombarde, emiliane, venete, piemontesi, le correnti di transumanza dei bergamini lecchesi (storicamente milanesi), bergamaschi e bresciani.


(28/11/2020) Sul Giornale di Brescia, due settimane fa, è apparso un bell'articolo di Claudio Baroni nella pagina della cultura (segnalatomi da Stefano Manzoni di Fara Gera d'Adda, originario di Morterone, paese di bergamini). Un frutto del riconoscimento, da parte dell'Unesco, della transumanza quale "patrimonio immateriale dell'umanità". Esso ha spinto a "guardare in casa" alle transumanze, sia a quelle storiche che a quelle attuali, che hanno caratterizzato e caratterizzano i nostri territori lombardi.


Parlando di una famiglia originaria di Castione della Presolana (Bg), i Tomasoni, che praticava la transumanza con le proprie vacche da latte verso la bassa bresciana, l'articolista si riferisce a loro come "bergamini" e chiarisce con precisione le modalità essenziali della transumanza. Citando il libro che Piergiuseppe Tomasoni, emigrato in Germania, ha voluto scrivere per omaggiare l'epopea dei suoi avi, ma anche di tutti i "bergamini", l'articolo ricorda come, tra le due guerre, i "bergamini" avessero preso in affitto, o acquistato, fondi agricoli nella bassa bresciana. Tra i cognomi citati: Tomasoni, Toninelli, Chiodi, Armanni, Ferrari, Migliorati, Cozzi. Ma ce ne sono tantissimi altri.

Ottorino Milesi1, non dimenticato direttore dell'Ispettorato agrario di Brescia, sulle colonne dello stesso GdB, scriveva nel 1974 a proposito di una famiglia di  "mandriani" scriveva :

Parlano con orgoglio delle loro origini di montanari bergamaschi ed assicurano che sui registri degli statuti del loro paese risultano dati certi di diritto al pascolativo risalenti al medioevo. Come loro vivono ancora un centinaio di famiglie di mandriani nomadi (i Bertocchi, i Boldini, gli Olini, i Tanghetti, i Poli, i Campana, i Belotti, ecc.2


È interessante osservare come nell'elenco di Milesi non figuri alcuna famiglia bergamina citata da Tomasoni, segno della loro numerosità. Nonni materni di Piergiuseppe Tomasoni erano, per esempio, i Vitali di Pizzino (val Taleggio). Piergiuseppe, oltre a ricostruire la genealogia dei Tomasoni, è risalito anche agli avi Vitali scrivendo un altro libro in due vol. ("gli antenati", "i discendenti", con riferimento ai nonni materni). Il libro mi è stato segnalato da Massimo Vitali di Gorgonzola, figlio di bergamini di Pizzino fissatisi come agricoltori a Gorgonzola e discendente anch'egli dei nonni di Tomasoni). 




Agostino Antonio Vitali era nato a Soncino mentre la moglie a Orzinuovi (classico polo di attrazione dei bergamini per la grande estensione di coltivazioni foraggere frutto delle secolari bonifiche della "campanea").




Reperto conservato presso il Museo Etnografico "Giacomo Bergomi" di Montichiari (BS)


Il Vitali morì a Castel Mella. Attraverso queste vicende famigliari si segue la traiettoria dei bergamini che, da transumanti diventavano fittavoli e da fittavoli - sempre in forza delle loro capacità imprenditoriali - proprietari dei fondi (continuando a condurli e ad allevare bestiame che, fino a dopo la seconda guerra mondiale, almeno quello asciutto, continuavano a portare in estate in montagna). Non tutti i bergamini facevano fortuna. Dalle famiglie numerose, per eccesso di bocche e di braccia o per desiderio di indipendenza o per dissidi si staccavano membri meno intraprendenti che si adattavano al lavoro salariato sfruttando le competenze acquisite fin da ragazzi. Nemmeno tutti i Vitali, come indica il reperto della fotografia seguente.





Sgabello da mungitore appartenente a Bono Vitali, conservato presso il Museo Etnografico "Giacomo Bergomi" di Montichiari (BS)". L'uso dello sgabello con un solo piede è chiaramente derivato dalla montagna (dove il pendio impedisce di usare quello a tre gambe)



Le parentele bergamine costituiscono una rete che lega tra loro le valli e le pianure, al di là dei confini provinciali (che, un tempo, potevano essere anche di stato). Basti dire che, ai Vitali di Pizzino, sono collegate famiglie dell'alta val Seriana (come i Messa, come ricorda l'amico Andrea che, da bambino compì una delle ultime transumanze a piedi da Nasolino a Leno) e di altre valli. Lo "scambio matrimoniale" avveniva in pianura ma, dal momento che le famiglie potevano frequentare ora il milanese, ora il cremonese, ora il bresciano, ora il novarese, la rete era estesissima.




Un aspetto significativo dell'inedito interesse per i "bergamini" (la "passione" dei Tomasoni per la genealogia accomuna anche altri discendenti di questa "tribù"),  è il riconoscimento del loro rappresentare un elemento importante che accomuna Bergamo e Brescia.



Stampo per il burro con il nome "Tomasoni" conservato presso il Museo Etnografico "Giacomo Bergomi" di Montichiari (BS)". Il museo è intitolato al pittore, nato nel 1923 a Orzinuovi da famiglia di fittavoli origini bergamasche (Adrara San Martino). Per la sua pittura realistica utilizzava oggetti della vita contadina ritratti dal vero. La sua collezione ha costituito il nucleo del museo di Montichiari, il più importante della bassa bresciana. Il cognome Bergomi è diffuso soprattutto in provincia di Brescia dove supera nettamente Bergamini (massima frequanza a Rovato).


Molti agricoltori e allevatori della bassa bresciana (nel tempo divenuti anche titolari di caseifici e salumifici), hanno origini bergamasche in quanto discendenti di bergamini. L'acquisto di fondi da parte di questi ultimi è proseguito anche dopo l'ultima guerra.  Giuseppe Gallucci, zootecnico dell'Ispettorato agrario di Brescia, basandosi suoi ricordi degli anni '60, scrive che al tempo:

... erano molti gli allevatori delle valli bergamasche che venivano a svernare nella pianura con tutta la famiglia. Gli stessi frequentavano poi i mercati di Rovato e di Montichiari dove portavano i loro prodotti caseari. Risparmiando al massimo, molti poi hanno comprato le aziende dove le loro bovine mangiavano il fieno durante l'inverno3 .

La sottolineatura della capacità di risparmio dei bergamini è comune a molti degli autori che si sono occupati di loro. Dal momento, però, che non bastava, neppure in passato, privarsi di un pezzettino di carne per acquistare un'azienda agricola, che non bastava l'avarizia e la tesaurizzazione... ma bisognava anche guadagnare, dietro quel rinfacciare ai bergamini il "risparmio feroce", c'era l'invidia sociale (di chi stava in alto, ma anche in basso, nella scala sociale) per quelle capacità tecniche e organizzative che consentivano loro, quando non "mandati a gambe per aria" dal tagliù (l'afta epizootica), di  diventare fittavoli e poi proprietari. Persino i salariari disprezzavano i bergamini, quei salariari che, , sempre sotto la minaccia di essere licenziati a San Marino, se avevano in tasca qualche soldo lo usavano per le bevute all'osteria o sfoggiando il vestito "della festa" di foggia cittadina. Il bergamino, invece, non aveva complessi di inferiorità nei confronti della cultura cittadina; la sua era un'identità forte, si vestiva da montanaro anche quando si recava mercato in piazza a Brescia o a Milano. Non aveva bisogno di cammuffarsi da cittadino (però esibiva orecchini e orologi da tasca d'oro).

Il risentimento, l'invidia nei confronti dei bergamini emerge bene, siamo nei primi anni del Novecento, nelle parole di un grosso esponente della proprietà fondiaria milanese, il senatore Ettore Conti che, polemizzando con i fittavoli "liberisti" (lui era un conservatore filantropo) rinfacciava loro l'origine bergamina:

Chi sono e che cosa sono poi questi fittabili? Salvo le debite eccezioni, la prosapia loro discende dalle Alpi. Probabilmente i trisavoli dei presenti conduttori erano bergamini che a furia di stenti e di economie riuscirono a mettere insieme quanto occorreva per spodestare, offrendo aumento d’affitto al proprietario od a’ suoi amministratori, il fittabile che da parecchi anni dava loro l’asilo invernale e vendeva il fieno per il mantenimento delle loro mandre. Questi mandriani, se furono felici e contenti di aver posto fine alla loro vita randagia non per ciò abbandonavano il loro sistema di economia feroce. Economia in tutto e per tutto, salvo che nella figliolanza, creata prodigalmente. Così, con virtù indiscutibili, ma che portate alla esagerazione diventano difetti gravi e deplorevoli, colla loro sobrietà riuscirono a mettere insieme quanto, alla loro morte, poteva abbisognare, a ciascuno dei figli maschi per l'acquisto o l'impianto di nuove aziende agricole4 .

