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cultura
ruralpina (in valle Imagna)
Il
fienile come granaio
(in
montagna)
di
Antonio Carminati
Foto: Fienagione tradizionale sulle
Orobie. Anni Settanta del Novecento. Fotografia di Emilio Moreschi.
Archivi della Memoria e dell'Identità del Centro Studi Valle Imagna.
Nella
civiltà agropastorale alpina il fieno assume una forte centralità.
Dalla sua raccolta dipende la possibilità di mantenere più o meno
animali durante l'inverno, animali da vendere o da utilizzare per il
latte, animali produttori del prezioso letame. Dal fieno quindi
dipendeva la ricchezza (o la minor povertà, per meglio dire) della
famiglia contadina. Il grosso del prodotto si ottiene dal primo taglio,
che è spesso effettuato a giugno. Scarsa la produzione del secondo
taglio e dell'eventuale terzo. Così in questo periodo il contadino si
affidava alla protezione celeste, affinché dal cielo materiale non si
abbattessero acqua e grandine, pronto però (aiutati che il ciel
t'aiuta) a saltare giù dal letto e a correre a radunare il fieno in
mucchi più grandi per proteggerlo dalle intemperie.
(08.06.19)
La fienagione è una di quelle attività rurali che,
certamente più di altre, fa sentire il contadino, in montagna, debole e
dipendente da forze esterne assai più potenti e sconosciute, quali
sono, nelle nostre rimembranze, ma pure nella contemporaneità, i
fattori atmosferici avversi e imprevedibili. Non che alla Bassa non si
vivano queste apprensioni, ma non è la stessa cosa, poiché sui versanti
delle vallate alpine e prealpine, piccoli allevatori e modesti
agricoltori di monte si identificano in modo più profondo con il loro
ambiente, fanno parte della terra che lavorano ancora a forza di
braccia, poichè quelle meccaniche le
rìa mia depertöt (non arrivano dovunque). Si sentono feriti
nell’orgoglio, oltre che en dol bursì
(nel portafoglio), quando un temporale improvviso – non è una novità
sulle quote alte – li coglie di sorpresa e, dopo qualche improvviso
tuono di preavviso, scarica la sua dose di acqua sul foraggio in fase
di essiccazione, anzi a volte persino in attesa di essere imballato e
trasportato sul fienile.
Con
l’acqua, tutto il cielo crolla addosso, li
lascia ancora più soli a macerare nei loro pensieri e, in pochi minuti,
vengono annullate almeno due giornate di lavoro, tanto quanto basta al
foraggio per secà
(essiccare): tagliata la mattina del giorno prima con la Bcs (oppure
con la rotante collegata al trattore nelle zone pianeggianti), quindi
subito spandìda col ràscc
(sparsa con il forcone) infine oltàda
(rivoltata) il pomeriggio con girello e rastrello, la sera, quando il
tempo non promette bene, l’erba, che sta diventando fieno, ma non lo è
ancora, viene ‘nrenàda, ossia
leggermente ammucchiata e riunita in lunghe còle
(andane) nel prato, a mezzo di rastrello e ranghinatore. Durante la mia
infanzia, le famiglie erano ancora più prudenti e la sera era
consuetudine montonà sö ol fé,
ossia costruire con la forca grossi mucchi di foraggio, a forma conica,
aventi anche oltre un metro di base per circa un metro e mezzo di
altezza, che venivano di norma coperti con de tòch de plàstega (po'
di [telo] di plastica).
Era
il modo migliore per proteggere il prezioso
alimento dal temporale in vista. Si lasciava ammucchiato in lunghe
colonne solo quando era certo il perdurare del bel tempo, ma sempre con
molta apprensione. All’occorrenza ci si alzava anche la notte, per
correre nel prato a fà sö i muntù
(formare i cumuli) o a quarciài dó bé
(coprirli per bene), nell’imminenza di un temporale… Tutto era
condizionato al fieno. L’indomani, poi, si procedeva di nuovo a spàndel, in mattinata, sempre col
ràscc tra le mani, attendendo che la códega
(cotenna, cotico) del prato fosse asciugata, anche solo dalla rösàda
(rugiada) notturna; quindi, di norma, l’erba ancora oggi va rivoltata
almeno due volte: verso mezzogiorno e poi due ore dopo circa, prima di
procedere, a conclusione del processo, col ranghinatore per radunare
definitivamente la massa di fieno frusciante ormai essiccato,
preparandolo, raccolto in lunghe colonne, al passaggio della
rotoimballatrice, che lo raccoglie, lo compatta e restituisce sotto
forma di grossi balù de fé
(balloni di fieno).
