Testi: Michele Corti
Titolo: I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva
Collana: asSaggi
Prezzo: 14,50 euro - prezzo soci Slow Food 11,50 euro
Pagine: 192
Formato: 13x21
La presentazione avverrà in anteprima il giorno 17 settembre alle ore 17 presso il Caffè letterario e musicale nel cortile di Slow Food editore, durante la manifestazione
Cheese. L'indirizzo è via della Mendicità Istruita 45, BRA (Cn) (vedi punto 12 in mappa)
La ribellione anima un’intera comunità che si riconosce attorno a una specificità negata in nome della standardizzazione
Ne parlano:
Michele Corti, docente universitario, blogger, ruralista e autore del libro
Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità
Con la partecipazione dei produttori del Bitto storico
L’assaggio: il bitto storico degli alpeggi ribelli delle Orobie occidentali: valle del Bitto (So), dalta val Brembana (Bg) e alta val Varrone (Lc) - Presidio Slow Food
Non usa fare autorecensioni. Con piacere però riporto a presentazione del libro la prefazione dell'amico Piero Sardo. Il ruolo di Piero nella vicenda è stato cruciale. Spero che emerga comunque dalla esposizione delle vicende del Bitto anche se Piero ha voluto che fosse ridimensionato il paragrafo
che lo riguardava con considerazioni tratte da esperienze di prima mano, dalla mia testimonianza dall'interno della 'vicenda Bitto'. Non è frequente trovare che si comporta come Piero e in questa sede, e nelle occasioni in cui avrò la possibilità di farlo, ci tengo a farlo sapere.
Prefazione di Piero Sardo a "I ribelli del bitto"
Perché lo fanno? Perché questo gruppo di malgari valtellinesi da anni si rifiuta di assecondare le indicazioni delle istituzioni – consorzi, assessorati, sindaci, ministero – e rivendica orgogliosamente la sua diversità? Sarà questa la domanda che vi porrete quando avrete letto le pagine
di questo libro, quando avrete seguito capitolo per capitolo gli eventi narrati da Michele Corti, le tappe di un decennale conflitto che è stato sintetizzato nel titolo I ribelli del bitto. Per lo meno è la domanda che io mi sono posto, non certo per dubitare della straordinaria valenza politica di questa battaglia, alla quale non posso che applaudire, ma per tentare di capire le opzioni psicologiche in gioco, le ragioni sociali di questa gente e di queste comunità.
Va detto che nella vicenda non sono neutrale: il rapporto che lega Slow Food ai ribelli del bitto è di antica data e di grande condivisione. Ma molti, moltissimi lettori meno coinvolti, invece, se la porranno la domanda, non tanto per capire, ma per dar sfogo, magari inconsciamente, alla solita italianissima
dietrologia, all’immancabile «cosa c’è sotto?».
In questi anni abbiamo assistito a gesti di reazione assai più eclatanti di questa ribellione: operai su torri e ciminiere, digiuni devastanti, dissidenti che hanno sacrificato la vita per un’idea, giovani che sfidavano la repressione più violenta per manifestare il loro dissenso. Ma in questi casi
i termini della questione erano chiari, era in gioco il lavoro, la libertà di espressione, la dignità sociale e politica: si poteva essere d’accordo o no con leproteste, ma non vi era dubbio sulle ragioni delle stesse.
Nella vicenda del bitto e dei suoi protagonisti le ragioni del conflitto sono chiare e il libro ben le sottolinea, ma la posta in gioco non pare così evidente. Loro continuerebbero comunque a fare i malgari, a produrre bitto come meglio credono, a venderlo alla sempre più folta schiera di appassionati
e conoscitori, anche rientrando nei ranghi, anche accettando le regole che altri hanno dettato per questo antico formaggio. E infatti assessori e funzionari, ogni volta che si vedono respinte le proposte di mediazione, scuotono il capo un poco increduli: «cosa c’è sotto?».
Provo a spiegarla raccontandovi di mia nonna. Lo so, raccontare della famiglia è uno snodo usurato e retorico, ma l’esempio secondo me è calzante e aiuta a comprendere.
