In vista del
2023 (Bergamo-Brescia "capitale della cultura"), l'inzio di una
"riscoperta", anche a Brescia, dell'epopea dei bergamini,
rappresenta un positivo segnale
nella direzione del riconoscimento di un capitolo di storia sociale che
accomuna le due provincie
di Michele
Corti
La "transumanza" a Bagolino. Dalla
Valsassina alla val Sabbia, ferro e formaggio contraddistinguono
un comprensorio caratterizzato da grandi competenze nella metallurgia,
nel caseificio e nell'allevamento. Il comprensorio dal quale, per
secoli, si sono dirette, verso le pianure lombarde, emiliane, venete,
piemontesi, le correnti di transumanza dei bergamini lecchesi
(storicamente milanesi), bergamaschi e bresciani.
(28/11/2020) Sul Giornale di Brescia,
due settimane fa, è apparso un bell'articolo di Claudio Baroni nella
pagina della
cultura (segnalatomi da Stefano Manzoni di Fara Gera d'Adda, originario
di Morterone, paese di bergamini). Un frutto del riconoscimento, da
parte dell'Unesco, della
transumanza quale "patrimonio immateriale dell'umanità". Esso ha spinto
a "guardare in casa" alle transumanze, sia a quelle storiche che a
quelle attuali, che
hanno caratterizzato e caratterizzano i nostri territori lombardi.
Parlando di una famiglia
originaria di Castione della Presolana (Bg), i Tomasoni, che praticava
la transumanza con le proprie vacche da latte
verso la bassa bresciana, l'articolista si riferisce a loro come
"bergamini" e chiarisce con precisione le modalità essenziali della
transumanza.
Citando il libro che Piergiuseppe Tomasoni, emigrato in Germania, ha
voluto scrivere per omaggiare l'epopea dei suoi avi, ma anche di tutti
i
"bergamini", l'articolo ricorda come, tra le due guerre, i "bergamini"
avessero preso in affitto, o acquistato, fondi agricoli nella bassa
bresciana. Tra i cognomi citati: Tomasoni, Toninelli, Chiodi, Armanni,
Ferrari, Migliorati, Cozzi. Ma ce ne sono tantissimi altri.
Ottorino
Milesi1, non dimenticato
direttore
dell'Ispettorato agrario di Brescia, sulle colonne dello stesso GdB,
scriveva nel 1974 a proposito di una famiglia di "mandriani"
scriveva :
Parlano
con orgoglio delle loro origini di montanari bergamaschi ed assicurano
che sui registri degli statuti del loro paese risultano dati certi di
diritto al pascolativo risalenti al medioevo. Come loro vivono ancora
un centinaio di famiglie di mandriani nomadi (i Bertocchi, i Boldini,
gli Olini, i Tanghetti, i Poli, i Campana, i Belotti, ecc.2
È interessante osservare
come nell'elenco di Milesi non figuri alcuna famiglia bergamina citata
da Tomasoni, segno della loro numerosità. Nonni
materni di Piergiuseppe Tomasoni erano, per esempio, i Vitali di
Pizzino (val Taleggio). Piergiuseppe, oltre a ricostruire la genealogia
dei Tomasoni, è risalito anche agli avi Vitali scrivendo un altro libro
in due vol. ("gli antenati", "i discendenti", con riferimento ai nonni
materni). Il libro mi è stato segnalato da Massimo Vitali di
Gorgonzola, figlio di bergamini di Pizzino fissatisi come agricoltori a
Gorgonzola e discendente anch'egli dei nonni di Tomasoni).
Agostino
Antonio Vitali era nato a Soncino mentre la moglie a Orzinuovi
(classico polo di attrazione dei bergamini per la grande estensione di
coltivazioni foraggere frutto delle secolari bonifiche della
"campanea").
Reperto conservato presso il Museo Etnografico "Giacomo Bergomi" di Montichiari (BS)
Il
Vitali morì a Castel Mella. Attraverso queste vicende
famigliari si segue la traiettoria dei bergamini che, da transumanti
diventavano fittavoli e da fittavoli - sempre in forza delle loro
capacità imprenditoriali - proprietari dei fondi (continuando a
condurli e ad allevare bestiame che, fino a dopo la seconda guerra
mondiale, almeno quello asciutto, continuavano a portare in estate in
montagna). Non tutti i bergamini facevano fortuna. Dalle famiglie
numerose, per eccesso di bocche e di braccia o per desiderio di
indipendenza o per dissidi si staccavano membri meno intraprendenti che
si adattavano al lavoro salariato sfruttando le competenze acquisite
fin da ragazzi. Nemmeno tutti i Vitali, come indica il reperto della
fotografia seguente.
Sgabello
da mungitore appartenente a Bono Vitali, conservato presso il Museo
Etnografico "Giacomo Bergomi" di Montichiari (BS)". L'uso dello
sgabello con un solo piede è chiaramente derivato dalla montagna (dove
il pendio impedisce di usare quello a tre gambe)
Le
parentele bergamine costituiscono una rete che lega tra loro le valli e
le pianure, al di là dei confini provinciali (che, un tempo, potevano
essere anche di stato). Basti
dire che, ai Vitali di Pizzino, sono collegate famiglie dell'alta val
Seriana (come i Messa, come ricorda l'amico Andrea che, da bambino
compì una delle ultime transumanze a piedi da Nasolino a Leno) e di
altre valli. Lo "scambio
matrimoniale" avveniva in pianura ma, dal momento che le famiglie
potevano frequentare ora il milanese, ora il cremonese, ora il
bresciano, ora il novarese, la rete era estesissima.
Un
aspetto significativo
dell'inedito interesse per i "bergamini" (la "passione" dei Tomasoni
per la
genealogia accomuna anche altri discendenti di questa "tribù"), è
il riconoscimento del loro
rappresentare un elemento importante che accomuna Bergamo e Brescia.
Stampo per il burro con il nome "Tomasoni" conservato presso il Museo Etnografico "Giacomo Bergomi" di Montichiari (BS)".
Il museo è intitolato al pittore, nato nel 1923 a Orzinuovi da famiglia
di fittavoli origini bergamasche (Adrara San Martino). Per la sua
pittura realistica utilizzava oggetti della vita contadina ritratti dal
vero. La sua collezione ha costituito il nucleo del museo di
Montichiari, il più importante della bassa bresciana. Il cognome Bergomi è diffuso soprattutto in provincia di Brescia dove supera nettamente Bergamini (massima frequanza a Rovato).
Molti
agricoltori e allevatori della bassa bresciana (nel tempo divenuti
anche titolari di caseifici e salumifici), hanno origini
bergamasche in
quanto discendenti di bergamini. L'acquisto di fondi da parte di questi
ultimi è proseguito anche dopo l'ultima
guerra. Giuseppe Gallucci, zootecnico dell'Ispettorato agrario di
Brescia, basandosi
suoi ricordi degli anni '60, scrive che al tempo:
... erano molti gli allevatori delle valli
bergamasche che venivano a svernare nella pianura con tutta la
famiglia. Gli stessi frequentavano poi i mercati di Rovato e di
Montichiari dove portavano i loro prodotti caseari. Risparmiando al
massimo, molti poi hanno comprato le aziende dove le loro bovine
mangiavano il fieno durante l'inverno3.
La sottolineatura della
capacità di risparmio dei bergamini è comune a molti degli
autori che si sono occupati di loro. Dal momento, però, che non
bastava, neppure in passato, privarsi di un pezzettino di carne per
acquistare un'azienda agricola, che non bastava l'avarizia e la
tesaurizzazione... ma bisognava anche guadagnare, dietro quel
rinfacciare
ai bergamini il "risparmio feroce", c'era l'invidia sociale (di chi
stava in alto, ma anche in basso, nella scala sociale) per quelle
capacità
tecniche e organizzative che consentivano loro, quando non
"mandati a gambe per aria" dal tagliù
(l'afta epizootica), di
diventare fittavoli e poi proprietari. Persino
i salariari disprezzavano i bergamini, quei salariari che, , sempre
sotto la minaccia di essere licenziati a San Marino, se avevano
in tasca qualche soldo lo usavano per le bevute all'osteria o
sfoggiando il
vestito "della festa" di foggia cittadina. Il bergamino, invece, non
aveva
complessi di inferiorità nei confronti della cultura cittadina; la sua
era un'identità forte, si vestiva da montanaro anche quando si recava
mercato in piazza a Brescia o a Milano. Non aveva bisogno di
cammuffarsi da cittadino (però esibiva orecchini e orologi da tasca
d'oro).
Il
risentimento, l'invidia nei confronti
dei bergamini emerge bene, siamo nei primi anni del Novecento, nelle
parole
di un grosso esponente della proprietà fondiaria milanese, il senatore
Ettore Conti che, polemizzando con i fittavoli "liberisti" (lui era un
conservatore filantropo) rinfacciava loro l'origine
bergamina:
Chi
sono e che cosa sono poi questi fittabili? Salvo le debite eccezioni,
la prosapia loro discende dalle Alpi. Probabilmente i trisavoli dei
presenti conduttori erano bergamini
che
a furia di stenti e di economie riuscirono a mettere insieme quanto
occorreva per spodestare, offrendo aumento d’affitto al
proprietario od a’ suoi amministratori, il fittabile che da
parecchi anni dava loro l’asilo invernale e vendeva il fieno per il
mantenimento delle loro mandre. Questi mandriani, se furono felici e
contenti di aver posto fine alla loro vita randagia non per ciò
abbandonavano il loro sistema di economia feroce. Economia in tutto e
per tutto, salvo che nella figliolanza, creata prodigalmente. Così,
con virtù indiscutibili, ma che portate alla esagerazione diventano
difetti gravi e deplorevoli, colla loro sobrietà riuscirono a
mettere insieme quanto, alla loro morte, poteva abbisognare, a
ciascuno dei figli maschi per l'acquisto o l'impianto di nuove
aziende agricole4.
