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Il
caro-fieno strangola i piccoli allevatori alpini
di Michele Corti
(21.03.18) La
scarsità del raccolto di fieno dello scorso anno, ha
portato nelle aziende zootecniche di montagna all'esaurimento precoce
delle scorte e alla necessità di
procedere ad acquisti più massicci sul mercato, nell'inverno appena
terminato. I prezzi sono schizzati a 25-28€/ al q.le. In queste
condizioni non basta la vendita del latte e/o dei formaggi
per pagare il fieno. Ma è normale che nessuno ne parli e pensi di fare
qualcosa?
Nelle scorse settimane
alcuni amici allevatori mi hanno sollecitato a parlare della drammatica
situazione di molte aziende zootecniche di montagna. L'origine del
problema risale alla scorsa primavera, quando - a causa delle scarse
precipitazioni - la produzione di fieno risultò molto scarsa.
Quest'inverno, finite le scorte di fieno prodotto in azienda, si è
dovuto ricorrere agli acquisti di rotoballe dalla pianura.
Il mercato del polifita di prato stabile è un mercato molto
condizionato dalla domanda della montagna; in pianura si producono per
lo più insilato di mais. loiessa, medica ed altri erbai. Le zone dei
prati stabili sono abbastanza limitate (bassa bergamasca, pandinasco).
Il problema non riguarda solo la Lombardia ma anche il Piemonte e anche
altre regioni perché la siccità, lo scorso anno, è stata generale.
Quando anche le aziende che sono largamente autosufficienti devono
rivolgersi al mercato del fieno, il prezzo subisce un'impennata. Così
siamo arrivati a 25-28€/q.le, il prezzo di un mangime. Per
l'allevatore, però, non ci sono alternative: non può cambiare
razionamento, e - specie se caseifica direttamente il suo latte -
deve acquistare il fieno a qualunque prezzo.
Dal punto di vista economico il risultato è che per mesi, fino a quando
sarà possibile portare gli animali al pascolo e sarà possibile
distribuire in mangiatoia il primo taglio dell'annata, si lavora in
pari o in perdita.
Corre rilevare che anche il fenomeno opposto: il fieno esitato a prezzi
molto bassi, quando la produzione in pianura è superiore alla media,
destabilizza il sistema agrozootecnico della montagna, disincentivando
dal continuare a segare le superfici borderline. L'evoluzione
floristica dei prati permanenti e dei prati-pascoli è però rapida e la
sospensione del taglio, anche per poche stagioni, altera sensibilmente
la qualità del fieno. Come ben sanno i contadini aumentano piante
perenni, più alte, con fusti fibrosi (sia graminacee che ombrellifere).
Il prato non può essere coltivato che in modo regolare e
continuativo. Bastano pochi anni perché si insedino anche le
legnose.
Ma non si possono aiutare
gli allevatori?
Posto che il peso politico degli allevatori di montagna, tranne a
Bolzano, è veramente modesto (le politiche agrarie dalla formazione del
Mec in avanti hanno incentivato lo smantellamento dell'agricoltura
contadina di montagna), va subito rilevato che, in un caso come questo,
non si può ricorrere alla "calamità naturale", perché c'è stata una
forte dimuzione del raccolto ma non la perdita o quasi.
Con il meccanismo di
mercato che abbiamo visto, però, il danno economico, per un effetto di
moltiplicazione e di mercato anelastico, risulta pesante. Il buon senso
suggerirebbe di venire incontro ai piccoli allevatori coprendo il costo
differenziale del fieno. Si tratterebbe di un aiuto di entità risibile
se confrontato alle colossali cifre dei premi Pace con gli onerosi
finanziamenti in conto capitale a "migliorie" quali gli impianti a
biogas che tanto danno hanno fatto ai veri agricoltori. Ma l'Unione
Europea rappresenta una camicia di forza. Siglando i famigerati
"trattati" l'Italia, e gli altri paesi, hanno abdicato alla residua
sovranità accettando che le scelte politiche le facciano solo la Germania e
la Francia. L’articolo 87 del trattato istitutivo dell’Unione
Europea dice infatti: “Salvo deroghe contemplate
nel presente trattato, sono incompatibili con il mercato comune, nella
misura in cui incidono sugli scambi tra gli Stati membri, gli aiuti
concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi
forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o
minaccino di falsare la concorrenza.”