È
la pioggia il vero nemico della famiglia intenta a fà l’fé
(alla fienagione) e, quando l'acqua compare inattesa, annulla tutti i
programmi di lavoro messi a punto in precedenza, a volte già in fase di
conclusione, e costringe e diversi componenti a ripensare al domani,
riprogrammando anche quelle attività che si pensavano ormai ultimate.
Quando si bagna, o si raffredda la sera, ol fé e l’reègn
(il fieno rinviene), ossia perde quelle caratteristiche che lo rendono
maturo e trasferibile sul fienile. È come se si rinverdisse in parte.
Più è secco e più assorbe l’acqua, che penetra soprattutto nelle bösche (fusti). Occorre
ricominciare da capo, quindi tornà a spànd
ol fé, oltàl (spandere
il fieno e rivoltarlo) più volte, sino a farlo di nuovo asciugare;
infine, quando la massa di foraggio sciolto e sparso nel prato si è di
nuovo riscaldata, la ‘ndà teràda
ensèma
(raccolta) e messa al sicuro, prima che un altro improvviso temporale
colpisca per la seconda volta un lavoro già faticoso e difficoltoso. La
natura è imprevedibile e a volte fa brutti scherzi.
Proprio
ieri pomeriggio, mentre eravamo in chiesa per dare l’ultimo
saluto funerario a un compaesano, amico conosciuto e stimato per la sua
generosità, öna bràca de fé
(una manciata di fieno)(1), nella contrada Regorda, in prossimità della
Bibliosteria di Cà Berizzi, già pronta per essere imballata, stimata in
circa cinque o sei quintali, l'è
restàda sóta l’aqua
(ha preso l'acqua). Un temporale inatteso ha fatto la sua comparsa
improvvisa. Il momento struggente dell’ultimo saluto al caro compianto
– tutta la comunità radunata sotto la grande volta della chiesa - è
stato accompagnato, all’esterno, dal rumoreggiare del temporale in
arrivo nella calotta celeste, ancora una volta da drì al ([proveniente]
da dietro il) Sécol (2)
preannunciato dal suo inconfondibile brontolio e da improvvisi
assordanti tuoni, come tanti colpi di mortaio, che anticipano e
preparano il terreno alla battaglia. Non è valsa l’inutile corsa nel
prato, al termine della cerimonia religiosa, quando acqua e ghiaccio
hanno colpito a raffica e indistintamente ogni cosa.
Pazienza.
In questi casi non rimane altro da fare che rassegnarsi. E
ripartire di nuovo. Ricominciare da capo. Proprio come insegnava la
maestra a scuola. Punto e a capo. I montanari sono allenati a questa
modalità, ma ogni volta non si può non provare sofferenza e, non di
meno, emergono anche alcuni atteggiamenti di ribellione, che però si
spengono subito, sul nascere, di fronte all’ineluttabilità di eventi
non revocabili.
In montagna l’uomo vive ancora in simbiosi con la natura, gioisce e
soffre con essa, si arrabbia e poi riposa, poiché ha conservato e
rinnova ogni giorno, nelle sue azioni quotidiane, una relazione di
appartenenza, sostanziale, con radici profonde nella storia,
nell’ambiente umano e nella famiglia. L’uomo è talmente compenetrato
nella struttura ambientale dei luoghi al punto da caratterizzare la
dimensione economica e sociale degli insediamenti rurali. Poiché la
storia non cancella nulla, ma costruisce un labirinto di tracce e,
semmai, nasconde la verità solo agli sprovveduti o alle persone
superficiali, mi sono chiesto come mai la fienagione era, ed è ancora
oggi, così sentita dalla popolazione locale, anche da coloro i quali
ormai non vivono più né di allevamento né di agricoltura, al punto da
creare una sorta di partecipazione generale al beneaugurante sfalcio
dei prati? Un rito collettivo.