Per comprendere perché i bergamini, in quanto fenomeno economico e sociale, abbiano ricevuta, sino a oggi, scarsa attenzione in sede storica e scarsi apprezzamenti dai contemporanei (tranne che da parte dei veterinari, compresi alcuni accademici) è necessario anche far riferimento a quella ostilità e diffidenza che viene riservata dagli "stanziali" ai "nomadi", anche se onesti e industriosi (gli si riconosceva sempre la puntualità e la precisione nei pagamenti). Come visto, poi, i bergamini, entravano a volte in concorrenza con i fittabili (per "spodestarli") e, indirettamente, anche con altre categorie agricole.  Al tempo della formazione delle prime leghe bianche nella bassa bresciana, i “malghesi bergamaschi” venivano accusati di essere tra le cause dei bassi salari dei lavoratori agricoli in quanto, con la loro proverbiale parsimonia, potevano accettare patti che tendevano a mantenere alti gli affitti dei fondi, il che poi spingeva i fittavoli a rifarsi sui salariari5.

Quanto, una certa ostilità nei confronti dei bergamini abbia contribuito ad alimentare un sentimento poco amichevole nei confronti dei bergamaschi (almeno in certe zone) o quanto possa essere stato vero l'inverso (ovvero che ai bergamini fosse oggetto di diffidenza in quanto bergamaschi), è difficile stabilire in assenza di elementi probatori. Di certo, come vedremo in seguito, i massicci e perduranti flussi di emigrazione dalle valli bergamasche verso il territorio bresciano (montagne e pianura) possono aver determinato, o quantomeno contribuito a determinare, forme di concorrenza e di invidia. Ovviamente da considerare tenendo in relazione ai ceti sociali coinvolti (come insegna la differenza di atteggiamento nei confronti dell'attuale immigrazione straniera dei ceti privilegiati e di quelli popolari).

Nel prendere in esame l'emigrazione bergamasca, va considerato il fatto che, non solo i bergamini ma anche i bergamaschi di altre categorie professionali, formavano, secoli fa,  comunità tendenzialmente poco integrate, orgogliose della loro origine e forti della consapevolezza delle loro capacità. Costituita da personale altamente qualificato: minatori, maestri di forgia, bergamini, le comunità bergamasche era oggettivamente forti di competenze specifiche, tramandate da generazione in generazione (il che spingeva all'endogamia). Va notato che, nei secoli passati, anche il mestiere di allevatore e di casaro "professionale" rientrava tra quelli ai quali si associavano competenze arcane, segreti professionali al limite della magia (come i fabbri).  In tempi dei quali si conserva la memoria orale, il pastore, il bergamino (come altri "nomadi") erano oggetto, al tempo stesso, di diffidenza e di ammirazione. A loro si chiedevano previsioni del tempo e magari rimedi e trattamenti "terapeutici" al limite della magia (tra i bergamini vi erano dei guaritori degli animali e degli uomini). 



Antiche pratiche terapeutiche popolari


Le comunità bergamasche erano, non solo nel bresciano:

...salde e inassimilabili dall'ambiente in cui vivono; le loro tecniche, la loro personalità collettiva, i legami intrattenuti con la loro patria, mantengono ed esaltano il senso che hanno della loro identità. Il reclutamento degli apprendisti e dei successori in terra bergamasca, spesso all'interno della loro stessa famiglia, permette loro di perpetuare le loro piccole collettività6.


La transumanza, più di ogni altra attività, favoriva il mantenimento di legami con le valli di origine. Ma il bergamino, in realtà, pur rimanendo legato al paese era spesso visto come uno "straniero" anche nei villaggi natii. Un atteggiamento che viene da lontano (quando, per limitare l'accesso ai beni collettivi scarsi: boschi e pascoli, le comunità classificavano come straniero chi si assentava, in inverno in modo da ridurre il numero delle famiglie con cui "dividere la torta"). Con la diffusione della pratica di affittare i "monti" (alpi pascolive) da parte dei comuni , in croniche difficoltà finanziarie a causa della pressione fiscale, i bergamini, in molte zone, forti della loro capacità economica, monopolizzarono i pascoli lasciando ai contadini-allevatori stanziali solo magri pascoli. Di qui una situazione ambigua: da una parte i bergamini, pagando elevati canoni di affitto, tenevano in piedi le casse del comune a tutto vantaggio della popolazione stabile, dall'altra, occupando la maggior parte dei pascoli estivi, lasciavano scarse risorse per praticare l'allevamento ai locali. Di fatto tra bergamini e marà (questo il "titolo d'offesa" riservato ai piccoli contadini-allevatori della montagna), c'era ostilità, diffidenza, ostilità. I bergamini erano chiamati dalla gente di montagna (ma anche da quella di pianura) schisciaboasce, ovvero "calpestatori di escrementi bovini". Alla gente di pianura (di basso rango) i bergamini riservavano l'epiteto di mòch.  Per i bergamini, l'origine montanara era parte del sentimento di identità di gruppo. Spesso poi il luogo di origine era rappresentato da un nucleo rurale, da una frazione abitata solo da bergamini e distinta da altri insediamenti (abitati dai marà).  Era comunque il clan che contava (le famiglie multiple patriarcali collegate tra loro), poi venivano gli altri bergamini, poi i pastori di pecore ("cugini"), poi, eventualmente, gli altri. Non si trattava ovviamente di gerarchie di "sentimenti" ma di concreta solidarietà di gruppo che si manifestava nel bisogno, merce preziosa (oggi non ce ne rendiamo conto perché ci sono le assicurazioni, il servizio sanitario, l'assistenza sociale) che si doveva scambiare in modo oculato. Non era "grettezza", non era "chiusura egoistica", "tribalismo".

È quindi anacronistico attribuire ai bergamini un patriottismo valligiano o bergamasco, almeno se ci riferiamo ai secoli passati. Queste considerazioni servono di avvertenza nei confronti dell'applicazione al passato di categorie moderne. La diffidenza tra immigrati bergamaschi (bergamini compresi) e comunità bresciane va interpretata alla luce di quanto sopra. 

In ogni caso è comprensibile una certa "territorializzazione" dei sentimenti reciproci tra bresciani e immigrati bergamaschi. Questi ultimi non potevano non guardare con invidia alle risorse bresciane (miniere che si esaurirono più tardi, un' industria siderurgica di più lunga durata, una grande pianura agricola).  Le rivalità territoriali diventano forti  quanto più interessano collettività simili e portano a non far volentieri riferimento all'altro, specie se per riconoscergli meriti. Per questo, molto probabilmente, i bresciani non usavano chiamare "bergamini" i proprietari delle mandrie transumanti; avrebbe implicato il riconoscimento di una "primazia" bergamasca.

Sempre per inquadrare nel loro giusto contesto le "rivalità territoriali" tra vicini, come non dimenticare  il dialogo nei Promessi sposi (cap. XVI) tra Renzo e il cugino Bortolo, che lo fa assumere dal padrone di una filanda bergamasca? Bortolo mette sull'avviso Renzo che, se vuole lavorare nella bergamasca,  deve accettare di essere qualificato come "baggiano" dai bergamaschi, in quanto milanese. Renzo trova la cosa inaccettabile perché gli sembra un'ingiuria terribile, da lavare col sangue. I milanesi, del resto, ricambiavano. Senza ricorrere a epiteti insultanti, fecero dello stesso appellativo "bèrgom" (bergamasco), un'ingiuria. Fà minga el bèrgom. Pan per focaccia.



Bergamini/malghesi: le eccezioni confermano la regola


Jacopo da Bassano, l'Annunciazione ai pastori (metà XVI secolo)


Agostino Gallo, il grandissimo agronomo bresciano del Cinquecento, mette in bocca a messer Avogadro, nobile proprietario bresciano, la seguente espressione:  Sempre io amai grandemente voi malghesi e pecoraj; perché in vero siete di molta comodità e di utilità a noi Bresciani 7

Un apprezzamento che parrebbe smentire le considerazioni precedentementi. Ma l'apprezzamento dell' "utilità" di figure come i malghesi e i pecorai si modifica nel tempo, oltre che dipendere dal tipo di relazione con la quale i transumenati entrano con i diversi attori sociali. Nel Seicento, contro le pecore, vi saranno "bandi" e "grida" minacciose, espressione di una forte ostilità di alcuni interessi agricoli. Un'ostilità complessa peraltro, perché i grossi proprietari nobili, così come i piccoli agricoltori indipendenti, continureranno ad accogliere volentieri i pastori.

Certo è che i bergamini apportavano due elementi fortemente deficitari nella pianura bresciana, almeno sino agli ultimi decenni dell'Ottocento: il letame e i latticini. La loro utilità era quindi indiscutibile. 

Agostino Gallo diede anche una definizione del "malghese":

Al bestiame grosso, cui non ponno bastare pochi bocconi qual di passaggio carpiti, provvede all'intero loro mantenimento il Pastore, chiamato malghese. Compra il fieno per l'inverno: ha in aggiunta un poco di pascolo per l'Autunno, e alle basse ancora per Maggio, poi per la State prende in affitto de' pascoli nelle montagne per la frescura 8 .



Il grande agronomo parla spesso nella sua opera di "malghesi bresciani" (per esempio per raffrontare il loro formaggio - l'odierno bagoss o nostrano di val Trompia - a quello dei colleghi piacentini - il grana). Non fa riferimento ai bergamaschi (probabilmente perché frequentavano allora solo la fascia occidentale della pianura irrigata dall'Oglio), ma dimostra di conoscere la voce "bergamino" che utilizza però solo due volte, nel capitolo sui fieni, mentre, in quello sui malghesi, è presente solo la voce "malghese" (otto volte). Come mai?