Come possano falsare il commercio internazionale i prodotti dei
contadini di montagna (per lo più commercializzati attraverso filiere
corte) non è dato di sapere.
Molti piccoli produttori hanno solo la Scia (ex autorizzazione
sanitaria), avendo rinunciato (i controlli sono già tanti così!) al
"bolle CE". Non possono vendere fuori della provincia e delle provincie
limitrofe. Ma quale "alterazione" dei sacri dogmi del libero commercio
possono determinare? Eppure, le deroghe, concesse graziosamente
ai sudditi europei dall'arcigna Commissione (un governo non eletto da
nessun parlamento, con forti connotati di struttura tecnocratica
autoreferenziale "pilotata" da lobby opache), dicono che - nel caso dell'agricoltura - la deroga al
sacro principio del divieto di aiuti di stato, non può superare la
favolosa cifra di 15 mila euro ... in tre anni. Rispetto ai soldi che
girano con i premi Pac una vera miseria. Anche se venisse messa in moto
la procedura, il risultato sarebbe veramente minimo e precluderebbe
altri interventi di aiuto nel triennio.
Una risposta strategica
Nell'immediato
non vi sono molte chance di ottenere aiuti per il
"caro-fieno". Si deve porre la questione politica oggi, però, in modo
che la prossima volta si possano mettere in campo delle soluzioni.
Vi sono poi tutta una serie di linee di intervento di
medio e lungo periodo che possono essere applicate per affrontare il
problema, nel suo aspetto "cronico". La carenza di fieno è legata nella montagna alpina a due
problemi: 1) la cementificazione (specie con riguardo ai fondovalle,
agli altopiani, ai terreni intorno ai centri abitati oggetto di
disordinata espansione); 2) l'avanzata del bosco che, sino a ieri, era
fortemente incentivata dalle normative intrise di vieto forestalismo
ideologico. Oggi è solo un po' meno difficile districarsi tra le
autorizzazioni finalizzate ad ottenere sia la trasformazione di terreni
invasi in tempi recenti dal bosco in prati e pascoli che il ritorno al
pascolo in bosco.
Sulla prima ormai il danno è fatto, si spera solo che il consumo di
suolo venga bloccato e che sia incentivato solo il recupero dei nuclei
storici. Sul secondo punto c'è molto da fare per smantellare il
castello di vincolismo forestal-ambientalista che si è sedimentato in
due secoli e mazzo di politiche forestali anti contadine. Una
volta recuperati alla coltivazione i terreni, che le boscaglie e i rovi
avevano rubato, una volta superare le ultime resistenze al ritorno alla
pratica del pascolo in bosco (fatte salve le esigenze di rinnovamento
dei boschi di protezione con finalità idrogeologiche) vanno promosse
altre azioni. Innanzitutto vanno superate le pastoie di un regime
fondiario anacronistico. La polverizzazione fondiaria va eliminata,
offrendo ai proprietari risarcimenti (quando rintracciabili) ma
comunque consentendo a chi vuole coltivare e pascolare di utilizzare i
terreni. In alternativa, c'è la soluzione, più "morbida," delle
associazioni fondiarie che coinvolgono gli attuali proprietari nelle
gestioni.