Mentre maggio è il periodo della grande fioritura, il mese di giugno è
sempre stato quello del raccolto e, se qualche evento avverso l’avesse
pregiudicato, a venir meno era la stessa capacità di sostentamento
della famiglia rurale. Quando, poi, al temporale passeggero, facevano
seguito giornate consecutive di pioggia, col tép maciàt dó (3), dopo una
settimana quel foraggio reciso disteso nel prato e l’deentàa patös (è diventato
"pattume" uno scarto)(4) diventa e
poteva essere utilizzato, nella migliore delle ipotesi, come stràm (strame) per
la lettiera delle vacche nella stalla.
I
fienili sono sempre stati i veri “granai” della montagna. Attualmente
il danno provocato dalla perdita di una parte del foraggio può essere
facilmente recuperato mediante l’acquisto di un prodotto corrispettivo
proveniente dalla Bassa, ma un tempo, ancora sino a tutta la prima metà
del Novecento, la mancanza di comode strade carrabili e di efficienti
mezzi di trasporto rendevano impossibile il perseguimento di tale
soluzione e al contadino, incorso in simile grave sventura, non
rimaneva altro che svendere il bestiame. E, quando una vacca usciva
dalla stalla, non per pascolare libera nel prato, ma legata alla corda
e portata via dal bechèr
(macellaio), oppure dal nuovo acquirente, per mancanza di
una scorta sufficiente di foraggio, erano pianti di miseria per la
famiglia! Se ne andava un pezzo di economia, veniva meno una parte
della famiglia, quando anche la vacca era considerata, a pieno titolo,
una componente essenziale del gruppo parentale. Si creava, al suo
interno, un clima di lutto vero e proprio. Nella parte più recondita
della nostra memoria, sono probabilmente ancora presenti queste antiche
paure e la fienagione continua ad essere tutt'oggi una delle attività
rurali più sentite e partecipate.
Le
rogazioni del maggio avevano la
funzione di allontanare tale cattivo e infausto presagio. Come nella favola di Esopo, quassù i contadini, soprattutto durante
l’estate, lavoravano assiduamente, come tante formiche, con l’obiettivo
di mettere via le provviste per l’inverno. E con quanta parsimonia e
passione, anche nelle cose minute! Piccole ma importanti scorte
quotidiane accumulate sul fienile, quando una parte importante
dell’economia delle famiglie rurali gravitava attorno alle risorse
zoo-casearie. Ol Tata le stàa sö la
stala dol fé (il patriarca stava nel fienile) , pronto ad
accogliere ol portadùr col fasì de
fé sö i spàle (il portatore con il fascio di fieno sulle
spalle), che veniva scaricato sura
la
mida (sopra al mucchio), alla quale si accedeva mediante una
robusta scala a pioli. A ‘ndà
sóta la sdìrna (a trasportare la fraschera)(5) erano uomini e donne
indistintamente, i più giovani e
robusti: giunti d’innanzi al purtù de
la stala dol fé, ol portadùr
(al portale del fienile) doveva chinare leggermente la testa in avanti,
già fissata nella nécia
dol fé (nicchia del fieno) in mezzo alla sdìrna (fraschera), per spingere
in avanti il grosso carico
che aveva sulle spalle, per farlo passare; ma non era ancora finita
perché, dopo quella fatica, al termine del viaggio, doveva risalire,
sempre col grosso carico sulle spalle, alcuni basèi dol scalèt
(pioli della scala) appoggiato(a) alla mìda dol fé (mucchio di fieno), per
poter finalmente scaricare il grave
peso. L’anziano capo della famiglia lo slegava e, una volta liberata la
sdìrna, forca alla
mano, distribuiva la massa di fieno ancora
frusciante su tutta la superficie, invitando noi bambini a pestàl bé (a comprimerlo con i
piedi),
soprattutto negli angoli e vicino ai muri. Non c’era tempo da perdere, besognàa fà a la svélta
(bisognava fare alla svelta), perché un altro fasì (fascio) sarebbe stato in
arrivo
da lì a poco. Il nostro spasso, invece, consisteva nel salire söl caàl
(trave) della grossa capriata, al centro della stalla, per poi tuffarci
in quel
“mare” di fieno. Non c’era miglior divertimento. Sino a pochi decenni
or sono, tutto il fieno veniva fatto a mano, dallo sfalcio dell’erba
con la rànza (falce fienaia),
sino alla sua lavorazione ed essiccazione nel prato a
mezzo di rastèl (rastrello) e ràscc
(forcone), infine al trasporto con la sdìrna
sul fienile
in forma sciolta, dove veniva ben distribuito e compressato,
calpestandolo in continuazione. Al giorno d’oggi molte cose sono
cambiate e il foraggio viene compattato nel prato entro rigide
rotoballe: il fienile non è più lo spazio “vivo” della distribuzione e
ordinazione del foraggio sciolto, dove si completava la sua
maturazione, ma un semplice magazzino di rotoballe. Una concezione
completamente diversa dello spazio.