Per
comprendere perché i
bergamini, in quanto fenomeno economico e sociale, abbiano ricevuta,
sino a oggi, scarsa attenzione in sede storica e scarsi apprezzamenti
dai contemporanei
(tranne che da parte dei veterinari, compresi alcuni accademici) è
necessario anche far riferimento
a quella ostilità e diffidenza che viene riservata
dagli "stanziali" ai "nomadi", anche se onesti e industriosi (gli si
riconosceva sempre la puntualità e la precisione nei pagamenti). Come
visto, poi, i bergamini, entravano a
volte in concorrenza con i fittabili (per "spodestarli") e,
indirettamente, anche con altre
categorie agricole. Al tempo della formazione delle prime leghe
bianche nella
bassa
bresciana, i “malghesi bergamaschi” venivano accusati di essere
tra le cause dei bassi salari dei lavoratori agricoli in quanto, con
la loro proverbiale parsimonia, potevano accettare patti che tendevano
a
mantenere alti gli affitti dei fondi, il che poi spingeva i fittavoli a
rifarsi sui salariari5.
Quanto,
una certa
ostilità nei confronti dei bergamini abbia contribuito ad alimentare un
sentimento poco amichevole nei confronti dei bergamaschi (almeno in
certe zone) o quanto possa essere stato vero l'inverso (ovvero che ai
bergamini fosse oggetto di diffidenza in quanto bergamaschi), è
difficile
stabilire in assenza di elementi probatori.
Di certo, come vedremo in
seguito, i massicci e perduranti flussi di emigrazione dalle valli
bergamasche verso il territorio bresciano (montagne e pianura) possono
aver determinato, o quantomeno contribuito a determinare, forme di
concorrenza e di invidia. Ovviamente da
considerare tenendo in relazione ai ceti sociali coinvolti (come
insegna la differenza di atteggiamento nei confronti dell'attuale
immigrazione straniera dei ceti privilegiati e di quelli popolari).
Nel prendere in esame
l'emigrazione bergamasca, va considerato il fatto che, non
solo i bergamini ma anche i bergamaschi di altre
categorie professionali, formavano, secoli fa, comunità
tendenzialmente poco integrate,
orgogliose
della loro origine e forti della consapevolezza delle loro capacità.
Costituita da personale altamente qualificato: minatori, maestri di
forgia, bergamini, le comunità bergamasche era oggettivamente forti
di competenze specifiche,
tramandate da generazione in generazione (il che spingeva
all'endogamia). Va
notato che, nei secoli passati, anche il mestiere di allevatore e
di casaro
"professionale" rientrava tra quelli ai quali si associavano
competenze arcane, segreti professionali al limite della
magia (come i fabbri). In tempi dei quali si
conserva la memoria orale, il pastore, il bergamino (come altri
"nomadi") erano
oggetto, al tempo stesso, di diffidenza e di ammirazione. A loro si
chiedevano
previsioni del tempo e magari rimedi e trattamenti "terapeutici" al
limite della magia (tra i bergamini vi erano dei guaritori degli
animali e degli uomini).
Antiche
pratiche terapeutiche popolari
Le comunità bergamasche
erano, non solo nel bresciano:
...salde
e
inassimilabili dall'ambiente
in cui vivono; le loro tecniche, la loro personalità collettiva, i
legami intrattenuti con la loro patria, mantengono ed esaltano il
senso che hanno della loro identità. Il reclutamento degli
apprendisti e dei successori in terra bergamasca, spesso all'interno
della loro stessa famiglia, permette loro di perpetuare le loro
piccole collettività6.
La
transumanza, più di ogni altra attività, favoriva il mantenimento di
legami con le valli di origine. Ma il bergamino, in realtà, pur
rimanendo legato al paese era spesso visto come uno "straniero" anche
nei villaggi natii. Un atteggiamento che viene da lontano (quando, per
limitare l'accesso ai beni collettivi scarsi: boschi e pascoli, le
comunità classificavano come straniero chi si assentava, in inverno in
modo da ridurre il numero delle famiglie con cui "dividere la torta").
Con la diffusione della pratica di affittare i "monti" (alpi pascolive)
da parte dei comuni , in croniche difficoltà finanziarie a causa della
pressione fiscale, i bergamini, in molte zone, forti della loro
capacità economica, monopolizzarono i pascoli lasciando ai
contadini-allevatori stanziali solo magri pascoli. Di qui una
situazione ambigua: da una parte i bergamini, pagando elevati canoni di
affitto, tenevano in piedi le casse del comune a tutto vantaggio della
popolazione stabile, dall'altra, occupando la maggior parte dei pascoli
estivi, lasciavano scarse risorse per praticare l'allevamento ai
locali. Di fatto tra bergamini e marà
(questo il "titolo d'offesa" riservato ai piccoli contadini-allevatori
della montagna), c'era ostilità, diffidenza, ostilità. I bergamini
erano chiamati dalla gente di montagna (ma anche da quella di pianura) schisciaboasce, ovvero
"calpestatori di escrementi bovini". Alla gente di pianura (di basso
rango) i bergamini riservavano l'epiteto di mòch. Per i bergamini,
l'origine montanara era parte del sentimento di identità di gruppo.
Spesso poi il luogo di origine era rappresentato da un nucleo rurale,
da una frazione abitata solo da bergamini e distinta da altri
insediamenti (abitati dai marà).
Era comunque il clan che contava (le famiglie multiple patriarcali
collegate tra loro), poi venivano gli altri bergamini, poi i pastori di
pecore ("cugini"), poi, eventualmente, gli altri. Non si trattava
ovviamente di gerarchie di "sentimenti" ma di concreta solidarietà di
gruppo che si manifestava nel bisogno, merce preziosa (oggi non ce ne
rendiamo conto perché ci sono le assicurazioni, il servizio sanitario,
l'assistenza sociale) che si doveva scambiare in modo oculato. Non era
"grettezza", non era "chiusura egoistica", "tribalismo".
È quindi anacronistico
attribuire ai bergamini un patriottismo valligiano o bergamasco, almeno
se ci riferiamo ai secoli passati. Queste considerazioni servono di
avvertenza nei confronti dell'applicazione al passato di categorie
moderne. La diffidenza tra immigrati bergamaschi (bergamini compresi) e
comunità bresciane va interpretata alla luce di quanto sopra.
In ogni caso è
comprensibile una certa "territorializzazione" dei sentimenti reciproci
tra bresciani e immigrati bergamaschi. Questi ultimi non potevano non
guardare con invidia alle risorse bresciane (miniere che si esaurirono
più tardi, un' industria
siderurgica di più lunga durata, una grande pianura agricola). Le
rivalità territoriali diventano forti quanto più
interessano
collettività simili e portano a non far volentieri riferimento
all'altro, specie se per
riconoscergli meriti. Per questo, molto
probabilmente, i bresciani
non usavano chiamare "bergamini" i
proprietari delle mandrie transumanti; avrebbe implicato il
riconoscimento di una "primazia" bergamasca.
Sempre
per inquadrare nel loro giusto contesto le "rivalità territoriali" tra
vicini, come non dimenticare il dialogo nei Promessi sposi (cap.
XVI) tra Renzo e il cugino Bortolo, che lo fa assumere dal padrone di
una filanda bergamasca? Bortolo mette sull'avviso Renzo che, se vuole
lavorare nella bergamasca, deve accettare di essere qualificato
come "baggiano" dai bergamaschi, in quanto milanese. Renzo trova la
cosa inaccettabile perché gli sembra un'ingiuria terribile, da lavare
col sangue. I milanesi, del resto, ricambiavano. Senza ricorrere a
epiteti insultanti, fecero dello stesso appellativo "bèrgom" (bergamasco), un'ingiuria. Fà minga el bèrgom. Pan per focaccia.
Bergamini/malghesi: le eccezioni confermano
la regola
Jacopo da
Bassano, l'Annunciazione ai pastori (metà XVI secolo)
Agostino Gallo, il
grandissimo agronomo bresciano del Cinquecento, mette in bocca a messer
Avogadro, nobile proprietario bresciano, la seguente espressione: Sempre io amai
grandemente voi malghesi e pecoraj; perché in vero siete di molta
comodità e di utilità a noi Bresciani7.
Un
apprezzamento che parrebbe smentire le considerazioni precedentementi.
Ma l'apprezzamento dell' "utilità" di figure
come i malghesi e i pecorai si modifica
nel tempo, oltre che dipendere dal tipo di relazione con la quale i
transumenati entrano con i diversi attori sociali.
Nel
Seicento, contro le pecore, vi saranno "bandi" e "grida" minacciose,
espressione di una forte ostilità di alcuni interessi agricoli.
Un'ostilità complessa peraltro, perché i
grossi proprietari nobili, così come i piccoli agricoltori
indipendenti,
continureranno ad accogliere volentieri i pastori.
Certo è che i
bergamini apportavano
due elementi fortemente deficitari nella pianura bresciana, almeno sino
agli
ultimi decenni dell'Ottocento: il letame e i latticini. La loro utilità
era quindi indiscutibile.
Agostino Gallo diede
anche una definizione del "malghese":
Al bestiame grosso, cui
non ponno bastare pochi bocconi qual di passaggio carpiti, provvede
all'intero loro mantenimento il Pastore, chiamato malghese. Compra il
fieno per l'inverno: ha in aggiunta un poco di pascolo per l'Autunno,
e alle basse ancora per Maggio, poi per la State prende in affitto
de' pascoli nelle montagne per la frescura8.
Il
grande agronomo parla spesso nella sua opera di "malghesi bresciani"
(per esempio per raffrontare il loro formaggio - l'odierno bagoss o
nostrano di val Trompia - a quello dei colleghi piacentini - il grana).