A latere di queste
misure ve ne sono altre, meno politicamente sensibili, che
consistono nell'assegnare priorità, nell'ambito delle misure dei Psr,
alla dotazione da parte dei contadini di montagna di meccanizzazione
specifica per la fienagione (purtroppo molto costosa) adatta ai terreni
a forte pendenza. Ma anche alle soluzioni innovative per la
relizzazione della fienagione in due tempi mediante l'utilizzo di fieno
sfuso essiccato in fienile con l'energia solare termica. Questi
fienili, che consentono di migliorare la qualità del fieno (e del
latte), implicano costi importanti per le strutture edilizie e le
attrezzature (carro ponte). Strutture di questo tipo, spesso troppo
impegnative per il singolo piccolo allevatore, potrebbero essere
gestite quali strutture comuni da reti di imprese, con la
partecipazione anche di coltivatori che non hanno più bestieme e di
coltivatori non in condizione professionale ma che potrebbero essere
interessati, ai fini di un reddito integrativo, a riprendere a
sfalciare i propri terreni.
Una svolta epocale della
zootecnia alpina (contadina) più capre, più pecore da latte, vacche più
rustiche e mignon
Tutte queste misure, però, perdono di senso se non si opera una
conversione zootecnica. La possibilità di utilizzare risorse foraggere
locali direttamente mediante il pascolamento è la prima condizione per
risolvere il problema della scarsa sostenibilità di sistemi zootecnici
alpini fortemente dipendenti dall'approvvigionamento di fieno
dall'esterno. Servono animali che possano passcolare il più a lungo
possibile in più posti possibile. Oggi finisce un ciclo secolare che
aveva portato la vacca da latte a mettere in secondo piano ovini
e caprini. Sono passati cinque-seicento anni e la storia sta
rigirando in un altro senso. In molte realtà (più sull'Appennino che
sulle Alpi, ma anche in alcuni contesti alpini) stiamo tornando alla
situazione dell'alto-medioevo, prima delle grandi iniziative di
dissodamento dei secoli del boom nedioevale. L'espansione del bosco,
degli arbusteti richiede, per sfruttare queste superfici e contenerne
l'ulteriore espansione, di ampliare l'allevamento ovicaprino, di
puntare sulla produzione di latte non solo con le capre ma anche con le
pecore. Una condizione per ripristinare un equilibrio ecologico ed
economico che i sistemi di allevamento bovino "spinti", figli della
pianura, non potranno mai più recuperare. Bisogna anche approcciare in
modo molto radicale
l'allevamento bovino. Tra XVI e XIX sec. i bovini da latte (ma erano a
triplice attitudine in realtà) sono molto aumentati sulle Alpi, sotto
la spinta di una complessiva evoluzione economica, commerciale,
politica. Ma non si deve dimenticare che - ancora a fine Ottocento - le
"grosse" vacche dei bergamini transimanti, i "professionisti"
dell'allevamento, erano animali da 3-4 q.li (il peso della grigia alpina sino a pochi
decenni orsono), mentre le vacche "casaline" pesavano 2-3
q.li. La possibilità per un animale leggero di muoversi su
terreni scoscesi e "sporchi", di non compattare il terreno del pascolo
in periodo piovoso è la chiave per un recupero di risorse foraggere.
Vero che le produzioni di queste vacche miniaturizzate (in realtà sono
le moderne brown e frisone dei bestioni mostruosi) saranno ridotte ma
qual'è l'obiettivo strategico dell'azienda di montagna: ridurre il
costo dell'alimentazione, ridurre la dipendenza dall'acquisto di fieno
dal mercato. Vero che contano i costi fissi ma, anche in questo caso,
bisogna emanciparsi da orientamenti tecnici "pelosi" che hanno premiato i
venditori si attrezzature, stalle prefabbricate, macchinari. In un
contesto di piccola azienda la super automazione, la tecnologia
complicata (basta pensare cosa succede quando un'apparecchiatura
sofisticata si guasta) creano più problemi di quelli che risolvono. Se
le strutture tornano ad essere spartane, le attrezzature non ridondanti
e (la trattrice nuova da ostentare con i colleghi), allora i costi
fissi peseranno meno e sul litro di latte il risparmio dell'aumento
dell'incidenza del pascolamento avrà un effetto significativo.
Sul piano del prezzo, una produzione in volume fisico limitata ma
basata su fieno, erba e... amore ha buobne possibilità di svincolarsi
dalla dittatura del mercato che umilia le produzioni agricole.
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