Il
nonno, sempre l’ultimo a lasciare il campo, quando anche l’ultimo
fasì era stato trasportato sul fienile e i vari protagonisti del
faticoso lavoro rientravano a casa o in stalla, dove li attendevano
altri impegni, si fermava innanzitutto e pegnà dó la mida dol fé (pareggiare
il mucchio di fieno),
pettinando con il rastrello la parete di fieno sino ad ottenere una
perfetta linea verticale, tirata come col filo a piombo; quindi
ritornava, ancora da solo, nel prato, armato di rastrello, per
“ripettinarlo” diffusamente, come una grande carezza, raccogliendo
anche i piccoli rimasugli di fili di fieno sparsi qua e là, che solo i
suoi occhi allenati intravvedevano anche a distanza. Interpretata con
il senno del poi, si tratta di un’azione significativa più sul piano
simbolico che economico. Era una forma di silenziosa riconciliazione
personale con la natura, che aveva contribuito a riempire il fienile
della stalla, e di ringraziamento alle forze sovrannaturali, le quali
avevano certamente contribuito alla conclusione positiva del raccolto.
L’anziano capostipite era sempre molto attento alla gestione del prato,
durante tutto l’anno: lo teneva ben pulito, sgombro da i tópe (dalle [buche delle]
talpe), senza
rovi o cespugli ai margini e sulle linee di confine con il bosco. Tutto
doveva sempre essere in ordine. Una continua ricerca della perfezione,
attraverso l’osservazione quotidiana di un contesto assai familiare,
costruito giorno dopo giorno con tanti piccoli lavoretti di
manutenzione. Ancora prima che essiccasse, cioè appena falciato da uno
dei suoi figli con la robusta Bcs, dal graffiante motore a scoppio,
acquistata negli anni Settanta (considerata un vero progresso, allora,
nonostante fosse assai pesante da governare, dotata di una sola ruota e
con pèchen (lama a [pettine])
snodabile, che si fissava in verticale quando doveva essere
condotta sui sentieri di montagna), ol
Tata (il patriarca), con seghés
e rànza (falcetto e falce fienaia) al
seguito, ripassava rìoi e sise ([i
bordi] dei rivi e delle siepi), per tagliare anche gli ultimi ciuffi
d’erba rimasti. Il prato era lo specchio della sua vita. Essenziale e
ordinata. Ogni anno ripeteva, da una vita intera, le stesse azioni, i
medesimi gesti, con gli attrezzi di sempre, costruiti personalmente con
le sue mani. Con tanta forza e coraggio, che immancabilmente regalava
alla sua famiglia…
Note
(1) Una quantità tutto sommato modesta
(2) Una montagna della valle
(3) Intraducibile. Tempo con nuvole dense e basse e che minaccia
pioggia imminente.
(4) Il patös è il fieno
"selvatico" di scarsissima qualità raccolto nei boschi
(5) La fraschera (voce lombarda accolta nell'italiano regionale
corrente) è un lungo telaio di legno che consente di trasportare il
fieno sulle spalle e sopra la testa, legato con delle corde.
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Serie
cultura
ruralpina (in valle Imagna)
a
cura di Antonio Carminati
Tempo
di preparazione all'alpeggio
(18.05.19) A
Corna Imagna, come in tante realtà delle prealpi, l'alpeggio è
praticato spostandosi su maggenghi siti a diverse quote, sino a
raggiungere i 1.000 m. Si reata, però, sempre a moderata distanza
dal villaggio. Così il contadino saliva e scendeva ogni dai
pascoli e la sua attività principale continuava ad essere la
fienagione. Per le bestie, ma anche per gli uomini, era comunque un
periodo atteso.