Non fa riferimento ai bergamaschi (probabilmente perché frequentavano
allora solo la fascia occidentale della pianura irrigata dall'Oglio),
ma dimostra
di conoscere la voce "bergamino" che utilizza però solo due volte, nel
capitolo sui fieni, mentre, in quello sui malghesi, è presente solo la
voce "malghese" (otto volte). Come mai?
Secoli dopo, Don
Francesco Ugoni, discendente
di antica famiglia comitale bresciana, oltre a gestire le
proprietà
di
famiglia a Pontevico, ed educare i nipoti orfani (Camillo e Filippo,
letterati e rivoluzionari), fu autore - all'inizio dell'Ottocento - di
diverse opere agronomiche. Sui
prestigiosi Annali di agricoltura,
curati dall'agnonomo bolognese Filippo Re, pubblicò una Memoria sopra l'agricoltura di una
porzione del Dipartimento del Mella [la futura provincia di
Brescia, senza la Valcamonica] situata
a mezzo giorno9. In quest'opera fece un
interessante cenno ai bergamini, anzi ai "bergamaschi":
Prima
della epidemia bovina, che tanto infierì per tutta l’Italia
nel 1796, 1797 e 1798; molti erano i malghesi
del paese che consumavano colle loro vacche i
fieni delle praterie
stabili [...] Ma dopo la
strage de’
bestiami avvenuta, la massima parte dei malghesi
suddetti è andata a male, e sono pochissimi quelli che hanno potuto
conservare. le loro vacche, onde presentemente nell’inverno viene
qualche malghese
o bergamasco delle
nostre valli a consumare parte
del fieno delle cascine,
i latticinj dei quali sono appena appena bastanti per a popolazione 10.
Ex voto settecentesco.
Alcuni bergamini invocano Sant'Antonio da Padova e Sant'Ambrogio perché
intercedano presso la Vergine con il bambino affinché protegga il loro
bestiame
Come si vede, anche a
Brescia era noto il termine "bergamasco",
utilizzato per indicare, per antonomasia, il transumante con mandrie
"da formaggio". Pergamaschus
è utilizzato, insieme a pergaminus,
nel XV
secolo, poi, però, nella forma italiana di "bergamasco" diventò
raro. Mano a mano che l'uso comune dell'aggettivo "bergamino",
riferito anche a
manufatti di origine bergamasca, per indicare "di Bergamo" diventava
arcaico, il sempre più usato "bergamasco" rappresentava un riferimento
esplicito a qualche nesso con Bergamo. Ugoni
non aveva però remore a parlare di "bergamaschi delle nostre valli",
quindi bergamaschi... bresciani. Un vezzo letterario o la registrazione di un uso corrente? Comunque
un'eccezione.
Chiarisce il carattere di
quasi-geosinonimi della coppia "bergamino"/"malghese", il
milanese Domenico Berra, un
ricco avvocato agricoltore e
allevatore con una "bergamina" a Crescenzago, oggi comune di Milano.
Egli
scrisse negli anni '20 dell'Ottocento;
I
Bresciani chiamano Malghesi
que’ proprietari di mandrie di vacche i quali [...] alla fine di
settembre poi o al più al principio
dell’ottobre scendono con le loro mandre alla pianura ove rimangono
infino a maggio, mantenendo il bestiame con erbe e fieni comprati. Di
questi proprietarj di vacche noi ne abbiamo tuttora moltissimi nel
Milanese, Lodigiano, Pavese e Cremonese e sono detti volgarmente Bergamini11.
Un osservatore super
partes, l'agronomo bavarese Joannes Burger, trattando dell'agricoltura
del Lombardo-Veneto, osservava che i transumanti erano chiamati
sia "bergamini" che "malghesi" e che provenivano dalle montagna di
Bergamo
e
di Brescia:
Come ho
già detto altra volta, essi si
chiamano Bergamini o Malghesi. Se
ne trovano ancora molti in Lombardia e nelle provincie di Mantova e
di Verona, benchè il loro numero, a confronto degli anni andati,
siccome ho inteso dire, sia d'assai diminuito. Nelle montagne di
Brescia e di Bergamo vi sono del pari che in Isvizzera de'proprietari
di bestiame, i quali non possedono in patria che quel tanto di terra
che basta per alimentare le loro vacche nella state, e nell'autunno
vengono giù alla pianura a cercar pascolo ne'campi per quella
stagione e pel successivo inverno. Perchè essi vengono
da Bergamo furon detti Bergamini, e
di qui fu derivato il nome di Bergamina alla
mandra di vacche destinata alla produzione del formaggio12.
La variazione
lessicale dipende non solo dall'area geografica ma anche dall'epoca e
dal contesto d'uso.
Berra riferiva che la voce
"bergamino" apparteva al registro "volgare". Divenne così
nell'Ottocento, non certo nei secoli precedenti. Gli Ordini di provvisione (regolamenti
annonari) di Milano del Cinquecento
e del Seicento citano parecchie volte i
"bergamini" a proposito della vendita al minuto dei latticini sul
mercato "della balla"13 (i mercati contadini per
la vendita diretta non solo una novità). Essi erano anche
menzionati a proposito del divieto loro imposto di pascolare e
acquistare fieno entro un raggio di cinque
miglia dalle mura cittadine14 (onde non far
concorrenza sul mercato del
fieno cittadino in un'epoca di numerose, sontuose e pesanti
carrozze).
Se facciamo un passo
indietro nel tempo (al Quattrocento), vediamo
che l'erario ducale milanese otteneva ottimi cespiti dal salpergaminorum, il sale destinato ai
bergamini (che dovevano salare i formaggi)15. A Piacenza, come in
altre città, il commissario addetto alla tassa sul sale si occupava
anche, tra gli altri, del seuddetto salpergaminorum16. Per tutto il
Settecento secolo, nello
Stato di Milano, il termine "bergamino" era utilizzato in inchieste
ufficialie provvedimenti fiscali 17. Ma era così anche nello
Stato veneto, a Bergamo, come si evince dal seguente proclama di
sanità del 1761.
Con la perdita di
importanza (relativa, non in termini assoluti) della transumanza dei
bergamini, la voce passò a un registro "gergale" e "volgare" e, negli
atti ufficiali, e comunque nella forma scritta, si dette la preferenza, anche nell'Insubria, a "madriano" e
"malghese", ritenuti termini più "tecnici". Il significato di
"bergamino" scivolò, da quello che aveva avuto per secoli di
"proprietario di mandrie transumanti", a quello di casaro, capo-stalla
e, in ultimo, di "mungitore"
(ci sono contratti sindacali degli anni '60 del Novecento nella bassa
Lombardia e nel basso Piemonte che la utilizzano con questo
significato).
Oltre al bergamino c'era
anche la "bergamina", che non era la donna delle famiglie di bergamini,
ma la
mandria, la stalla o anche la singola vacca da latte. Anche nei
dialetti emiliani, oltre che in quelli
lombardi, erano utilizzate entrambe le voci: bergamino (bergamèn) e bergamina (bergamìnna)18. Va notato, per inciso,
che la provincia di Modena è quella dove è più diffuso il cognome
Bergamini, seguita da Ferrara, Bergamo, Bologna, Milano, Verona,
Brescia, Rovigo e Mantova (sarebbe interessante, a tal proposito,
capire quanto la diffusione in Emilia sia legata ai bergamini piuttosto
che a tessitori o a contadini in genere).
Bovegno: uno dei centri della
transumanza
Il bresciano Domenico
Brentana, originario di Bovegno, in alta val Trompia, tipica località
di bergamini (anche i Brentana lo erano stati), nell'ampio saggio
dedicato al paese natio, pur utilizzando 19 sempre la voce
"malghese" (anche per indicare i transumanti), utilizza tre volte la
voce
"bergamina" per riferirsi alla mandria lattifera. Era professore di
zootecnia a Parma, fu anche preside di quella facoltà di veterinaria ed
è probabile che, oltre che dalla letteratura tecnica lombarda
dell'Ottocento, egli abbia assimilato quell'uso lessicale in terra
parmigiana.
Di fatto, in uno
spazio che va da Alessandria e Vercelli a Ferrara e Bologna si
riconosceva, anche attraverso attestazioni linguistiche, una qualche
relazione tra i fatti attinenti la transumanza, la
mungitura, la lavorazione del latte, le vacche da latte e... Bergamo.
"Bergamino" era infatti un etnonimo al pari di "bergamasco" (usato in
passato,
come già visto, in alternanza). L'opera letteraria del duecento
bergamasco è il Liber pergaminus
di Mosè del Brolo20, un'esaltazione della
città.
In definitiva possiamo
dire che l'identificazione dei transumanti con i "bergamini" ha
conosciuto ampia estensione geografica e sociolinguistica. Il
fatto che il
bresciano faccia eccezione può trovare un'altra spiegazione, al di là
del fattore di rivalità con Bergamo, nella circostanza che, anche dalle
valli bresciane, scendevano dei
transumanti con le loro mandrie. Un numero consistente di
transumanti,
però, scendeva anche dalla Valsassina e da quelle terre della valle
Imagna,
della val Taleggio, dell'alta val Brembana occidentale che
appartenevano alla diocesi di Milano e che, in parte restarono
incorporate nello Stato di Milano anche dopo la dedizione di Bergamo a
Venezia. Vi erano quindi (non pochi) bergamini milanesi che, però, non
solo venivano
chiamati così in pianura, ma anche nelle loro valli.
Transito
di bergamini da Introbio, "capitale" della Valsassina in una foto di
inizio Novecento
Nella Valsassina lecchese
il nome di bergamino era di uso corrente e non ha mai comportato alcun
"disagio campanilistico". Luigi Formigoni, che fu direttore
dell'Ispettorato agrario di Como (la provincia di Lecco è di recente
istituzione) e fu un grande ammiratore delle capacità allevatoriali dei
"suoi" bergamini (pur essendo nato a Milano da genitori modenesi).