Mia nonna Nina era una cuoca straordinaria, cucinava un mix di piatti liguri e monferrini che non ho mai più ritrovato a tale livello di perfezione. Verdure ripiene, zuppe di legumi, torte verdi salate, agnolotti quadrati, gnocchi, coniglio al barbera, cima alla genovese, pollo alla cacciatora, subric,
peperoni in salsa, batsoà e così via, per un ricettario magari non amplissimo, ma irresistibile. Tutti i giorni. Le materie prime erano direttamente sotto il suo controllo: viveva in campagna e allevava polli, faraone e conigli, coltivava l’orto, metteva via personalmente frutta, verdure, conserve di pomodoro. E decapitava oche, scuoiava conigli, tirava il collo a capponi con la pacata indifferenza tipica dei contadini e del loro duro, a volte crudele, rapporto con gli animali, anche se lei
non era di famiglia contadina. Ma per cucinare bene le carni, diceva, gli animali bisogna ucciderli di persona, senza farli soffrire, senza trasportarli, senza spaventarli: così si capisce bene quanto vale quella carne e come bisogna cuocerla. Tant’è vero che a casa nostra si mangiava raramente carne bovina: perché arrivava da altre mani. E per far questo tutte le sante mattine era in piedi alle sei, estate e inverno, che dovesse cucinare per sé e suo marito o per venti, quanti eravamo
nelle feste del paese fra figli e nipoti. Alle sei e mezza le pignatte erano sul fuoco e così per tutta la mattina era un andare e venire tra orto, pollaio e cucina. Lo ha fatto sino a ottant’anni, prescindendo da una ragione precisa: lo ha fatto perché era il suo modo di concepire la cura della casa, di preparare il cibo, la sua volontà di non cedere al supermercato, al pelato in scatola, ai filetti di pollo, all’insalata in sacchetto. Non era una ribellione, era un modo di essere, non aveva
obiettivi da raggiungere. A volte eravamo noi, i parenti, a dirle: «rilassati, non è il caso, basta stare un poco assieme». Potreste addirittura giudicarla una forma di pacata follia, e forse lo era, ma per lei era nulla di più e nulla di meno di quel che andava fatto. E solo quando non abbiamo più potuto godere di quella cucina ci siamo resi conto di quanto avevamo perso. Mentre lei c’era e cucinava, a noi pareva la normalità avere quei piatti e a lei pareva normale fare
come faceva.
Questa mia esperienza personale si lega alla vicenda del bitto storico perché l’unica spiegazione che può rendere conto dei comportamenti di Nina e dei ribelli si basa su motivazioni non economiche, ma direi – senza paura di esagerare – etiche. Il lavoro dei malgari, di questi malgari – tra i più
duri per fatica fisica, impegno, tempo e competenze necessarie che oggi sia dato conoscere – sopravvive per ragioni essenzialmente culturali ed etiche. Certo, la remunerazione conta e ci mancherebbe: il bitto dei ribelli, grazie anche al lavoro di Paolo Ciapparelli e dell’Associazione, vale più del doppio del formaggio del Consorzio, e questo è importante per rinsaldare motivazioni e dettare strategie. Ma, come dicevo prima, potrebbero continuare a produrlo anche se fossero all’interno del Consorzio,
anche se accettassero di sottostare a un disciplinare che non condividono. Anzi, potrebbero usufruire delle elargizioni che molti promettono, a patto che cessi il conflitto.
Non accettano di essere assimilati agli “accomodanti” – chiamiamoli così tanto per capirci – perché sanno benissimo che così facendo alla fine il loro destino sarebbe segnato. Ma gari non loro, ma chi verrà dopo di loro comincerà a chiedersi il perché di tanta fatica,
le ragioni di tanta intransigenza, e comincerà a cedere, a usare fermenti e mangimi, ad abbassare la quota del latte caprino, ad abbandonare la caseificazione nei calécc: insomma a rinunciare piano piano alla monticazione tradizionale e al bitto storico.
Per evitare proprio questo probabilissimo cedimento, hanno deciso, da anni ormai, di fare di questa loro opzione una scelta di vita, un filo che lega un’intera comunità alla sua storia, al suo habitat, al suo futuro. Non è una pura e semplice questione di identità da preservare: troppe nefandezze
vengono commesse nel mondo in nome dell’identità, del localismo cieco, del particolarismo. Basterà leggersi lo splendido libretto di Amin Maaluf, L’identità, per comprendere a fondo quanti pericoli si celino dietro questo concetto, che pure è sacrosanto rivendicare. Non vi diranno mai «noi siamo i puri, gli altri hanno venduto l’anima». Sanno benissimo che anche gli altri, gli accomodanti, vanno in alpeggio, faticano, credono nella tradizione, producono buoni formaggi:
ma hanno fatto un passo indietro. Vi diranno: «noi facciamo così perché questo a noi pare il modo corretto di fare, perché questo è quanto facevano i nostri padri e i nostri nonni su queste montagne».
Ora, senza bitto storico si può certamente vivere, se ne può fare a meno. Come si può fare a meno di Mozart, delle chiese romaniche, di Thomas Mann: ma la deriva che innesca questo fare a meno può avere conseguenze catastrofiche, perdonatemi l’enfasi, per la nostra umanità, per
la nostra civiltà. Se vi pare eccessivo, sicuramente avrà effetti deleteri per l’ambiente alpino e per l’eccellenza casearia. Vi pare poco? Mi auguro di no. Per Slow Food questa è una grande lezione, una fonte di ispirazione e di incoraggiamento, alla quale non siamo disposti a rinunciare senza lottare con i ribelli.