Secoli dopo,  Don Francesco Ugoni, discendente di antica famiglia comitale bresciana, oltre a gestire le proprietà di famiglia a Pontevico, ed educare i nipoti orfani (Camillo e Filippo, letterati e rivoluzionari), fu autore - all'inizio dell'Ottocento - di diverse opere agronomiche. Sui prestigiosi Annali di agricoltura, curati dall'agnonomo bolognese Filippo Re, pubblicò una Memoria sopra l'agricoltura di una porzione del Dipartimento del Mella [la futura provincia di Brescia, senza la Valcamonica] situata a mezzo giorno9In quest'opera fece un interessante cenno ai bergamini, anzi ai "bergamaschi":

Prima della epidemia bovina, che tanto infierì per tutta  l’Italia nel 1796, 1797 e 1798; molti erano i malghesi del paese che consumavano colle loro vacche i fieni delle praterie stabili [...] Ma dopo la strage de’ bestiami avvenuta, la massima parte dei malghesi suddetti è andata a male, e sono pochissimi quelli che hanno potuto conservare. le loro vacche, onde presentemente nell’inverno viene qualche malghese o bergamasco delle nostre valli a consumare parte del fieno delle cascine, i latticinj dei quali sono appena appena bastanti per a popolazione 10.


Ex voto settecentesco. Alcuni bergamini invocano Sant'Antonio da Padova e Sant'Ambrogio perché intercedano presso la Vergine con il bambino affinché protegga il loro bestiame


Come si vede, anche a Brescia era noto il termine "bergamasco", utilizzato per indicare, per antonomasia, il transumante con mandrie "da formaggio".  Pergamaschus è utilizzato, insieme a pergaminus, nel XV secolo, poi, però, nella forma italiana di "bergamasco" diventò raro.  Mano a mano che l'uso comune dell'aggettivo "bergamino", riferito anche a manufatti di origine bergamasca, per indicare "di Bergamo" diventava arcaico, il sempre più usato "bergamasco" rappresentava un riferimento esplicito a qualche nesso con Bergamo. Ugoni non aveva però remore a parlare di "bergamaschi delle nostre valli", quindi bergamaschi... bresciani. Un vezzo letterario o la registrazione di un uso corrente? Comunque un'eccezione.

Chiarisce il carattere di quasi-geosinonimi della coppia "bergamino"/"malghese", il milanese Domenico Berra, un ricco avvocato agricoltore e allevatore con una "bergamina" a Crescenzago, oggi comune di Milano. Egli scrisse negli anni '20 dell'Ottocento;

I Bresciani chiamano Malghesi que’ proprietari di mandrie di vacche i quali [...] alla fine di settembre poi o al più al principio dell’ottobre scendono con le loro mandre alla pianura ove rimangono infino a maggio, mantenendo il bestiame con erbe e fieni comprati. Di questi proprietarj di vacche noi ne abbiamo tuttora moltissimi nel Milanese, Lodigiano, Pavese e Cremonese e sono detti volgarmente Bergamini11.

Un osservatore super partes, l'agronomo bavarese Joannes Burger, trattando dell'agricoltura del Lombardo-Veneto, osservava che i transumanti erano chiamati sia "bergamini" che "malghesi" e che provenivano dalle montagna di Bergamo e di Brescia:

Come ho già detto altra volta, essi si chiamano Bergamini o Malghesi. Se ne trovano ancora molti in Lombardia e nelle provincie di Mantova e di Verona, benchè il loro numero, a confronto degli anni andati, siccome ho inteso dire, sia d'assai diminuito. Nelle montagne di Brescia e di Bergamo vi sono del pari che in Isvizzera de'proprietari di bestiame, i quali non possedono in patria che quel tanto di terra che basta per alimentare le loro vacche nella state, e nell'autunno vengono giù alla pianura a cercar pascolo ne'campi per quella stagione e pel successivo inverno. Perchè essi vengono da Bergamo furon detti Bergamini, e di qui fu derivato il nome di Bergamina alla mandra di vacche destinata alla produzione del formaggio12.


La variazione lessicale dipende non solo dall'area geografica ma anche dall'epoca e dal contesto d'uso. Berra riferiva che la voce "bergamino" apparteva al registro "volgare". Divenne così nell'Ottocento, non certo nei secoli precedenti. Gli Ordini di provvisione (regolamenti annonari) di Milano del Cinquecento e del Seicento citano parecchie volte i "bergamini" a proposito della vendita al minuto dei latticini sul mercato "della balla"
13 (i mercati contadini per la vendita diretta non solo una novità).  Essi erano anche menzionati a proposito del divieto loro imposto di pascolare e acquistare fieno entro un raggio di cinque miglia dalle mura cittadine14 (onde non far concorrenza sul mercato del fieno cittadino in un'epoca di numerose, sontuose e pesanti carrozze). 

Se facciamo un passo indietro nel tempo (al Quattrocento), vediamo che l'erario ducale milanese otteneva ottimi cespiti dal sal pergaminorum, il sale destinato ai bergamini (che dovevano salare i formaggi)15. A Piacenza, come in altre città, il commissario addetto alla tassa sul sale si occupava anche, tra gli altri, del seuddetto sal pergaminorum 16.  Per tutto il Settecento secolo, nello Stato di Milano, il termine "bergamino" era utilizzato in inchieste ufficiali e provvedimenti fiscali 17. Ma era così anche nello Stato veneto, a Bergamo, come si evince  dal seguente proclama di sanità del 1761.



Con la perdita di importanza (relativa, non in termini assoluti) della transumanza dei bergamini, la voce passò a un registro "gergale" e "volgare" e, negli atti ufficiali, e comunque nella forma scritta, si dette la preferenza, anche nell'Insubria, a "madriano" e "malghese", ritenuti termini più "tecnici".  Il significato di "bergamino" scivolò, da quello che aveva avuto per secoli di "proprietario di mandrie transumanti", a quello di casaro, capo-stalla e, in ultimo, di "mungitore" (ci sono contratti sindacali degli anni '60 del Novecento nella bassa Lombardia e nel basso Piemonte che la utilizzano con questo significato).

Oltre al bergamino c'era anche la "bergamina", che non era la donna delle famiglie di bergamini, ma la mandria, la stalla o anche la singola vacca da latte. Anche nei dialetti emiliani, oltre che in quelli lombardi, erano utilizzate entrambe le voci: bergamino (bergamèn) e bergamina (bergamìnna)18. Va notato, per inciso, che la provincia di Modena è quella dove è più diffuso il cognome Bergamini, seguita da Ferrara, Bergamo, Bologna, Milano, Verona, Brescia, Rovigo e Mantova (sarebbe interessante, a tal proposito, capire quanto la diffusione in Emilia sia legata ai bergamini piuttosto che a tessitori o a contadini in genere). 


Bovegno: uno dei centri della transumanza


Il bresciano Domenico Brentana, originario di Bovegno, in alta val Trompia, tipica località di bergamini (anche i Brentana lo erano stati), nell'ampio saggio dedicato al paese natio, pur utilizzando 19 sempre la voce "malghese" (anche per indicare i transumanti), utilizza tre volte la voce "bergamina" per riferirsi alla mandria lattifera. Era professore di zootecnia a Parma, fu anche preside di quella facoltà di veterinaria ed è probabile che, oltre che dalla letteratura tecnica lombarda dell'Ottocento, egli abbia assimilato quell'uso lessicale in terra parmigiana.

Di fatto, in uno spazio che va da Alessandria e Vercelli a Ferrara e Bologna si riconosceva, anche attraverso attestazioni linguistiche, una qualche relazione tra i fatti attinenti la transumanza, la mungitura, la lavorazione del latte, le vacche da latte e... Bergamo. "Bergamino" era infatti un etnonimo al pari di "bergamasco" (usato in passato, come già visto, in alternanza). L'opera letteraria del duecento bergamasco è il Liber pergaminus di Mosè del Brolo20, un'esaltazione della città.  

In definitiva possiamo dire che l'identificazione dei transumanti con i "bergamini" ha conosciuto ampia estensione geografica e sociolinguistica.  Il fatto che il bresciano faccia eccezione può trovare un'altra spiegazione, al di là del fattore di rivalità con Bergamo, nella circostanza che, anche dalle valli bresciane, scendevano dei transumanti con le loro mandrie.  Un numero consistente di transumanti, però, scendeva anche dalla Valsassina e da quelle terre della valle Imagna, della val Taleggio, dell'alta val Brembana occidentale che appartenevano alla diocesi di Milano e che, in parte restarono incorporate nello Stato di Milano anche dopo la dedizione di Bergamo a Venezia. Vi erano quindi (non pochi) bergamini milanesi che, però, non solo venivano chiamati così in pianura, ma anche nelle loro valli. 





Transito di bergamini da Introbio, "capitale" della Valsassina in una foto di inizio Novecento


Nella Valsassina lecchese il nome di bergamino era di uso corrente e non ha mai comportato alcun "disagio campanilistico". Luigi Formigoni, che fu direttore dell'Ispettorato agrario di Como (la provincia di Lecco è di recente istituzione) e fu un grande ammiratore delle capacità allevatoriali dei "suoi" bergamini (pur essendo nato a Milano da genitori modenesi). Egli, non potendo evitare di utilizzare quel nome, ormai radicato, che richiamava Bergamo, e che in qualche modo oscurava il primato dei valsassinesi, cercò di riprendere la  suggestiva, ma infondata21, ipotesi etimologica già avanzata nell'Ottocento da Stefano Jacini (e da altri autori prima di lui22) : in lingua celtica infatti berg significa monte e man uomo23.