Egli,
non potendo evitare di utilizzare quel nome, ormai radicato, che
richiamava Bergamo, e
che in qualche modo oscurava il primato dei valsassinesi, cercò di
riprendere
la suggestiva, ma infondata21, ipotesi
etimologica già avanzata nell'Ottocento da Stefano Jacini (e da altri
autori prima di
lui22) : in lingua celtica
infatti berg significa monte
e man uomo23.
Il caso di Formigoni
indica sin dove possono condurre le ragioni del "patriottismo" ma
induce anche a distinguere tra "patriottismi" popolari e quelli
alimentati dagli esponenti dei ceti colti. Questi ultimi possono aver
contribuito a conservare, nei
confronti
di altre città/territori, sentimenti riconducibili a fatti
di parecchi secoli. Il mezzo è stato il culto delle "memorie
civiche",
che si è perpetuato, un po' anacronisticamente, per molto tempo dopo la
fine della civiltà comunale che lo aveva generato. Se, però, queste
memorie diventano memoria collettiva popolare e si conservano
inossidabili attraverso i secoli è perché trovano
corrispondenza in elementi della realtà sociale in grado di
riattualizzarli. La realtà, però, cambia profondamente e le ragioni
della rivalità tra
territori del passato possono diventare quelle della collaborazione.
Bisogna saper superare certe inerzie mentali autolesioniste.
In vista del 2023
Oggi fare riferimento
all'epopea dei bergamini ha il significato di valorizzare una
storia comune a bergamaschi e bresciani. La massiccia emigrazione
bergamasca nel bresciano (non è azzardato affermare che i bresciani
hanno una forte componente bergamasca) ebbe una secolare componente
bergamina, destinata a insediarsi stabilmente nel territorio di
pianura. Non solo, ma il fenomeno bergamino nelle valli bresciane ebbe
caratteristiche molto simili a quello delle valli bergamasche, tanto da
poter far ritenere che il fenomeno fosse unico. I bergamini della
montagna bresciana si spingevano a svernare sin nel lodigiano (come i
pastori di pecore hanno poi fatto sino ad oggi). Tale Antonio de
Valcamonica bergamino (così definito nel contratto), nel 1461
prendeva a soccida oltre cento bovini da latte da un affittuario di una
grande possessione del vescovo di Lodi 24. Negli stessi anni, a
conferma della generalità del fenomeno, una ducale emanata a Brescia
(datata 14 giugno 1464) proibiva ai "malghesi", pena gravissime
sanzioni, di
svernare fuori dello stato veneto25 . Sappiamo, però,
che
continuarono a dirigersi verso il milanese26. Per secoli (sino al
Novecento) i bergamini delle valli bresciane, mentre i bergamaschi
occupavano in inverno molte cascine bresciane, si sono diretti verso il
mantovano e il reggiano effettuando anch'essi una secolare transumanza
a lungo raggio, come
i valsassinesi e i bergamaschi.
Oggi, esaurita l'epopea
dei bergamini (ma la loro "spinta propulsiva" è rintracciabile nei
caratteri odierni delle strutture zootecniche e agroalimentari della
bassa Lombardia), ormai lontani anche i tempi della mungitura a mano
e dei bergamini-mungitori sullo scagnèl
a un piede, ereditato dalla tradizione alpina (semmai fiorisce la
letteratura sui bergamini-sikh)27, definitivamente
consacrato nel linguaggio corrente il termine "malghese" a indicare
l'uomo delle malghe-pascoli (che lui, però, chiama ancora monti, mut,
montagne), una opportuna
convenzione potrebbe stabilire di definire come "bergamini" i
transumanti storici con vacche da latte, tra XV e XX.
"Malghesi
storici" (quelli delle malghe-greggi o malghe-mandrie, nel significato
più antico ancora vivo in parte della Lombardia) andrebbero invece
definiti, per fare chiarezza, i transumanti medievali, che avevano in
prevalenza pecore da latte. Chiarendo che, se è indubbio il nesso tra
bergamini e Bergamo, è altrettanto vero che i bergamini non erano solo
bergamaschi.
Bergamo e Brescia sono
state proclamate congiuntamente “città italiana capitale della cultura
2023”. La candidatura era stata avanzata dopo la prima letale ondata
dell'epidemia
Covid dell'inverno-primavera 2020. Si è trattato di un moto spontaneo,
teso a far prevalere su una rivalità che andrebbe circoscritta
all'ambito propriamente sportivo, le ragioni della solidarietà, di
forti retaggi e
caratteri comuni, di relazioni basate su movimenti migratori e correnti
di scambio
commerciale (spesso intrecciate all'emigrazione stessa). Si tratta di
un'iniziativa che punta, guardando oltre la lunga emergenza e gli
aspetti
emotivi, a consolidare le opportunità di collaborazione e
di complementarietà tra due città e territori, non solo contigui ma
anche
molto simili (basta pensare alla lingua, alla gastronomia),
rafforzandoli sul piano della consapevolezza culturale e
- ma le cose sono strettamente connesse - su
quello della messa in rete di risorse e della proiezione verso
l'esterno.
In vista si questa
scadenza, risulterebbe preziosa una più
sistematica ricostruzione delle vicende storiche
legate
all'emigrazione, ai commerci, alle transumanze, in grado di inquadrare
aspetti
chiave che hanno definito le relazioni di lungo periodo tra Bergamo e
Brescia (con tutte le loro implicazioni socio-culturali). Un lavoro del
genere
restituirebbe un quadro,
forse inaspettato, della continuità, della sistematicità,
dell'estensione dei
fenomeni di
osmosi tra i due territori, fenomeni che conosciamo ancora solo
sommariamente (collocando e ridimernsionando anche la "rivalità" alla
luce di una considerazione storica).
Qualche spunto
In realtà abbiamo già
molte indicazioni circa la stretta e costante interrelazione tra i due
territori, in tempi meno vicini forse più stretta che nel recente
passato.
Basti pensare
all'importanza degli scambi
tra le valli bergamasche e Brescia attraverso la comoda via d'acqua del
Sebino (quando le merci, per terra, dovevano viaggiare con le carovane
di muli). Saliva grano dalla pianura
bresciana (e vino dalla Franciacorta), scendevano formaggi.
1825,
il 27 maggio Bortolo Bergamini di Ardesio invoca la grazia alla Madonna
delle Grazie per aver salva la vita dalla tempesta abbattutasi sul lago
d'Iseo. Come si vede, oltre ai passeggeri l'imbarcazione trasportava
colli di merci
Rovato
resterà sino alla metà del XX secolo un grande centro caseario, dove
affluivano i formaggi d'alpeggio bergamaschi (tranne quelli della val
Brembana che erano destinati alla stagionatura a Bergamo). Qui
operarono anche ditte e famiglie della Valsassina e della val Taleggio
a conferma che il centro della Franciacorta era uno degli snodi più
importanti del settore di tutta la Lombardia (gli altri erano Codogno,
Corsico, Milano).
Nel
Seicento, quando il lanificio bergamasco era ancora florido, ma era
piombato in una
gravissima e irreversibile crisi a Milano, Como, Monza, Cremona e
Brescia, i lanaioli di quest'ultima città presero a commercializzare il
panno bergamasco. Il lanificio si restrinse poi alla val Gandino. Forse
a questa supremazia bergamasca nel lanificio di deve il proverbio,
diffuso nelle valli bresciane che recita: Bröt tép, bröta zènt, pan bah, i vé töcc dal Bergamàh (Brutto tempo
[le perturbazioni atlantiche], brutta gente, panno
basso [sinonimo di bassa qualità] ). 28
Con lo sviluppo del
setificio, che ebbe grande importanza nella bergamasca specie nel
Settecento e nella prima metà dell'Ottocento,
le campagne della bassa bresciana fornivano abbondante materia prima
alle filande bergamasche. Invece, nel campo metallurgico, fu Brescia,
con le sue valli, a emergere, con il grande sviluppo dell'industria
siderurgica che si prolungato sino in tempi recenti. I magistri dei forni fusori
bergamaschi che, forse per primi, avevano messo a punto la tecnologia
dell'alto forno, tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento
emigrarono nelle valli bresciane, segnatamente in val Trompia. Ma
questi non sono che alcuni esempi.
Si
è già fatto riferimenti all'emigrazione. Che questa abbia creato una
forte connessione tra Bergamo e Brescia era già stato messo in evidenza
Paolo Guerrini nei suoi primi
studi sche
risalgono agli anni '40
del secolo scorso29. Inizialmente
limitati al XIV secolo, i primi studi di Guerrini sono stati poi
confermati da altri autori che presero in considerazione anche il
secolo successivo30.
Anche la presenza di moltissimi cognomi uguali a Brescia e a Bergamo
era già stata osservata da Guerrini (quando non c'era internet a
rendere facili certe ricerche): Moltissimi
cognomi
bergamaschi ripetono nomi di paesi e di
località della vicina provincia di Bergamo, e specialmente delle sue
tre valli Seriana, Brembana e Imagna, dalle quali è venuta sempre
verso Brescia e il territorio bresciano una forte immigrazione di
mandriani, casari, contadini, e operai di industrie varie, ma
soprattutto del lanificio e della concia delle pelli 31.
A Brescia l'immigrazione
bergamasca tese
a crescere tra XIV e XV secolo (in relazione
anche all'affermarsi del dominio veneto). Nel 1388 il 51% degli
estimati era costituito da immigrati, nel 1416 saliva al 54%, nel 1430
si abbassava al 47%. La quota di bergamaschi sugli immigrati fu
crescente, rispettivamente del 23%, 33% e 40% alle tre date 32. Se l'emigrazione
bergamasca verso Brescia risultò massiccia dopo la
peste del 1349 (quando
anche molti milanesi si trasferirono a Brescia), essa - diretta verso
tutta la pianura lombarda - precedeva il periodo comunale e proseguì
oltre il medioevo e l'età moderna, tanto che Giuliana Albini parla di
emigrazione fisiologica
che attraversa tutta la storia bergamasca33.