Maggio:
natura fiorita e culto
popolare
(10.05.19) Quando
la fede popolare umanizzava e santificava la natura in fiore, i campi,
il territorio. Nel mese di maggio, oltre al culto mariano, erano
importanti le preghiere e i riti di benedizione delle case, dei campi,
dei raccolti ancora incerti. Lo spazio abitato, che andava ben oltre
quello "urbanizzato", era presidiato da contrade e cascine e marcato da
numerose presenze del sacro, prime tra tutte le santelle per le
quali transitavano le processioni delle rogazioni a marcare lo spazio
simbolico della comunità da difendere dal disordine e dalla negatività leggi
tutto
Quando
la vacca deve partorire. Quand che la aca la gh'à de fà
(05.05.29)
Per la famiglia contadina tradizionale, ma anche per il piccolo
allevatore di montagna di oggi, l'attesa del parto della vacca è piena
di trepidazione. Si spera che nasca una femmina ma si temono le
complicazioni del parto. Ancor oggi tutto quello che ruota intorno alla
riproduzione bovina nelle piccole stalle è oggetto di pratiche di
solidarietà orizzontale che tengono insieme la comunità degli
allevatori locali.
Hanno
ucciso la montagna (la fine della grande famiglia del nonno)
(15.04.19)
Nel racconto autobiografico di Antonio Carminati la "grande
trasformazione" degli anni '60. L'entrata nella modernità, vista per di
più come limitativa e negativa, attaverso l'esperienza di un bambino
che vive il passaggio dalla vita patriarcale di contrada a quella della
famiglia nucleare e dell'appartamento "stile città", una distanza di un
km o poco più in linea d'aria che segna il passaggio traumatico tra due
mondi.
Architettura
identitaria. I tetti in piöde, bandiere di identità valdimagnina
(06.04.19) In valle Imagna L'arte delle
coperture, della posa delle piöde ha raggiunto particolare
perfezione tanto da assumere i connotati di un emblema identitario. Non
sono poche, però, le difficoltà nel conservare e far rivivere questo
patrimonio di valori culturali (saperi, abilità) ed estetici. Un tema
per un utile dibattito con il coinvolgimento delle comunità locali e
non solo degli addetti ai lavori.
Pecà
fò mars Il rito della definitiva cacciata della cattiva stagione
(31.03.19)
Dopo il carnevale, ancora una volta, per cacciare la brutta stagione,
soprattutto la sua pazza coda di marzo, occorre produrre altro rumore,
diffondere suoni anche strani nell’aria, insomma fare chiasso e… tanto
baccano. La funzione è sempre stata duplice: da un lato
allontanare gli spiriti del male, dall’altro richiamare ad alta voce la
bella stagione, facilitando così il risveglio della natura
Omaggio
ai boscaioli emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19)
Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella
dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e
le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso
ricordarla.
La gestione
del letame nell'economia
agropastorale
montana
(20.03.19) Lo spargimento del letame nei
prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel
passato. quale fertilizzante, è forse una delle attività
maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della
conclusione di un ciclo.
La
stalla e gli altri manufatti dell’edilizia tradizionale
(03.03.19)
Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di
accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di
esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che
dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come
tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a
sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie,
presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue
caratteristiche naturali e antropiche.
La
distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19)
Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne
offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce
gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure,
di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene
di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute",
disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal
Cinquecento).
La
caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli
uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una
volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti
all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano
[a caccia] di volpi).
L'economia
delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori
e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa
per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo
alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta
somma di denaro...
In
morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) La
triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna.
Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di
prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a
"uso vacanza".
La méssa dol rüt
(08.01.19) La
méssa dol rüt (la concimaia) era l'elemento chiave di un
paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e
sprecare risorse
Il Natale dei contadini. Un rito che non
scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18)
Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione
del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori. Quella
che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero
possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza
della macellazione con qualche immagine di insaccatura.
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