Il caso di Formigoni indica sin dove possono condurre le ragioni del "patriottismo" ma induce anche a distinguere tra "patriottismi" popolari e quelli alimentati dagli esponenti dei ceti colti. Questi ultimi possono aver contribuito a conservare, nei confronti di altre città/territori, sentimenti riconducibili a fatti di parecchi secoli.  Il mezzo è stato il culto delle "memorie civiche", che si è perpetuato, un po' anacronisticamente, per molto tempo dopo la fine della civiltà comunale che lo aveva generato. Se, però, queste memorie diventano memoria collettiva popolare e si conservano inossidabili attraverso i secoli è perché trovano corrispondenza in elementi della realtà sociale in grado di riattualizzarli. La realtà, però, cambia profondamente e le ragioni della rivalità tra territori del passato possono diventare quelle della collaborazione. Bisogna saper superare certe inerzie mentali autolesioniste.


In vista del 2023

Oggi fare riferimento all'epopea dei bergamini ha il significato di valorizzare una storia comune a bergamaschi e bresciani. La massiccia emigrazione bergamasca nel bresciano (non è azzardato affermare che i bresciani hanno una forte componente bergamasca) ebbe una secolare componente bergamina, destinata a insediarsi stabilmente nel territorio di pianura. Non solo, ma il fenomeno bergamino nelle valli bresciane ebbe caratteristiche molto simili a quello delle valli bergamasche, tanto da poter far ritenere che il fenomeno fosse unico. I bergamini della montagna bresciana si spingevano a svernare sin nel lodigiano (come i pastori di pecore hanno poi fatto sino ad oggi). Tale Antonio de Valcamonica bergamino (così definito nel contratto), nel 1461 prendeva a soccida oltre cento bovini da latte da un affittuario di una grande possessione del vescovo di Lodi 24. Negli stessi anni, a conferma della generalità del fenomeno, una ducale emanata a Brescia (datata 14 giugno 1464) proibiva ai "malghesi", pena gravissime sanzioni, di svernare fuori dello stato veneto25 . Sappiamo, però,  che continuarono a dirigersi verso il milanese26 . Per secoli (sino al Novecento) i bergamini delle valli bresciane, mentre i bergamaschi occupavano in inverno molte cascine bresciane, si sono diretti verso il mantovano e il reggiano effettuando anch'essi una secolare transumanza a lungo raggio, come i valsassinesi e i bergamaschi.

Oggi, esaurita l'epopea dei bergamini (ma la loro "spinta propulsiva" è rintracciabile nei caratteri odierni delle strutture zootecniche e agroalimentari della bassa Lombardia), ormai lontani anche i tempi della mungitura a mano e dei bergamini-mungitori sullo scagnèl a un piede, ereditato dalla tradizione alpina (semmai fiorisce la letteratura sui bergamini-sikh)27, definitivamente consacrato nel linguaggio corrente il termine "malghese" a indicare l'uomo delle malghe-pascoli (che lui, però, chiama ancora monti, mut, montagne), una opportuna convenzione potrebbe stabilire di definire come "bergamini" i transumanti storici con vacche da latte, tra XV e XX. 

"Malghesi storici" (quelli delle malghe-greggi o malghe-mandrie, nel significato più antico ancora vivo in parte della Lombardia) andrebbero invece definiti, per fare chiarezza, i transumanti medievali, che avevano in prevalenza pecore da latte. Chiarendo che, se è indubbio il nesso tra bergamini e Bergamo, è altrettanto vero che i bergamini non erano solo bergamaschi. 

Bergamo e Brescia sono state proclamate congiuntamente “città italiana capitale della cultura 2023”. La candidatura era stata avanzata dopo la prima letale ondata dell'epidemia Covid dell'inverno-primavera 2020. Si è trattato di un moto spontaneo, teso a far prevalere su una rivalità che andrebbe circoscritta all'ambito propriamente sportivo, le ragioni della solidarietà, di forti retaggi e caratteri comuni, di relazioni basate su movimenti migratori e correnti di scambio commerciale (spesso intrecciate all'emigrazione stessa). Si tratta di un'iniziativa che punta, guardando oltre la lunga emergenza e gli aspetti emotivi, a consolidare le opportunità di collaborazione e di complementarietà tra due città e territori, non solo contigui ma anche molto simili (basta pensare alla lingua, alla gastronomia), rafforzandoli sul piano della consapevolezza culturale e - ma le cose sono strettamente connesse - su quello della messa in rete di risorse e della proiezione verso l'esterno.

In vista si questa scadenza, risulterebbe preziosa una più sistematica ricostruzione delle vicende storiche legate all'emigrazione, ai commerci, alle transumanze, in grado di inquadrare aspetti chiave che hanno definito le relazioni di lungo periodo tra Bergamo e Brescia (con tutte le loro implicazioni socio-culturali). Un lavoro del genere restituirebbe un quadro, forse inaspettato, della continuità, della sistematicità, dell'estensione dei fenomeni di osmosi tra i due territori, fenomeni che conosciamo ancora solo sommariamente (collocando e ridimernsionando anche la "rivalità" alla luce di una considerazione storica). 


Qualche spunto


In realtà abbiamo già molte indicazioni circa la stretta e costante interrelazione tra i due territori, in tempi meno vicini forse più stretta che nel recente passato. Basti pensare all'importanza degli scambi tra le valli bergamasche e Brescia attraverso la comoda via d'acqua del Sebino (quando le merci, per terra, dovevano viaggiare con le carovane di muli). Saliva grano dalla pianura bresciana (e vino dalla Franciacorta), scendevano formaggi.



1825, il 27 maggio Bortolo Bergamini di Ardesio invoca la grazia alla Madonna delle Grazie per aver salva la vita dalla tempesta abbattutasi sul lago d'Iseo. Come si vede, oltre ai passeggeri l'imbarcazione trasportava colli di merci


Rovato resterà sino alla metà del XX secolo un grande centro caseario, dove affluivano i formaggi d'alpeggio bergamaschi (tranne quelli della val Brembana che erano destinati alla stagionatura a Bergamo). Qui operarono anche ditte e famiglie della Valsassina e della val Taleggio a conferma che il centro della Franciacorta era uno degli snodi più importanti del settore di tutta la Lombardia (gli altri erano Codogno, Corsico, Milano).



Nel Seicento, quando il lanificio bergamasco era ancora florido, ma era piombato in una gravissima e irreversibile crisi a Milano, Como, Monza, Cremona e Brescia, i lanaioli di quest'ultima città presero a commercializzare il panno bergamasco. Il lanificio si restrinse poi alla val Gandino. Forse a questa supremazia bergamasca nel lanificio di deve il proverbio, diffuso nelle valli bresciane che recita: Bröt tép, br
öta zènt, pan bah, i vé töcc dal Bergamàh ( Brutto tempo [le perturbazioni atlantiche], brutta gente, panno basso [sinonimo di bassa qualità] ). 28 

Con lo sviluppo del setificio, che ebbe grande importanza nella bergamasca specie nel Settecento e nella prima metà dell'Ottocento, le campagne della bassa bresciana fornivano abbondante materia prima alle filande bergamasche. Invece, nel campo metallurgico, fu Brescia, con le sue valli, a emergere, con il grande sviluppo dell'industria siderurgica che si prolungato sino in tempi recenti.  I magistri dei forni fusori bergamaschi che, forse per primi, avevano messo a punto la tecnologia dell'alto forno, tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento emigrarono nelle valli bresciane, segnatamente in val Trompia. Ma questi non sono che alcuni esempi.

Si è già fatto riferimenti all'emigrazione. Che questa abbia creato una forte connessione tra Bergamo e Brescia era già stato messo in evidenza Paolo Guerrini nei suoi primi studi sche risalgono agli anni '40 del secolo scorso29.  Inizialmente limitati al XIV secolo, i primi studi di Guerrini sono stati poi confermati da altri autori che presero in considerazione anche il secolo successivo30. Anche la presenza di moltissimi cognomi uguali a Brescia e a Bergamo era già stata osservata da Guerrini (quando non c'era internet a rendere facili certe ricerche):  Moltissimi cognomi bergamaschi ripetono nomi di paesi e di località della vicina provincia di Bergamo, e specialmente delle sue tre valli Seriana, Brembana e Imagna, dalle quali è venuta sempre verso Brescia e il territorio bresciano una forte immigrazione di mandriani, casari, contadini, e operai di industrie varie, ma soprattutto del lanificio e della concia delle pelli 31

A Brescia l'immigrazione bergamasca tese a crescere tra XIV e XV secolo (in relazione anche all'affermarsi del dominio veneto). Nel 1388 il 51% degli estimati era costituito da immigrati, nel 1416 saliva al 54%, nel 1430 si abbassava al 47%. La quota di bergamaschi sugli immigrati fu crescente, rispettivamente del 23%, 33% e 40% alle tre date 32. Se l'emigrazione bergamasca verso Brescia risultò massiccia dopo la peste del 1349 (quando anche molti milanesi si trasferirono a Brescia), essa - diretta verso tutta la pianura lombarda - precedeva il periodo comunale e proseguì oltre il medioevo e l'età moderna, tanto che Giuliana Albini parla di emigrazione fisiologica che attraversa tutta la storia bergamasca33.