Uno dei motivi di
questo fenomeno è da ricercare nel rapporto tra la città e le
valli. Bergamo è una città relativamente piccola (rispetto al
quadro italiano). Essa contava, verso il 1330, 10-20 mila abitanti
mentre Brescia, sempre sulla base di stime, poteva superare i 40 mila
abitanti. Della stessa taglia di Brescia, probabilmente più grande,
era Cremona, mentre Verona era ancora più popolosa 34.
Se la città è di taglia
demografica inferiore a quelle vicine, se la pianura bergamasca è poco
estesa, le valli
bergamasche sono, al contrario, molto vaste ed erano densamente
popolate nel periodo del boom economico medievale. In esse erano attive
miniere (ferro e argento) con i loro
centri industriali (lana e metallurgia), i dinamici centri (Gromo,
Ardesio, Gandino, Clusone, Serina, Zogno). L'emigrazione
bergamasca non ha rappresentato solo un travaso dalla montagna ad altre
città, sia perché lo "sfogo" costituito dalla città di Bergamo era
limitato, sia perché certe professioni si potevano esercitare solo in
montagna o in pianura. Gli artigiani si
insediavano nelle valli, artigiani, contadini e malghesi nella pianura.
Ciò ha contribuito, molto più che l'emigrazione verso Brescia, a
popolare
il territorio bresciano di bergamaschi (è noto che le città mantengono
l'equilibrio demografico solo grazie all'immigrazione e hanno saldi
naturali negativi).
Un'altra
caratteristica dell'emigrazione bergamasca è che non rappresentava
un'emigrazione di poveri montanari, come un inveterato cliché tende a
far ritenere. Anche in tempi recenti, quando i bergamaschi emigravano
all'estero (Svizzera, Francia) come lavoratori dipendenti, le loro
attività erano comunque specializzate (minatori, boscaioli, carbonai,
pastori). Nel medioevo e nell'età moderna era unemigrazione che
riguardava anche le classi alte,
desiderose di
per far fortuna con i commerci 35.
Così troviamo
mercanti bergamaschi non solo a Brescia ma anche nelle città venete che
si occupano del commercio caseario, di cereali, di lana. E tante
famiglie che, gestendo attività commerciali all'estero, sono diventate
nobili (Thurm und Taxis, von Parre, Giovannelli), Anche i
facchini, peraltro, erano maestranze qualificate e ben organizzate,
come
dimostra la compagnia Caravana, costituita da soli nati in val
Brembana. Approfondiremo
questi aspetti in un prossimo articolo.
A secoli di distanza,
nello spirito di amicizia tra Bergamo e Brescia dovrebbe prevalere la
considerazione che bergamaschi e bresciani sono stati, insieme,
protagonisti dello sviluppo di settori (caseificio, siderurgia,
industria armiera, tessile) di rilievo in ambito internazionale.
Un riconoscimento che non serve certo a cullarsi sugli allori ma che
deve stimolare a guardare avanti.
Guardare a ciò che
accomuna due territori non significa ignorare ciò che nel passato li ha
divisi. Farlo in modo costruttivo significa andare oltre
l'interpretazione semplicistica che riconduce alle guerre del periodo
comunale una vera o presunta inimicizia
Le "guerre" tra Bergamo e Brescia in chiave
storica (e non in quella della "curva")
Se
l'Oglio e il suo bacino sono stati elemento di scambio pacifico e
duraturo tra
Bergamo e Brescia, essi hanno rappresentato anche un innegabile
elemento di forte
frizione. La
conflittualità legata al controllo dell'Oglio e ad alcune posizioni
strategiche della Valcamonica fu molto aspra ma, se si parta di guerra
guerreggiata,
limitata a meno di un secolo. Le
guerre tra Bergamo e Brescia non rappresentavano peraltro un fatto
isolato ma la regola di un periodo comunale caratterizzato sì dalla
crescita economica, dalla realizzazione di splendide cattedrali e
palazzi comunali ma anche da
continui conflitti, tra le città vicine e tra
le fazioni della stessa città, causa spesso di
persecuzioni e atrocità 36.
Brescia, broletto: teoria di cavalieri
ghibellini incatenati tra loro espulsi dalla città. I bandi potevano
colpire numeri consistenti di "nemici interni" (anche migliaia). Le
loro case erano distrutte, le proprietà confiscate
Altrove i
conflitti furono anche più feroci e duraturi. Firenze
riuscì a
sottomettere Pisa nel 1406, dopo che, alla prima occupazione, era
seguita un’insurrezione e dopo un ulteriore assedio, cui
seguì il feroce sacco della città, l’uccisione o l’espulsione
dei nobili pisani e la confisca dei loro palazzi (mentre a Firenze si
festeggiava per le strade). Siena
cadde solo nel 1559, con la pace di Cateau Cambresis che metteva fine
alle guerre d’Italia tra Francia e Spagna. Cinque anni prima aveva
dovuto subire un terribile assedio37.
Nulla
da vedere con il conflitto tra Bergamo e Brescia, durato meno di un
secolo, aspro ma senza assedi e sottomissioni della città rivale.
Che
la rivalità tra le due città (e relativi territori) della Lombardia
orientale non possa
derivare (solo o principalmente) da quanto accadde nell' XII secolo
sulle
rive dell’Oglio ce lo suggeriscono anche altre considerazioni.
I
conflitti di età comunale vedevano opposte non solo singole città
ma anche delle coalizioni che si richiamavano ai partiti guelfo e
ghibellino, coalizioni che comprendevano anche le fazioni "di
minoranza" delle diverse città (sia che fossero state messe al bando o
rimanessero nella città), e "pezzi" dei contadi. Era così anche nel
caso di Bergamo e Brescia38. Di fatto, se il
patriottismo cittadino era forte, quello di partito lo era spesso
ancora di
più.
Sant'Alessandro, un
patrono molto "militarizzato" (il giglio bianco su campo rosso, come
nel caso della croce è emblema ghibellino, infatti con la vittoria dei
guelfi quello di Firenze divenne rosso su fondo bianco)
In
Toscana l'alleanza
guelfa era capitanata da Firenze ed era
contrastata dalle altre città toscane (tranne Lucca) che si
opponevano all'egemonia fiorentina. In compenso Perugia appoggiava
Firenze. Anche in Lombardia gli
scontri tra Bergamo e Brescia si inserirono
nelle guerre tra guelfi e ghibellini. Dopo
la prima Lega Lombarda e la lotta contro Federico I, Bergamo, sotto
la guida dei Suardi e dei Colleoni (questi ultimi con qualche
ondeggiamento), diventò gradualmente ghibellina per smarcarsi dalla
supremazia della troppo vicina e troppo potente Milano guelfa (come ci
ricorda lo stemma cittadino "fossilizzato" al XII secolo).
Battaglia di Montaperti
Bergamo era
alleata di Cremona che, ai tempi, era
città potente e capofila del partito imperiale, anch'essa contrapposta
a
Brescia (sostenuta da Milano) per il controllo dell'Oglio.
Cremona esercitava il suo controllo su molte terre che
oggi fanno parte della bassa pianura bergamasca ma Bergamo, più
debole e presa nella pericolosa morsa tra altri due potenti vicini,
strinse
un’alleanza strategica con i vicini meridionali (con i quali rase
insieme al suolo la piccola Crema). Gli
scontri tra Bergamo e Brescia per il controllo dell'Oglio e per il
possesso di alcuni castelli nell'alto e nel basso Sebino, si svolsero a
varie riprese riprese39.
Per rispondere
all'espansionismo bergamasco in Valcamonica, nel 1156 i bresciani
scesero in guerra e attraversarono il fiume occupando Palosco.
Nella battaglia che ne seguì, detta delle Grimore (o di Palosco), le
truppe
bergamasche accorse a difesa del castrum
sull'Oglio, ebbero la peggio
(i
bresciani attaccarono di sorpresa alle prime luci dell'alba cogliendo i
bergamaschi non ancora schierati). L'esercito bergamasco ebbe 2500
perdite e i bresciani si impossessarono del gonfalone di
Sant'Alessandro, estratto
intriso di sangue dal mucchio di cadaveri dei suoi estremi difensori.
I bresciani, in arengo (l'assemblea dei cives,
cittadini con diritto di voto) dettarono condizioni di pace durissime,
che i bergamaschi dovettero subire. Ma, nel 1160, Federico I
Barbarossa
prese il castello di Volpino, nella bassa Valcamonica, che i
bresciani avevano occupato dopo la sconfitta di
Palosco, e i bergamaschi lo distrussero.
Più grave, per i
bergamaschi, fu la sconfitta
del 1191 a Rudiano (sponda bresciana dell'Oglio). La
battaglia vedeva al loro fianco non solo i cremonesi ma
anche le truppe ghibelline di Lodi, Pavia, Parma, Tortona. Fu
detta, evocativamente, della Malamorte per il grande numero di caduti
(le cronache parlavano, ma è probabilmente una cifra esorbitante, di
5-10 mila), morirono , però più cremonesi che bergamaschi, molti
annegati nel
fiume. I bresciani, con abile mossa fecero credere che i milanesi
fossero già arrivati. Ma non era vero. I cremonesi e i bergamaschi e i
loro alleati,
temendo di restare inchiodati di là dall'Oglio si ritirarono
precipitosamente; il ponte di legno non resse e fu strage. Il carroccio
cremonese fu
trascinato a Brescia.
Per l'epoca, quella di
Rudiano
rappresentòuna
battaglia sanguinosa. Per trovare un paragone bisogna far
riferimento alla battaglia di Montaperti (Siena) quando l'esercito
fiorentino subì una catastrofica sconfitta (10 mila morti e 15 mila
prigionieri). I ghibellini fiorentini, espulsi dalla città,
combatterono, ovviamente, con i senesi. Questi ultimi non volevano fare
prigionieri tra i fiorentini guelfi ma passarli sbrigativamente a
dil di spada, tanto era l'odio nei loro confronti. I fiorentini, per
salvare la vita, si tolsero le insegne
mescolandosi con i loro alleati.
Dante
era un guelfo ma, dopo la sconfitta dei ghibellini, si schiererà dalla
"parte sbagliata", ovvero di quella dei guelfi bianchi ("moderati", non
troppo inclini a sottomettersi al papa) e, come noto, subì
l'esilio. Con riferimento alla battaglia di Montaperti il poeta
cantò: lo
strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso40.
Come l'Oglio. Ma l'analogia più importante tra Montaperti e Malamorte
fu che, più che battaglie Firenze vs Siena e Bergamo vs Brescia furono
battaglie tra guelfi e ghibellini.
La battaglia di Rudiano,
in ogni caso, fu quella che stabilì
definitivamente i confini sull'Oglio e restò impressa nella
memoria dei posteri. I bergamaschi (giuramento dei “mille”)
dovettero accettare delle dure condizioni di pace. Mura,
il centro fortificato bergamasco che si contrapponeva alla bresciana
Palazzolo (come Calepio e Trebecco si contrapponevano a Capriolo, e
Cividate a Pontoglio) venne unita a Palazzolo e diventò una
frazione. Che conserva però ancora una forte identità e che, dal 1936
organizza una rievocazione storica in costumi medievali (oggi con tanto
di ricostruzione delle mura, in polistirolo espanso). Alle cremonesi
Calcio, Pumenengo e Torre Parravicina (poi furono parte del ducato di
Milano e unite a Bergamo solo
nel 1798) erano contrapposte le bresciane Urago, Rudiano e
Roccafranca. Un fiume militarizzato.
Festa di Mura:
la ricostruzione (in polistirolo) della cinta ("filologicamente con
merli ghibellini).
Una parziale rivincita fu
rappresentata, per i bergamaschi, dalla
battaglia di Cortenuova, combattuta nel 1237, su territorio
bergamasco, tra
Federico II e la Lega lombarda. I bergamaschi, peraltro, parteciparono
a tutte le battaglie del
periodo nei ranghi imperiali. A Cortenuova, svolsero un ruolo
importante avvisando efficacemente Federico dell'avvicinarsi
dell'esercito guelfo41
e attaccandolo alle spalle da Nord, impedendogli la ritirata. Molti
annegarono, anche questa volta,
nelle acque dell'Oglio, gonfio per le piogge autunnali, mentre
cercavano
di attraversarlo a nuoto per riparare a Brescia. Anche queste vicende
ultime lasciarono certamente il segno.
Il
Carroccio milanese, catturato a Cortenuova (con la bandiera da guerra
imperiale, croce bianca
in campo rosso, rimasta nello stemma di numerose città ghibelline come
Como, Pavia, Asti), viene trascinato dentro Cremona. Sul carroccio, che
sfilò nella città padana, per il trionfo di Federico, venne collocato
Pietro Tiepolo, podestà di
Milano e comandante della Lega. Il Tiepolo era figlio del doge
veneziano, ma venne ugualmente impiccato.
Finì sul
2 a 1 per Brescia. Nel 1251 venne siglata una pace tra le due
città che chiudeva, in modo onorevole per entrambe le parti, le
ostilità. Pur
non cancellando la memoria di tre sanguinose battaglie, questa pace
ridimensiona la
portata dello scontro tra le due città quale causa di duratura
inimicizia (specie nel confronto con altre
situazioni che videro coincidere la fine dei conflitti intercittadini
con la
definitiva sopraffazione di uno dei contendenti) .
Per alcuni
(brevi)
periodi, Brescia e Bergamo si
trovarono
persino, da città-stato indipendenti, nella stessa alleanza (in
occasione della prima Lega lombarda e, per qualche decennio, dopo la
sconfitta degli svevi nel secolo successivo42).
Va anche detto che il
quadro di schieramenti in cui si inseriva il confronto tra le due
città, e che ne accentuava la portata, subì degli sconcertanti
ribaltamenti.
Trent'anni dopo Cortenuova, nel 1266, con la fatidica vittoria
di Desio dei
Visconti sui
Torriani, Milano, da capofila del partito guelfo al Nord Italia,
diventerà
ghibellina mentre, per contrappasso, Cremona divenne guelfa.
Dall'inizio
del XIV secolo, prima con il dominio visconteo, (con qualche
intermezzo scaligero e malatestiano), poi con quello veneziano (con
qualche intermezzo visconteo, sforzesco e francese, prima del
definitivo assestamento al termine delle guerre d'Italia a metà
Cinquecento), Brescia43
e Bergamo furono soggette alla medesima sovranità. Nulla cambiò
nei loro rapporti territoriali sino alla costituzione del
Dipartimento del Serio (ai tempi della Repubblica cisalpina). Esso,
solo per qualche mese, comprese Palazzolo e, sino alla caduta di
Napoleone, la Valcamonica. Questo assetto venne confermato alla
costituzione del regno Lombardo Veneto e della provincia di Bergamo.
Con il regno d'Italia nel 1861 la valle alpina venne invece assegnata
alla
provincia di Brescia. Forse, più che la contesa per la Valcamonica (che
comunque riavvivò le frizioni),
a tenere viva la conflittualità fu l'utilizzo
delle acque dell'Oglio che, ancora nel Novecento, diede vita ad aspre
controversie, alle quali neppure la “Pace dell'Oglio” siglata da
tutte le utenze nel 1936 mise fine, tanto è vero che fu necessario
rivederne i termini con un decreto ministeriale del 1960.
Uno
scontro che non riguardava il contado
Il
rintracciare nelle guerre del XII-XIII secolo le radici della
rivalità tra territori bergamaschi e bresciani è un vero
anacronismo. Se prendiamo in considerazione il rapporto tra le
città e i rispettivi contadi nell'epoca comunale, emerge con
chiarezza come
la guerra tra bergamaschi e bresciani fosse
una guerra tra due città con i contadi che giocavano il ruolo di
colonie cittadine e che, spesso, stavano dalla
parte del “nemico”44.
Bergamaschi e bresciani
erano i cives,
i detentori della cittadinanza cittadina. Il regime cittadino
impose una dura oppressione ai contadi. Le
decantate (ovviamente da un punto di vista urbanocentrico) "libertà
comunali"
erano tali solo per i cittadini. Il cittadino era giudicato da un
magistrato che aveva contribuito a eleggere, ma il
“rustico” doveva subire il giudizio di una magistratura cittadina
che pendeva sempre a suo sfavore. L’abitante
del contado, in alternativa, era soggetto ancora alla
giustizia signorile (ma di un signore che, normalmente, era anche un
cittadino, magari divenuto tale grazie all'usura o ai maneggi da
giurista o notaio nella
curia vescovile).
Andiamo
avanti: la testimonianza del rustico non valeva nulla in
confronto di quella del cittadino. Il regime fiscale prevedeva due
pesi e due misure: i fondi dei proprietari cittadini erano colpiti in
modo più lieve, circostanza che spinse, in tutta l'Italia
comunale, a concentrare la proprietà terriera nelle mani dei
cittadini. I signori rurali, o con le buone (regime fiscale) o con le
cattive, furono costretti a urbanizzarsi lasciando il contado senza
elite (cosa che spiega perché in Italia la cultura ha una costante
spocchia antirurale che attraversa i secoli e le scuole intellettuali
).
Il contado era costretto
a far affluire le derrate
alimentari alla città anche a costo di patire la fame, a prestare
servizi militari (guardie, trasporti), di manutenzione delle strade
senza aver
diritto a
partecipare ad alcuna decisione sulla gestione del territorio. Tutte
le merci dovevano affluire ai mercati cittadini garantendo il
monopolio del commercio ai mercanti cittadini. certe attività
economiche erano proibite nel contado (in fornza del monopolio dei
"paratici" cittadini, le corporazioni delle arti e mestieri). In
guerra gli abitanti
del contado partecipavano come ausiliari, come per eseguire una corvée.
A loro toccava scavare fossati e abbattere
mura. Era loro concesso solo di portare armi leggere (i cittadini
sapevano bene che consentire ai "villici" di tenere le armi era
pericoloso). La condizione del contado era de iure e de facto coloniale
45.
Non
esisteva, di conseguenza alcuna
identificazione tra gli abitanti del contado e la città, anzi. Nelle
prime fase dell'avvento delle signorie, l'estraneità e la
contrapposizione tra la città e una parte dei territori venne
persino esasperata. La Valcamonica rappresenta un caso esemplare.
Forte di, più volte rinnovati, privilegi imperiali, pur rimanendo parte
della
diocesi bresciana, aveva mantenuto larga autonomia. Fu solo nel 1428,
con la
dedizione della città di
Brescia a Venezia, che l'aristocrazia guelfa cittadina riuscì
a imporre la soggezione della valle che, si badi bene, nei decenni
caratterizzati dai tentativi viscontei di riprendersi le terre
lombarde orientali, insorse tre volte contro i bresciani-veneziani
guidata da famiglie ghibelline come i Federici.
La pax veneziana comportò la distruzione di tutte le fortificazioni (e
infatti oggi, tranne il castello di Breno, rimangono solo pochi ruderi).