Uno dei motivi di questo fenomeno è da ricercare nel rapporto tra la città e le valli. Bergamo è una città relativamente piccola (rispetto al quadro italiano). Essa contava, verso il 1330, 10-20 mila abitanti mentre Brescia, sempre sulla base di stime, poteva superare i 40 mila abitanti. Della stessa taglia di Brescia, probabilmente più grande, era Cremona, mentre Verona era ancora più popolosa 34.

Se la città è di taglia demografica inferiore a quelle vicine, se la pianura bergamasca è poco estesa, le valli bergamasche sono, al contrario, molto vaste ed erano densamente popolate nel periodo del boom economico medievale. In esse erano attive miniere (ferro e argento) con i loro centri industriali (lana e metallurgia), i dinamici centri (Gromo, Ardesio, Gandino, Clusone, Serina, Zogno). L'emigrazione bergamasca non ha rappresentato solo un travaso dalla montagna ad altre città, sia perché lo "sfogo" costituito dalla città di Bergamo era limitato, sia perché certe professioni si potevano esercitare solo in montagna o in pianura. Gli artigiani si insediavano nelle valli, artigiani, contadini e malghesi nella pianura. Ciò ha contribuito, molto più che l'emigrazione verso Brescia, a popolare il territorio bresciano di bergamaschi (è noto che le città mantengono l'equilibrio demografico solo grazie all'immigrazione e hanno saldi naturali negativi).

Un'altra caratteristica dell'emigrazione bergamasca è che non rappresentava un'emigrazione di poveri montanari, come un inveterato cliché tende a far ritenere. Anche in tempi recenti, quando i bergamaschi emigravano all'estero (Svizzera, Francia) come lavoratori dipendenti, le loro attività erano comunque specializzate (minatori, boscaioli, carbonai, pastori). Nel medioevo e nell'età moderna era unemigrazione che riguardava anche le classi alte, desiderose di per far fortuna con i commerci 35. Così troviamo  mercanti bergamaschi non solo a Brescia ma anche nelle città venete che si occupano del commercio caseario, di cereali, di lana. E tante famiglie che, gestendo attività commerciali all'estero, sono diventate nobili (Thurm und Taxis, von Parre, Giovannelli),  Anche i facchini, peraltro, erano maestranze qualificate e ben organizzate, come dimostra la compagnia Caravana, costituita da soli nati in val Brembana. Approfondiremo questi aspetti in un prossimo articolo.

A secoli di distanza, nello spirito di amicizia tra Bergamo e Brescia dovrebbe prevalere la considerazione che bergamaschi e bresciani sono stati, insieme, protagonisti dello sviluppo di settori (caseificio, siderurgia, industria armiera, tessile) di rilievo in ambito internazionale.  Un riconoscimento che non serve certo a cullarsi sugli allori ma che deve stimolare a guardare avanti.


Guardare a ciò che accomuna due territori non significa ignorare ciò che nel passato li ha divisi. Farlo in modo costruttivo significa andare oltre l'interpretazione semplicistica che riconduce alle guerre del periodo comunale una vera o presunta inimicizia


Le "guerre" tra Bergamo e Brescia in chiave storica (e non in quella della "curva")

Se l'Oglio e il suo bacino sono stati elemento di scambio pacifico e duraturo tra Bergamo e Brescia, essi hanno rappresentato anche un innegabile elemento di forte frizione. La conflittualità legata al controllo dell'Oglio e ad alcune posizioni strategiche della Valcamonica fu molto aspra ma, se si parta di guerra guerreggiata, limitata a meno di un secolo. Le guerre tra Bergamo e Brescia non rappresentavano peraltro un fatto isolato ma la regola di un periodo comunale caratterizzato sì dalla crescita economica, dalla realizzazione di splendide cattedrali e palazzi comunali ma anche da continui conflitti, tra le città vicine e tra le fazioni della stessa città, causa spesso di persecuzioni e atrocità  36

Brescia, broletto: teoria di cavalieri ghibellini incatenati tra loro espulsi dalla città. I bandi potevano colpire numeri consistenti di "nemici interni" (anche migliaia). Le loro case erano distrutte, le proprietà confiscate


Altrove i conflitti furono anche più feroci e duraturi. Firenze riuscì a sottomettere Pisa nel 1406, dopo che, alla prima occupazione, era seguita un’insurrezione e dopo un ulteriore assedio, cui seguì il feroce sacco della città, l’uccisione o l’espulsione dei nobili pisani e la confisca dei loro palazzi (mentre a Firenze si festeggiava per le strade). Siena cadde solo nel 1559, con la pace di Cateau Cambresis che metteva fine alle guerre d’Italia tra Francia e Spagna. Cinque anni prima aveva dovuto subire un terribile assedio37. Nulla da vedere con il conflitto tra Bergamo e Brescia, durato meno di un secolo, aspro ma senza assedi e sottomissioni della città rivale.

Che la rivalità tra le due città (e relativi territori) della Lombardia orientale non possa derivare (solo o principalmente) da quanto accadde nell' XII secolo sulle rive dell’Oglio ce lo suggeriscono anche altre considerazioni. I conflitti di età comunale vedevano opposte non solo singole città ma anche delle coalizioni che si richiamavano ai partiti guelfo e ghibellino, coalizioni che comprendevano anche le fazioni "di minoranza" delle diverse città (sia che fossero state messe al bando o rimanessero nella città), e "pezzi" dei contadi. Era così anche nel caso di Bergamo e Brescia38. Di fatto, se il patriottismo cittadino era forte, quello di partito lo era spesso ancora di più.

Sant'Alessandro, un patrono molto "militarizzato" (il giglio bianco su campo rosso, come nel caso della croce è emblema ghibellino, infatti con la vittoria dei guelfi quello di Firenze divenne rosso su fondo bianco)


In Toscana l'alleanza guelfa era capitanata da Firenze ed era contrastata dalle altre città toscane (tranne Lucca) che si opponevano all'egemonia fiorentina. In compenso Perugia appoggiava Firenze. Anche in Lombardia gli scontri tra Bergamo e Brescia si inserirono nelle guerre tra guelfi e ghibellini.  Dopo la prima Lega Lombarda e la lotta contro Federico I, Bergamo, sotto la guida dei Suardi e dei Colleoni (questi ultimi con qualche ondeggiamento), diventò gradualmente ghibellina per smarcarsi dalla supremazia della troppo vicina e troppo potente Milano guelfa (come ci ricorda lo stemma cittadino "fossilizzato" al XII secolo). 


Battaglia di Montaperti


Bergamo era alleata di Cremona che, ai tempi, era città potente e capofila del partito imperiale, anch'essa contrapposta a Brescia (sostenuta da Milano) per il controllo dell'Oglio. Cremona esercitava il suo controllo su molte terre che oggi fanno parte della bassa pianura bergamasca ma Bergamo, più debole e presa nella pericolosa morsa tra altri due potenti vicini, strinse un’alleanza strategica con i vicini meridionali (con i quali rase insieme al suolo la piccola Crema).  Gli scontri tra Bergamo e Brescia per il controllo dell'Oglio e per il possesso di alcuni castelli nell'alto e nel basso Sebino, si svolsero a varie riprese riprese39.

Per rispondere all'espansionismo bergamasco in Valcamonica, nel 1156 i bresciani scesero in guerra e attraversarono il fiume occupando Palosco. Nella battaglia che ne seguì, detta delle Grimore (o di Palosco), le truppe bergamasche accorse a difesa del castrum sull'Oglio, ebbero la peggio (i bresciani attaccarono di sorpresa alle prime luci dell'alba cogliendo i bergamaschi non ancora schierati). L'esercito bergamasco ebbe 2500 perdite e i bresciani si impossessarono del gonfalone di Sant'Alessandro, estratto intriso di sangue dal mucchio di cadaveri dei suoi estremi difensori. I bresciani, in arengo (l'assemblea dei cives, cittadini con diritto di voto) dettarono condizioni di pace durissime, che i bergamaschi dovettero  subire. Ma, nel 1160, Federico I Barbarossa prese il castello di Volpino, nella bassa Valcamonica, che i bresciani avevano occupato dopo la sconfitta di Palosco, e i bergamaschi lo distrussero. 

Più grave, per i bergamaschi, fu la sconfitta del 1191 a Rudiano (sponda bresciana dell'Oglio). La battaglia vedeva al loro fianco non solo i cremonesi ma anche le truppe ghibelline di Lodi, Pavia, Parma, Tortona. Fu detta, evocativamente, della Malamorte per il grande numero di caduti (le cronache parlavano, ma è probabilmente una cifra esorbitante, di 5-10 mila), morirono , però più cremonesi che bergamaschi, molti annegati nel fiume. I bresciani, con abile mossa fecero credere che i milanesi fossero già arrivati. Ma non era vero. I cremonesi e i bergamaschi e i loro alleati, temendo di restare inchiodati  di là dall'Oglio si ritirarono precipitosamente; il ponte di legno non resse e fu strage. Il carroccio cremonese fu trascinato a Brescia.