Diversa la situazione a
Bergamo, dove Venezia confermò le autonomie
valligiane che, nella sostanza, si mantennero per tutto il periodo di
dominio della Serenissima. Alla sua caduta, la contrapposizione tra le
valli e il capoluogo riprese vigore con le insorgenze anti-giacobine
e anti-francesi, spesso represse dalle forze militari cittadine
(giacobine) che,
in diverse occasioni, superarono in violenza repressiva le stesse
truppe francesi.
Dopo
che Bergamo
e Brescia persero la loro indipendenza
di
città-stato ci vollero secoli perché si sviluppasse il
moderno patriottismo a base
provinciale
che, reinterpretando – in modo anacronistico – i conflitti
dell'età comunale, ha
riproposto la rivalità tra città come rivalità
tra abitanti di due territori/provincie. Questa tendenza non riguardò
solo Bergamo e Brescia ma tutta Italia. Divide et impera non passa mai
di moda.
Il patriottismo
provinciale risale
al XIX secolo, favorito dall'assetto rigidamente centralistico del
potere napoleonico e sabaudo, esso si rafforzò nel XX secolo,
assumendo connotati "di massa". Un esito legato alloo
sviluppo e alla moltiplicazione di apparati burocratici e di
istituzioni
moderne basate sui
capoluoghi (prefettura, banche, giornali quotidiani, squadre di calcio,
istituzioni economiche). In
piccolo ciò riproduce quello che è avvenuto con la creazione degli
spazi nazionali: la creazione di mondi che, quando non ostili, sono
estranei. Le linee di confine hanno assunto con lo stato moderno quel
carattere di discontinuità che mai avevano avuto in precedenza, con
il cambio della moneta, delle leggi, della lingua (vedi il caso di
territori che,
con le guerre, sono passati da uno stato all’altro e che, da un
giorno all’altro si sono visti imposto l’utilizzo di un’altra
lingua)46.
La differenza con l’Europa
medievale della libera circolazione, della lingua comune, di una
comune base giuridica e religiosa (periodo luminoso, altro che
“secoli bui”), è abissale47. Con
frontiere presidiate, spesso chiuse. I confini provinciali non erano
"sacri" ma fortemente condizionanti la vita pubblica e civile.
Paratico
e Sarnico, esempio emblematico, sono unite da un ponte e
sono quindi un unico aggregato urbano
(sopra al tempo de Covid quando è stato compiuto un gesto simbolico ma
significativo di riconciliazione anche tra ultrà). In un recente
passato, vivevano
però in due dimensioni provinciali diverse profondamente estranee. Di
qui
si legge l’Eco di Bergamo, di là il Giornale di Brescia. Con
l’informazione web
le cose sono in parte cambiate. Fatti come le fusioni bancarie (Ubi
Banca, frutto dell’unione di realtà delle due città) e la perdita di
competenze
dell’istituzione provincie spingono nel senso di una
“globalizzazione” ma imposta da fattori esterni, non "dal basso",
consapevole. Non è così che
si favorisce una potenziale collaborazione
tra territori limitrofi e tra l'insieme territori delle ora svuotate
provincie.
La
collaborazione non si può fare tra soggetti senza una loro precisa
dimensione
anche istituzionale. Se il "patriottismo provinciale", specie quando
degenera in sciovinismo, ostacola la collaborazione interprovinciale,
le
provincie,
al di là dei mutevoli (nel corso della storia) assetti istituzionali e
dei rapporti tra città e
"contado", rappresentano uno spazio radicato nella realtà
storica sin
dall’alto medioevo. Ai comitati carolingi successero i vescovati, che
mantennero sino all'epoca comunale un ruolo politico e hanno poi
rappresentato, sino ad oggi, per gli aspetti
religiosi e non solo un elemento importante, non solo sul piano
religioso, ma anche su quello economico, sociale, culturale sociale
entro il loro spazio.
Dissolvere i territori
in un amalgama indistinto non fa bene a nessuno (se non alle
tecnocrazie euromondialiste), la consapevolezza di identità specifiche,
come degli elementi accomunanti, rappresentano una ricchezza e un
presupposto per la collaborazione, per lo sviluppo di complementarietà.
Per non restare indietro.
Note
1 Milesi, nato a Brescia
apparteneva a famiglia discendente
da un magistro fonditore che proveniva da Roncobello, in val
Brembana, all'inizio del XVII secolo.
3
G. Gallucci, Le stalle aperte,
in G. Portieri, L. Cottarelli (a cura di), L'agricoltura bresciana nel secolo breve.
Scritti in memoria di Ottorino Milesi, Fondazione Civiltà
Brescia, Brescia, 2019, p. 30.
4E. Conti La
proprietà
fondiaria nel
passato e nel presente,
Cogliati, Milano, 1905,
pp.
202-204.
5C. Bonvini, I
lavoratori della terra nella bassa Lombardia, in Cultura
sociale, 6 (1903) p.
90-91.
6F. Menant, Bergamo comunale, storia, economia, società,
in G. Chittolini(a
cura
di) Storia economica e sociale di
Bergamo, vol. Il comune e la
signoria, Fondazione per la storia economica e sociale di
Bergamo, Bergamo, 1999, pp. 15-182, p. 60-62.
7
A. Gallo. Le
venti giornate dell'agricoltura e de' piaceri della villa,
Brescia, Bossini, 1775, (ed. or. Venezia, 1566), p. 274. Per bresciani
si intendono i cittadini bresciani. Era di là da venire l'attribuzione
della brescianità al contado.
9F.
Ugoni, Memoria sopra l'Agricoltura
di una porzione del
Dipartimento del Mella situata al mezzo giorno in Annali
dell'agricoltura del Regno d'Italia compilati da Filippo Re,
Tomo V (gennaio, febbraio, marzo) 1810 pp. 3-39.
11D. Berra 1827. Memoria sul
bestiame bovino della Lombardia
Bianchi Giovanni Battista & c., Milano, p. 49.
12 J.
Burger, Agricoltura
del regno Lombardo-Veneto / del consigliere Giovanni Burger ;
versione italiana del dottor V. P. ; con note del dottor Giuseppe
Moretti alla tipografia Motta ora di
M. Carrara Milano, 1843, p. 182. ristampa anastatatica a cura E
Yvonne Dilk, Parco agricolo Sud-Milano – Provincia di Milano, 2002.
13Sommario
delli ordini pertinenti al tribunale di provisione della citta et
ducato di Milano,
ecc., Cesare Malatesta, Milano, 1657, p. 109.
14Sommario
Degli Ordini Pertinenti Agli S.ri Vfficiali De L'Inclita
Commvnita di Milano, Et De Li Depententi Da Essi, Et Per Vettovalie
Diverse Ecc. Pontio, Milano, 1580, pp. 48, 91.
15M. Formentini, Memoria sul rendiconto del ducato di
Milano per l'anno 1463 ne suoi rapporti coll amministrazione (etc.),
Gaetano Brigola, Milano, 1870, p. 34.
16Memorie storiche della città di Piacenza
compilate dal proposto Cristoforo Poggiali Tomo primo duodecimo,
Piacenza, Giacopazzi,1760, p. 72.
17 Ho a suo tempo elencato mumerose fonti
legislative e amministrative sino a tutto il Settecento in cui le
autorità si riferiscono ai "bergamini., M. Corti, La civiltà dei bergamini, Centro
Studi Valle Imagna, Sant'Omobono terme, 2014, p. 72-73.
18 C.
Malaspina, Vocabolario
parmigiano-italiano accresciuto di piu
che cinquanta mila voci, volumi 1-4, vol.1, Carmignani,
Parma, 1856, p. 190; . Galvani, Saggio
di un glossario modenese ecc., Tip. dell'Imm. Concezione,
Modena, 1868, p.507.
19D. Brentana, La vita in un comune montano,
Commentari dell'Ateneo di Brescia per l'anno 1993, Apollonio,
Brescia, 1934. 243 pp.
20
G. Gorni, Il liber pergaminus di Mosè del Brolo, Centro italiano
di studi sull'alto medioevo, Spoleto, 1980.
21L'ipotesi che pergaminus/bergamino sia
trasposizione del bergman
germanico è infondata per tre motivi: 1) Si forma nel tardo
medioevo (prima il transumante era il malgarius
e pergamaschus, bergamaschus, bergamino sono voci che nascono
tardi per definire la nuova reltà del transumante bovino del tardo
XIV-XV secolo); quindi non può rappresentare un'eredità longobarda o
comunque germanica come arimanno
(uomo libero); 2) voci composte con man
(uomo) hanno dato esito -manus/-mannus (it. -mano,
-manno), vedi anche landamano, turcomanno ecc.; 3) l'aggettivo bergaminus si riferisce non solo a
uomini ma anche a cose.
22S.
Jacini, La regione delle montagne,
in Atti della Giunta per l’inchiesta
agraria e sulle condizioni della classe agricola,
Forzani e c., Tip. del Senato, Roma,
1883, Vol VI, Tomo I, Fascicolo I, pp. 102-110. A sua volta
Jacini si era ispirato ad Albino Parea (A. Parea, Agricoltura, in
Milano e il suo territorio, vol II, Milano, Pirola, 1844, p.
143).
23L.
Formigoni, I
Bergamini nello sviluppo della classica cascina lombarda,
in Informatore
Agrario,
a 23, (1967), fasc. 5, pp. 11-13.
24 E.
Roveda. Uomini, terre e acque. Studi
sull'agricoltura della "Bassa lombarda" tra XV e XVII secolo,
FrancoAngeli, Milano, 2012. p. 261.
25G.
Mazzuchelli, Raccolta di privilegi,
ducali, giudizi, terminazioni e decreti
pubblici sopra varie materie ... : concernenti la città e provincia
di Brescia,
Brescia, Bossino, 1732, p. 295.
26Nel
"memoriale Averoldi" del 1534,
un cahier de doléances
bresciano nei confronti di Venezia ci si lamenta dela decadenza
dell'agricoltura e si rimpiange il secolo precedente quando scendevano
i malghesi dalle Alpi a consumare i fieni, pur continuando a svernare
nel milanese dove li pagavano meno.A. Zanelli, La
devozione di Brescia a Venezia e il principio della sua
decadenza economica nel secolo XVI,
in Archivio storico lombardo, (1912), pp. 23-100 (p.48).
27 Una
sociologia che ha
sempre provato diffidenza per il rurale si accorge delle campagne solo
per occuparsi di fenomeni più o meno effimeri
che in realtà riguardano i temi main-stream: la fabbrica fordista (ecco
allora che ci fu la stagione di studi sui metal-mezzadri),
l'ambientalismo urbano (gli studi sulla "fuga dalla città" e il
"neoruralismo"), l'immigrazioe extra-comunitaria (gli studi sui
bergamini-sikh).
28 Michela
Capra, comunicazione personale (raccolto in val trompia
dall'informatore Costanzo Caim).
29 P. Guerrini, I bergamaschi a Brescia
descritti dall'estimo visconteo del 1388, in Bergomum, 38, 1944,
parte speciale n. 2, pp. 1-21.
30 G.
Bonfiglio Dosio, L'immigrazione
a Brescia fra Trecento e
Quattrocento. Ed. scientifiche italiane, 1984.
31 P.
Guerrini, Appunti: su argomenti diversi: curiosità
linguistiche e dialettali, tradizioni e feste, folclore nomi e luoghi,
notizie e personaggi di storia e cronaca, Edizioni del
Moretto, Brescia, 1987, p. 159.
32 G.
Albini, La popolazione di Bergamo e del territorio
tra XV e XVI secolo, in G. Chittolini (a cura
di) Storia economica e sociale di
Bergamo, vol. Il comune e la
signoria, Fondazione per la storia economica e sociale di
Bergamo, Bergamo, 1999, p. 229.
34 M. Ginatempo, L.
Sandri, Italia delle città Italia
delle città : il popolamento
urbano tra Medioevo e Rinascimento, secoli XIII-XIV, Le lettere,
Firenze, 1990.
35La transumanza è strettamente legata a
queste forme di emigrazione
delle elite. Françoise Menànt ha messo in evidenza come la
transumanza in pianura si appoggiasse , soprattutto per gli aspetti
commerciali su reti di esponenti valligiani precedentemente
insediatisi in pianura. Una situazione che interessava in modo
particolare una città di neo fondazione come Crema F.
Menànt, Campagnes
lombardes du Moyen Age. L’économie et la société rurales dans la
région de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle,
Ecole française, Roma, 1993.
36
Quasi tutti gli anni, i comuni erano in guerra tra loro o con o contro
l'imperatore e l'esercito comunale era spesso impegnato in
esercitazioni. Di conseguenza organizzazione militare per quartieri era
una base importante dell'articolazione del potere comunale e della
stessa identità collettiva sino alla "militarizzazione" del santo
patrono. F. Menant. L'Italia dei
comuni (1100-1350), Viella, Roma, 2011, (in particolare
pp.197-199).
37A
Siena, assediata dagli spagnoli, 4.400 “bocche inutili” furono espulse
dalla città per alleggerire la pressione sulle riserve di cibo. Gli
spagnoli li rigettarono verso le mura e ¾ morirono. G. Alfani, Il Grand
Tour dei Cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del “lungo Cinquecento”
(1494-1629), p. 46. Il proverbio “Franza e Spagna purché se
magna” è
citato a denigrazione degli italiani ma, a quei tempi il “se magna”
voleva dire scampare alla
fame e al
saccheggio.
38La
divisione tra guelfi e ghibellini non era certo solo
un fatto che opponeva città a città. Essa contrapponeva
famiglia a
famiglia, cittadini contro cittadini. Molto importante era la
contrapposizione tra la città e il contado che il comune, specie nella
fase più tarda, con la presa del potere da parte del “Popolo” opprimeva
e sfruttava come
una
propria colonia. I contadi di solito erano di colore politico (giallo
ghibellino/rosso guelfo) opposto alla città ma, a
volte anche
i contadi erano divisi anche al loro interno.
Nelle valli bergamasche che, è bene ricordare, ottennero autonomia e
privilegi solo all'epoca delle signorie e, segnatamente da parte dei
Visconti, prevaleva – come altrove - la fazione che era
all'opposizione in città e i cui esponenti di spicco si rifugiavano
nelle signorie del contado. Dal momento, però, che in città i due
partiti non prevalevano in modo nello (a differenza di Brescia guelfa),
anche le lotte cittadine si riflettevano sul contado. Così la
bergamasca conobbe i
conflitti guelfi-ghibellino più
sanguinosi e
diffusi,
con
un secolo di ritardo rispetto alle altre realtà dell'Italia
centro-settentrionale, ovvero nel XIV secolo e non nel XIII. Menant,
op. cit., 1999.
39 La
vendita dei tre castelli di Volpino, Ceratello e Qualino da
parte della
famiglia Brusati, con legami sia
nella sfera bresciana che in quella
bergamasca, a un "consorzio" di signori bergamaschi, allarmò
Brescia che vi
intravide una volontà di penetrazione politica
bergamasca in
Valcamonica e determinò il conflitto armato. P.
Bianchi, Fra Bergamo e
Brescia: poteri signorili tra
Sebino e Valcamonica (XI-primi XIV sec.)
in Bergamo e la montagna nel
Medioevo. Il territorio orobico fra città
e poteri locali, a cura di
Riccardo Rao. In Bergomum.
Bollettino
annuale della Civica Biblioteca
Angelo Mai di Bergamo,
104-105 (2009-2010), pp. 107-136.
41 Venne
data alle fiamme una chiesa a Cividate al piano; la colonna di
fumo era
il segnale che i milanesi, i bresciani e gli altri
guelfi, avevano
passato i ponti in pietra di Palazzolo e Pontoglio
(quelli in legno più
a valle erano stati distrutti dagli imperiali).
42 Dopo
il 1260 le sconfitte
degli
imperiali spinsero non poche città compresa Bergamo - a cambiare fronte
(ma
solo temporaneamente).
43 La
città del leone entrò prima nell'orbita viscontea con la signoria
del vescovo
Berardo Maggi, legato ai Visconti e
filo-ghibellino, premessa
di una (temporanea) pacificazione
cittadino.
44È bene
precisare che nella contrapposizione ideologica tra il
partito guelfo e quello ghibellino non valevano solo considerazioni
ideologiche (il primato dell’impero rispetto al papato) o di pura
opportunità (se il mio nemico è guelfo io sono ghibellino). La frattura
era anche di tipo
etno-culturale-sociale-territoriale. Con i guelfi più legati ai grandi
interessi economici urbani, proto borghesi (credito e commercio),
all’aristocrazia elevata ma più recente, incline ad appoggiare
demagogicamente il “Popolo” (compresa,
per manovrarla, la componente
popolare autentica degli artigiani e dei piccoli commercianti). Questa
aristocrazia (tendenzialmente) guelfa vedeva nel possesso fondiario
solo
uno strumento di prestigio e di estrazione di rendite. Era l’epoca in
cui l’ideologia comunale antirurale, che
si espresse – proprio nel XII secolo – con la “satira del villano”,
considerava i contadini alla stregua di animali da lavoro. Mentre i
ghibellini legati all’eredità longobarda, allo
spirito feudale, all’antica nobiltà rurale orientata a un principio di
valorizzazione della terra tutt’altro che retrogrado. Lo storico
bresciano Bernardo Scaglia vede, almeno nel contesto bresciano, la
lotta tra guelfi e ghibellini, (che per lungo tempo, oltre che sul
piano politico si espresse anche in ambito religioso con la
contrapposizione tra il vescovo di Brescia e l'abate del monastero
benedettino di Leno), uno scontro tra i grandi interessi economici
urbani e i nobili rurali. I primi che vedevano nel contado solo uno
spazio da dominare, da cui estrarre rendite e tributi imponendo il
rifornimento alimentare delle città (anche a rischio della carestia
nelle campagne) e i nobili rurali che non avevano accettato di
inurbarsi, quindi uno scontro tra città e una campagna , ma una
campagna ben diversa dalla propaganda cittadina, capace di impegnarsi
in opere collettive di bonifica, di darsi istituzioni articolate , di
dar vita a borghi dinamici a carattere artigiano-commerciale (B.
Scaglia, La
nuova agricoltura. Gallo e Tarello, in, Storia dell'agricoltura
bresciana, vol I, Brescia, Fondazione Civiltà bresciana, 2008,
pp. 121-
165 ). Interpretazioni simili, in senso sociale ma con implicazioni
etno-culturali (che riconducono il ghibellinismo alla componente
longobarda) si trovano anche in R. A. Lorenzi, Medioevo camuno :
proprietà, classi, società , Brescia, L. Micheletti,1979.
45
Su
questo tema: R. Mucciarelli,
G.
Piccinni,
G. Pinto,
(a
cura di), La costruzione del
dominio cittadino sulle campagne: Italia centro-settentrionale,
secoli XII-XIV. Protagon Editori Toscani, 2009; Menant, op.
cit., pp. 40-42, 80-81; 2011; per Bergamo: Menant, op. cit, 1999, pp.
51-53, 83-91.
46 Un
caso recente è quello dell’annessione da parte della Francia dei
territori nelle Alpi marittime. Anche lo stato
italiano non fece di
meglio nei confronti degli sloveni e dei tirolesi
nei territori annessi con l'occupazione militare nel 1918.
47L’inquisizione
e la persecuzione religiosa organizzata e feroce sono moderne,
non
medievali. Ma, come è noto la modernità ha avuto buon
gioco a
retroproiettare al "cupo medioevo" le sue nefandezze.