Per l'epoca, quella di Rudiano rappresenuna battaglia sanguinosa. Per trovare un paragone bisogna far riferimento alla battaglia di Montaperti (Siena) quando l'esercito fiorentino subì una catastrofica sconfitta (10 mila morti e 15 mila prigionieri). I ghibellini fiorentini, espulsi dalla città, combatterono, ovviamente, con i senesi. Questi ultimi non volevano fare prigionieri tra i  fiorentini guelfi ma passarli sbrigativamente a dil di spada, tanto era l'odio nei loro confronti. I fiorentini, per salvare la vita, si tolsero le insegne mescolandosi con i loro alleati.

Dante era un guelfo ma, dopo la sconfitta dei ghibellini, si schiererà dalla "parte sbagliata", ovvero di quella dei guelfi bianchi ("moderati", non troppo inclini a sottomettersi al papa) e, come noto, subì l'esilio.  Con riferimento alla battaglia di Montaperti il poeta cantò: lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso40. Come l'Oglio. Ma l'analogia più importante tra Montaperti e Malamorte fu che, più che battaglie Firenze vs Siena e Bergamo vs Brescia furono battaglie tra guelfi e ghibellini.

La battaglia di Rudiano, in ogni caso, fu quella che stabilì definitivamente i confini sull'Oglio e restò impressa nella memoria dei posteri. I bergamaschi (giuramento dei “mille”) dovettero accettare delle dure condizioni di pace. Mura, il centro fortificato bergamasco che si contrapponeva alla bresciana Palazzolo (come Calepio e Trebecco si contrapponevano a Capriolo, e Cividate a Pontoglio) venne unita a Palazzolo e diventò una frazione. Che conserva però ancora una forte identità e che, dal 1936 organizza una rievocazione storica in costumi medievali (oggi con tanto di ricostruzione delle mura, in polistirolo espanso). Alle cremonesi Calcio, Pumenengo e Torre Parravicina (poi furono parte del ducato di Milano e unite a Bergamo solo nel 1798) erano contrapposte le bresciane Urago, Rudiano e Roccafranca. Un fiume militarizzato.


Festa di Mura: la ricostruzione (in polistirolo) della cinta ("filologicamente con merli ghibellini).


Una parziale rivincita fu rappresentata, per i bergamaschi, dalla battaglia di Cortenuova, combattuta nel 1237, su territorio bergamasco, tra Federico II e la Lega lombarda. I bergamaschi, peraltro, parteciparono a tutte le battaglie del periodo nei ranghi imperiali. A Cortenuova, svolsero un ruolo importante avvisando efficacemente Federico dell'avvicinarsi dell'esercito guelfo41 e attaccandolo alle spalle da Nord, impedendogli la ritirata. Molti annegarono, anche questa volta, nelle acque dell'Oglio, gonfio per le piogge autunnali, mentre cercavano di attraversarlo a nuoto per riparare a Brescia. Anche queste vicende ultime lasciarono certamente il segno.


Il Carroccio milanese, catturato a Cortenuova (con la bandiera da guerra imperiale, croce bianca in campo rosso, rimasta nello stemma di numerose città ghibelline come Como, Pavia, Asti), viene trascinato dentro Cremona. Sul carroccio, che sfilò nella città padana, per il trionfo di Federico, venne collocato Pietro Tiepolo, podestà di Milano e comandante della Lega. Il Tiepolo era figlio del doge veneziano, ma venne ugualmente impiccato.


Finì sul 2 a 1 per Brescia. Nel 1251 venne siglata una pace tra le due città che chiudeva, in modo onorevole per entrambe le parti, le ostilità. Pur non cancellando la memoria di tre sanguinose battaglie, questa pace ridimensiona la portata dello scontro tra le due città quale causa di duratura inimicizia (specie nel confronto con altre situazioni che videro coincidere la fine dei conflitti intercittadini con la definitiva sopraffazione di uno dei contendenti) .

Per alcuni (brevi) periodi, Brescia e Bergamo si trovarono persino, da città-stato indipendenti, nella stessa alleanza (in occasione della prima Lega lombarda e, per qualche decennio, dopo la sconfitta degli svevi nel secolo successivo42). Va anche detto che il quadro di schieramenti in cui si inseriva il confronto tra le due città, e che ne accentuava la portata, subì degli sconcertanti ribaltamenti. Trent'anni dopo Cortenuova, nel 1266, con la fatidica vittoria di Desio dei Visconti sui Torriani, Milano, da capofila del partito guelfo al Nord Italia, diventerà ghibellina mentre, per contrappasso, Cremona divenne guelfa.

Dall'inizio del XIV secolo, prima con il dominio visconteo, (con qualche intermezzo scaligero e malatestiano), poi con quello veneziano (con qualche intermezzo visconteo, sforzesco e francese, prima del definitivo assestamento al termine delle guerre d'Italia a metà Cinquecento), Brescia43 e Bergamo furono soggette alla medesima sovranità. Nulla cambiò nei loro rapporti territoriali sino alla costituzione del Dipartimento del Serio (ai tempi della Repubblica cisalpina). Esso, solo per qualche mese, comprese Palazzolo e, sino alla caduta di Napoleone, la Valcamonica. Questo assetto venne confermato alla costituzione del regno Lombardo Veneto e della provincia di Bergamo. Con il regno d'Italia nel 1861 la valle alpina venne invece assegnata alla provincia di Brescia. Forse, più che la contesa per la Valcamonica (che comunque riavvivò le frizioni), a tenere viva la conflittualità fu l'utilizzo delle acque dell'Oglio che, ancora nel Novecento, diede vita ad aspre controversie, alle quali neppure la “Pace dell'Oglio” siglata da tutte le utenze nel 1936 mise fine, tanto è vero che fu necessario rivederne i termini con un decreto ministeriale del 1960.




Uno scontro che non riguardava il contado

Il rintracciare nelle guerre del XII-XIII secolo le radici della rivalità tra territori bergamaschi e bresciani è un vero anacronismo. Se prendiamo in considerazione il rapporto tra le città e i rispettivi contadi nell'epoca comunale, emerge con chiarezza come la guerra tra bergamaschi e bresciani fosse una guerra tra due città con i contadi che giocavano il ruolo di colonie cittadine e che, spesso, stavano dalla parte del “nemico”44.

Bergamaschi e bresciani erano  i cives, i detentori della cittadinanza cittadina.  Il regime cittadino impose una dura oppressione ai contadi. Le decantate (ovviamente da un punto di vista urbanocentrico) "libertà comunali" erano tali solo per i cittadini. Il cittadino era giudicato da un magistrato che aveva contribuito a eleggere, ma il “rustico” doveva subire il giudizio di una magistratura cittadina che pendeva sempre a suo sfavore. L’abitante del contado, in alternativa, era soggetto ancora alla giustizia signorile (ma di un signore che, normalmente, era anche un cittadino, magari divenuto tale grazie all'usura o ai maneggi da giurista o notaio nella curia vescovile).

Andiamo avanti: la testimonianza del rustico non valeva nulla in confronto di quella del cittadino. Il regime fiscale prevedeva due pesi e due misure: i fondi dei proprietari cittadini erano colpiti in modo più lieve, circostanza che spinse, in tutta l'Italia comunale, a concentrare la proprietà terriera nelle mani dei cittadini. I signori rurali, o con le buone (regime fiscale) o con le cattive, furono costretti a urbanizzarsi lasciando il contado senza elite (cosa che spiega perché in Italia la cultura ha una costante spocchia antirurale che attraversa i secoli e le scuole intellettuali ). 

Il contado era costretto a far affluire le derrate alimentari alla città anche a costo di patire la fame, a prestare servizi militari (guardie, trasporti), di manutenzione delle strade senza aver diritto a partecipare ad alcuna decisione sulla gestione del territorio. Tutte le merci dovevano affluire ai mercati cittadini garantendo il monopolio del commercio ai mercanti cittadini. certe attività economiche erano proibite nel contado (in fornza del monopolio dei "paratici" cittadini, le corporazioni delle arti e mestieri).  In guerra gli abitanti del contado partecipavano come ausiliari, come per eseguire una corvée. A loro toccava scavare fossati e abbattere mura. Era loro concesso solo di portare armi leggere (i cittadini sapevano bene che consentire ai "villici" di tenere le armi era pericoloso). La condizione del contado era de iure e de facto coloniale 45.

Non esisteva, di conseguenza alcuna identificazione tra gli abitanti del contado e la città, anzi. Nelle prime fase dell'avvento delle signorie, l'estraneità e la contrapposizione tra la città e una parte dei territori venne persino esasperata. La Valcamonica rappresenta un caso esemplare. Forte di, più volte rinnovati, privilegi imperiali, pur rimanendo parte della diocesi bresciana, aveva mantenuto larga autonomia. Fu solo nel 1428, con la dedizione della città di Brescia a Venezia, che l'aristocrazia guelfa cittadina  riuscì a imporre la soggezione della valle che, si badi bene, nei decenni caratterizzati dai tentativi viscontei di riprendersi le terre lombarde orientali, insorse tre volte contro i bresciani-veneziani guidata da famiglie ghibelline come i Federici. La pax veneziana comportò la distruzione di tutte le fortificazioni (e infatti oggi, tranne il castello di Breno, rimangono solo pochi ruderi).




Diversa la situazione a Bergamo, dove Venezia confermò le autonomie valligiane che, nella sostanza, si mantennero per tutto il periodo di dominio della Serenissima. Alla sua caduta, la contrapposizione tra le valli e il capoluogo riprese vigore con le insorgenze anti-giacobine e anti-francesi, spesso represse dalle forze militari cittadine (giacobine)  che, in diverse occasioni, superarono in violenza repressiva le stesse truppe francesi.

Dopo che Bergamo e Brescia persero la loro indipendenza di città-stato ci vollero secoli perché si sviluppasse il moderno patriottismo a base provinciale che, reinterpretando – in modo anacronistico – i conflitti dell'età comunale, ha riproposto la rivalità tra città come rivalità tra abitanti di due territori/provincie. Questa tendenza non riguardò solo Bergamo e Brescia ma tutta Italia. Divide et impera non passa mai di moda.

Il patriottismo provinciale risale al XIX secolo, favorito dall'assetto rigidamente centralistico del potere napoleonico e sabaudo, esso si rafforzò nel XX secolo, assumendo connotati "di massa".  Un esito legato alloo sviluppo e alla moltiplicazione di apparati burocratici e di istituzioni moderne basate sui capoluoghi (prefettura, banche, giornali quotidiani, squadre di calcio, istituzioni economiche). In piccolo ciò riproduce quello che è avvenuto con la creazione degli spazi nazionali: la creazione di mondi che, quando non ostili, sono estranei. Le linee di confine hanno assunto con lo stato moderno quel carattere di discontinuità che mai avevano avuto in precedenza, con il cambio della moneta, delle leggi, della lingua (vedi il caso di territori che, con le guerre, sono passati da uno stato all’altro e che, da un giorno all’altro si sono visti imposto l’utilizzo di un’altra lingua)46.  La differenza con l’Europa medievale della libera circolazione, della lingua comune, di una comune base giuridica e religiosa (periodo luminoso, altro che “secoli bui”), è abissale47. Con frontiere presidiate, spesso chiuse. I confini provinciali non erano "sacri" ma fortemente condizionanti la vita pubblica e civile.



Paratico e Sarnico, esempio emblematico, sono unite da un ponte e sono quindi un unico aggregato urbano (sopra al tempo de Covid quando è stato compiuto un gesto simbolico ma significativo di riconciliazione anche tra ultrà). In un recente passato, vivevano però in due dimensioni provinciali diverse profondamente estranee. Di qui si legge l’Eco di Bergamo, di là il Giornale di Brescia. Con l’informazione web le cose sono in parte cambiate. Fatti come le fusioni bancarie (Ubi Banca, frutto dell’unione di realtà delle due città) e la perdita di competenze dell’istituzione provincie spingono nel senso di una “globalizzazione” ma imposta da fattori esterni, non "dal basso", consapevole. Non è così che si favorisce una potenziale collaborazione tra territori limitrofi e tra l'insieme territori delle ora svuotate provincie.

La collaborazione non si può fare tra soggetti senza una loro precisa dimensione anche istituzionale. Se il "patriottismo provinciale", specie quando degenera in sciovinismo, ostacola la collaborazione interprovinciale, le provincie, al di là dei mutevoli (nel corso della storia) assetti istituzionali e dei rapporti tra città e "contado", rappresentano uno spazio radicato nella realtà storica sin dall’alto medioevo. Ai comitati carolingi successero i vescovati, che mantennero sino all'epoca comunale un ruolo politico e hanno poi rappresentato, sino ad oggi, per gli aspetti religiosi e non solo un elemento importante, non solo sul piano religioso, ma anche su quello economico, sociale, culturale sociale entro il loro spazio.   

Dissolvere i territori in un amalgama indistinto non fa bene a nessuno (se non alle tecnocrazie euromondialiste), la consapevolezza di identità specifiche, come degli elementi accomunanti, rappresentano una ricchezza e un presupposto per la collaborazione, per lo sviluppo di complementarietà. Per non restare indietro.



Note


 1 Milesi, nato a Brescia apparteneva a famiglia discendente da un  magistro fonditore che proveniva da Roncobello, in val Brembana, all'inizio del XVII secolo.

 2 O. Milesi, Giornale di Brescia, 28 agosto 1974.

 3 G. Gallucci, Le stalle aperte, in G. Portieri, L. Cottarelli (a cura di), L'agricoltura bresciana nel secolo breve. Scritti in memoria di Ottorino Milesi, Fondazione Civiltà Brescia, Brescia, 2019, p. 30.

 4 E. Conti La proprietà fondiaria nel passato e nel presente, Cogliati, Milano, 1905, pp. 202-204.

 5 C. Bonvini, I lavoratori della terra nella bassa Lombardia, in Cultura sociale, 6 (1903) p. 90-91.

 6 F. Menant, Bergamo comunale, storia, economia, società, in G. Chittolini (a cura di) Storia economica e sociale di Bergamo, vol. Il comune e la signoria, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, Bergamo, 1999, pp. 15-182, p. 60-62.

7 A. Gallo. Le venti giornate dell'agricoltura e de' piaceri della villa, Brescia, Bossini, 1775, (ed. or. Venezia, 1566), p. 274. Per bresciani si intendono i cittadini bresciani. Era di là da venire l'attribuzione della brescianità al contado.

 8 A. Gallo. Ivi, p. 308.

 9 F. Ugoni, Memoria sopra l'Agricoltura di una porzione del Dipartimento del Mella situata al mezzo giorno in Annali dell'agricoltura del Regno d'Italia compilati da Filippo Re, Tomo V (gennaio, febbraio, marzo) 1810 pp. 3-39.

 10 Ivi , pp.23-24.

 11 D. Berra 1827. Memoria sul bestiame bovino della Lombardia  Bianchi Giovanni Battista & c., Milano, p. 49.

 12 J. Burger, Agricoltura del regno Lombardo-Veneto / del consigliere Giovanni Burger ; versione italiana del dottor V. P. ; con note del dottor Giuseppe Moretti alla tipografia Motta ora di M. Carrara Milano, 1843, p. 182. ristampa anastatatica a cura E Yvonne Dilk, Parco agricolo Sud-Milano – Provincia di Milano, 2002.

 13 Sommario delli ordini pertinenti al tribunale di provisione della citta et ducato di Milano, ecc., Cesare Malatesta, Mi­lano, 1657, p. 109.

 14 Sommario Degli Ordini Pertinenti Agli S.ri Vfficiali De L'Inclita Commvnita di Milano, Et De Li Depententi Da Essi, Et Per Vettovalie Diverse Ecc. Pontio, Milano, 1580, pp. 48, 91.

 15  M. Formentini, Memoria sul rendiconto del ducato di Milano per l'anno 1463 ne suoi rapporti coll amministrazione (etc.), Gaetano Brigola, Milano, 1870, p. 34.

16  Memorie storiche della città di Piacenza compilate dal proposto Cristoforo Poggiali Tomo primo duodecimo, Piacenza, Giacopazzi,1760, p. 72.

 17 Ho a suo tempo elencato mumerose fonti legislative e amministrative sino a tutto il Settecento in cui le autorità si riferiscono ai "bergamini., M. Corti, La civiltà dei bergamini, Centro Studi Valle Imagna, Sant'Omobono terme, 2014, p. 72-73.

 18 C. Malaspina, Vocabolario parmigiano-italiano accresciuto di piu che cinquanta mila voci, volumi 1-4, vol.1, Carmignani, Parma, 1856, p. 190; . Galvani, Saggio di un glossario modenese ecc., Tip. dell'Imm. Concezione, Modena, 1868, p.507.

  19  D. Brentana, La vita in un comune montano, Commentari  dell'Ateneo di Brescia per l'anno 1993, Apollonio, Brescia, 1934. 243 pp.

 20  G. Gorni, Il liber pergaminus di Mosè del Brolo, Centro italiano di studi sull'alto medioevo, Spoleto, 1980.

 21 L'ipotesi che pergaminus/bergamino sia trasposizione del bergman germanico è infondata per tre motivi:  1) Si forma nel tardo medioevo (prima il transumante era il malgarius e pergamaschus, bergamaschus, bergamino sono voci che nascono tardi per definire la nuova reltà del transumante bovino del tardo XIV-XV secolo); quindi non può rappresentare un'eredità longobarda o comunque germanica come arimanno (uomo libero); 2) voci composte con man (uomo) hanno dato esito -manus/-mannus (it. -mano, -manno), vedi anche landamano, turcomanno ecc.; 3) l'aggettivo bergaminus si riferisce non solo a uomini ma anche a cose.  

 22 S. Jacini, La regione delle montagne, in Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Forzani e c., Tip. del Senato, Roma, 1883, Vol VI, Tomo I, Fascicolo I, pp. 102-110. A sua volta Jacini  si era ispirato ad Albino  Parea (A. Parea, Agricoltura, in Milano e il suo territorio, vol II, Milano, Pirola, 1844, p. 143).

 23 L. Formigoni, I Bergamini nello sviluppo della classica cascina lombarda, in Informatore Agrario, a 23, (1967), fasc. 5, pp. 11-13.

 24 E. Roveda. Uomini, terre e acque. Studi sull'agricoltura della "Bassa lombarda" tra XV e XVII secolo, FrancoAngeli, Milano, 2012. p. 261.

 25 G. Mazzuchelli, Raccolta di privilegi, ducali, giudizi, terminazioni e decreti pubblici sopra varie materie ... : concernenti la città e provincia di Brescia, Brescia, Bossino, 1732, p. 295.

 26 Nel "memoriale Averoldi" del 1534, un cahier de doléances bresciano nei confronti di Venezia ci si lamenta dela decadenza dell'agricoltura e si rimpiange il secolo precedente quando scendevano i malghesi dalle Alpi a consumare i fieni, pur continuando a svernare nel milanese dove li pagavano meno.A. Zanelli, La devozione di Brescia a Venezia e il principio della sua decadenza economica nel secolo XVI, in Archivio storico lombardo, (1912), pp. 23-100 (p.48).

 27 Una sociologia che ha sempre provato diffidenza per il rurale si accorge delle campagne solo per occuparsi di fenomeni più o meno effimeri che in realtà riguardano i temi main-stream: la fabbrica fordista (ecco allora che ci fu la stagione di studi sui metal-mezzadri), l'ambientalismo urbano (gli studi sulla "fuga dalla città" e il "neoruralismo"), l'immigrazioe extra-comunitaria (gli studi sui bergamini-sikh).

 28 Michela Capra, comunicazione personale (raccolto in val trompia dall'informatore Costanzo Caim).

 29 P. Guerrini, I bergamaschi a Brescia descritti dall'estimo visconteo del 1388, in Bergomum, 38, 1944, parte speciale n. 2, pp. 1-21.

 30 G. Bonfiglio Dosio, L'immigrazione a Brescia fra Trecento e Quattrocento. Ed. scientifiche italiane, 1984.

 31 P. Guerrini, Appunti: su argomenti diversi: curiosità linguistiche e dialettali, tradizioni e feste, folclore nomi e luoghi, notizie e personaggi di storia e cronaca,  Edizioni del Moretto, Brescia, 1987, p. 159.

 32 G. Albini, La popolazione di Bergamo e del territorio tra XV e XVI secolo,  in G. Chittolini (a cura di) Storia economica e sociale di Bergamo, vol. Il comune e la signoria, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, Bergamo, 1999, p. 229. 

 33 Ivi, pp. 213-256.

34 M. Ginatempo, L. Sandri, Italia delle città Italia delle città : il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento, secoli XIII-XIV, Le lettere, Firenze, 1990.

 35 La transumanza è strettamente legata a queste forme di emigrazione delle elite. Françoise Menànt ha messo in evidenza come la transumanza in pianura si appoggiasse , soprattutto per gli aspetti commerciali su reti di esponenti valligiani precedentemente insediatisi in pianura. Una situazione che interessava in modo particolare una città di neo fondazione come Crema
F. Menànt, Campagnes lombardes du Moyen Age. L’économie et la société rurales dans la région de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle,
Ecole française, Roma, 1993.

 36 Quasi tutti gli anni, i comuni erano in guerra tra loro o con o contro l'imperatore e l'esercito comunale era spesso impegnato in esercitazioni. Di conseguenza organizzazione militare per quartieri era una base importante dell'articolazione del potere comunale e della stessa identità collettiva sino alla "militarizzazione" del santo patrono. F. Menant. L'Italia dei comuni (1100-1350), Viella, Roma, 2011, (in particolare pp.197-199).

 37 A Siena, assediata dagli spagnoli, 4.400 “bocche inutili” furono espulse dalla città per alleggerire la pressione sulle riserve di cibo. Gli spagnoli li rigettarono verso le mura e ¾ morirono. G. Alfani, Il Grand Tour dei Cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del “lungo Cinquecento” (1494-1629), p. 46. Il proverbio “Franza e Spagna purché se magna” è citato a denigrazione degli italiani ma, a quei tempi il “se magna” voleva dire scampare alla fame e al saccheggio.

 38 La divisione tra guelfi e ghibellini non era certo solo un fatto che opponeva città a città. Essa contrapponeva famiglia a famiglia, cittadini contro cittadini. Molto importante era la contrapposizione tra la città e il contado che il comune, specie nella fase più tarda, con la presa del potere da parte del “Popolo” opprimeva e sfruttava come una propria colonia. I contadi di solito erano di colore politico (giallo ghibellino/rosso guelfo) opposto alla città ma, a volte anche i contadi erano divisi anche al loro interno. Nelle valli bergamasche che, è bene ricordare, ottennero autonomia e privilegi solo all'epoca delle signorie e, segnatamente da parte dei Visconti, prevaleva – come altrove - la fazione che era all'opposizione in città e i cui esponenti di spicco si rifugiavano nelle signorie del contado. Dal momento, però, che in città i due partiti non prevalevano in modo nello (a differenza di Brescia guelfa), anche le lotte cittadine si riflettevano sul contado. Così la bergamasca conobbe i conflitti guelfi-ghibellino più sanguinosi e diffusi, con un secolo di ritardo rispetto alle altre realtà dell'Italia centro-settentrionale, ovvero nel XIV secolo e non nel XIII. Menant, op. cit., 1999.

 39 La vendita dei tre castelli di Volpino, Ceratello e Qualino da   parte della famiglia Brusati, con legami sia nella sfera bresciana  che in quella bergamasca, a un "consorzio" di signori bergamaschi, allarmò  Brescia che vi intravide una volontà di penetrazione politica bergamasca in Valcamonica e determinò il conflitto  armato. P. Bianchi, Fra Bergamo e Brescia: poteri signorili tra         Sebino e  Valcamonica (XI-primi XIV sec.) in Bergamo e la   montagna nel Medioevo. Il territorio orobico fra città e poteri   locali, a cura di Riccardo Rao. In Bergomum. Bollettino annuale  della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, 104-105  (2009-2010), pp. 107-136.

 40 Inf. X, 85-88.

 41 Venne data alle fiamme una chiesa a Cividate al piano; la colonna di fumo  era il segnale che i milanesi,  i bresciani e gli altri guelfi,     avevano passato i  ponti in pietra di Palazzolo e Pontoglio (quelli  in legno più a valle erano stati distrutti dagli imperiali).

 42 Dopo il 1260 le sconfitte degli imperiali spinsero non poche città compresa Bergamo - a cambiare fronte (ma solo temporaneamente).

 43 La città del leone entrò prima nell'orbita viscontea con la signoria del  vescovo Berardo Maggi, legato  ai Visconti e filo-ghibellino, premessa di una (temporanea) pacificazione cittadino.

 44 È bene precisare che nella contrapposizione ideologica tra il partito guelfo e quello ghibellino non valevano solo considerazioni ideologiche (il primato dell’impero rispetto al papato) o di pura opportunità (se il mio nemico è guelfo io sono ghibellino). La frattura era anche di tipo etno-culturale-sociale-territoriale. Con i guelfi più legati ai grandi interessi economici urbani, proto borghesi (credito e commercio), all’aristocrazia elevata ma più recente, incline ad appoggiare demagogicamente il “Popolo” (compresa, per manovrarla, la componente popolare autentica degli artigiani e dei piccoli commercianti). Questa aristocrazia (tendenzialmente) guelfa vedeva nel possesso fondiario solo uno strumento di prestigio e di estrazione di rendite. Era l’epoca in cui l’ideologia comunale antirurale, che si espresse – proprio nel XII secolo – con la “satira del villano”, considerava i contadini alla stregua di animali da lavoro. Mentre i ghibellini legati all’eredità longobarda, allo spirito feudale, all’antica nobiltà rurale orientata a un principio di valorizzazione della terra tutt’altro che retrogrado. Lo storico bresciano Bernardo Scaglia vede, almeno nel contesto bresciano, la lotta tra guelfi e ghibellini, (che per lungo tempo, oltre che sul piano politico si espresse anche in ambito religioso con la contrapposizione tra il vescovo di Brescia e l'abate del monastero benedettino di Leno), uno scontro tra i grandi interessi economici urbani e i nobili rurali. I primi che vedevano nel contado solo uno spazio da dominare, da cui estrarre rendite e tributi imponendo il rifornimento alimentare delle città (anche a rischio della carestia nelle campagne) e i nobili rurali che non avevano accettato di inurbarsi, quindi uno scontro tra città e una campagna , ma una campagna ben diversa dalla propaganda cittadina, capace di impegnarsi in opere collettive di bonifica, di darsi istituzioni articolate , di dar vita a borghi dinamici a carattere artigiano-commerciale (B. Scaglia, La nuova agricoltura. Gallo e Tarello, in, Storia dell'agricoltura bresciana, vol I, Brescia, Fondazione Civiltà bresciana, 2008, pp. 121- 165 ). Interpretazioni simili, in senso sociale ma con implicazioni etno-culturali (che riconducono il ghibellinismo alla componente longobarda) si trovano anche in R. A. Lorenzi, Medioevo camuno : proprietà, classi, società , Brescia, L. Micheletti,1979.

 45  Su questo tema: R. Mucciarelli, G. Piccinni, G. Pinto, (a cura di), La costruzione del dominio cittadino sulle campagne: Italia centro-settentrionale, secoli XII-XIV. Protagon Editori Toscani, 2009; Menant, op. cit., pp. 40-42, 80-81; 2011; per Bergamo: Menant, op. cit, 1999, pp. 51-53, 83-91.

 46 Un caso recente è quello dell’annessione da parte della Francia dei  territori  nelle Alpi marittime. Anche lo stato italiano non fece di meglio nei  confronti  degli sloveni e dei tirolesi nei territori annessi con l'occupazione  militare nel 1918.

 47 L’inquisizione e la persecuzione religiosa organizzata e feroce sono  moderne, non medievali. Ma, come è noto la modernità ha avuto buon gioco a retroproiettare al "cupo medioevo" le sue nefandezze.



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