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COMUNICATO. RIPARTE LA CAMPAGNA DI
AZIONARIATO POPOLARE A SOSTEGNO ALLO STORICO RIBELLE (EX-BITTO STORICO)
Dopo il cambio di statuto per
divenire Società Benefit, secondo la nuova legge in vigore dal 1
gennaio 2016, la Società Valli del Bitto riapre
la campagna di azionariato popolare. Società benefit è quella che non
mira solo al proprio utile ma a vantaggi per la società, il territorio,
l'ambiente.La Società Valli del Bitto punta solo alla sostenibilità
economica e non al lucro. Senza di essa non potrebbe conseguire i
propri scopi che sono in primo luogo garantire - attraverso la
valorizzazione economica - la sopravvivenza del formaggio "storico
ribelle" (ex-bitto storico) con tutto il suo sistema di produzione in
alpeggio che rappresenta un monumento di cultura e di
biodiversità. Lo
"storico ribelle" è Presidio Slow Food, il presidio che - a detta di
Slow Food - incarna forse al meglio il principi del cibo "buono -
pulito - giusto". Tutti possono partecipare a questa Società che
incarna l'ideale dell'agricoltura etica sostenuta dalla comunità che, a
sua volta, sostiene il territorio. Si diventa soci anche solo con 150€ ( con un tetto
di 20 mila €).
A
tutti i soci viene riconosciuto un "dividendo etico" in
natura pari al 2% del capitale sottoscritto e uno sconto del 10% sul
prodotto Tutti i soci partecipano all'assemblea e al pranzo
sociale. Per sapere come
associarsi:
TEL. 334 332 53 66
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Dizionario del bitto ribelle (01.01.17) Un 'regalo' di
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Lo
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(23.12.16)
Dal 29 novembre la Società Valli del Bitto (meglio nota come
"ribelli del bitto") è bcorp. Una formula che impegna le società a
promuovere vantaggi (in inglese "benefit") per la società, la comunità
locale, l'ambiente. Riducendo, attraverso le sue attività (e nonla
beneficienza) gli impatti negativi per le persone e l'ambiente e
determinando impatti positivi.
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(14.04.16) Il
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Lo Storico formaggio prodotto sugli alpeggi delle
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2015) a 92€ al kg, quello del 2009 a 26€ all'etto. Il bitto dop
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volte in condizioni semi-industriali, continua a calare di prezzo
Bitto storico:
rivoluzione permanente (2.10.15)
A Cheese ques'anno il tema era il formaggio dei pascoli e, complice
anche l'indignzione per il tentativo di imporre il formaggio senza
latte, il bitto storico non poteva che essere al centro dell'attenzione
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(08.09.15) Nuovi
documenti storici incoronano il formaggio Vallis Biti (bitto
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Cirillo Ruffoni ci ha segnalato nuovi documenti storici che consacrano
già nel Cinquecento il formaggio delle Valli del Bitto. Già
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zone, tanto da costituire per loro anche un termine di paragone.
Scusate se è poco
(02.09.15) Bitto
storico: un autunno di decisioni e novità
La stagione d'alpeggio 2015 si sta chiudendo con un bilancio molto
negativo in termini di quantità prodotta, causa della
siccità di luglio. Sul fronte dei rapporti con le istituzioni
l'accordo siglatonel novembre 2014 si sta rivelando un bluff.
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(23.08.15)
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rimasta senza conseguenze. Ma chi soffre di più per il calo di
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riusciti a imporre per il proprio prodotto un prezzo etico. Esso
consente un equilibrio economico compensando gli elevatissimi
costi di una produzione che va contro gli schemi della società
industriale e consumistica (che si sono imposti anche
nella produzione agroalimentare)
Articoli per argomenti
|
Il gran formaggio d'alpe orobico (per
una storia a tutto tondo)
di
Michele Corti
(21.02.17)
Riflettendo su una storia di
differenziazioni e perimetrazioni più o meno artificiose,
sovrapposizioni, scambi di identità, emerge l'esigenza di una
riconsiderazione complessiva di una vicenda casearia che ha spinto a
concentrare l'attenzione (spesso conflittuale) sulle denominazioni: "branzi", "bitto", "formai de mut"
(ma si potrebbero aggiungere anche i cru monoalpeggio, di cui il
"camisolo" è stato precursore). Così, però, si è offuscato il valore
d'insieme di
una grande tradizione casearia. Essa oggi può essere interpetata in
vario modo: se si tiene ferma l'importanza dell'aggiunta del latte di
capra ( storicamente importante in passato su tutta l'area) e la
ricerca dell'attitudine alle lunghe stagionature si ammirerà e premierà
l'eroica tenacia dello "storico ribelle". Laddove,
da oltre
un secolo la tradizione di caseificazione d'alpe ha dovuto fare a meno
dell'aggiunta del latte di capra (come in buona parte degli alpeggi
della val Brembana, a seguito della proscrizione delle capre)
l'espressione della produzione locale si incarna onestamente nel
"formai de mut".
Figura
1 - Consistenza del patrimonio caprino in alta Valbrembana tra Otto e
Novecento
Il formai de mut ha
rinunciato con sana umiltà a proporsi a vertici di qualità raggiunti a
suo tempo
dal "vecchio bitto/branzi" (che erano la stessa cosa); si è limitato a
fissare un minimo di stagionatura di 45 giorni (bitto dop minimo 70),
ma anche una temperatura di cottura di 45-47°C (bitto 48-52°C) che
preclude la lunga stagionatura. Ha anche rinunciato alla "veste
tradizionale", ovvero allo scalzo concavo e ha puntato su pezzature più
ridotte (bitto 8-25 kg, formai de
mut max 12 kg). Nelle regole del formai de mut emerge una volontà
di autolimitazione che segna la rottura con la tradizione, una rottura
sofferta e obbligata. La tradizione non impediva di cuocere sino a
50°C, di produrre forme di 20-25 kg. Ol
formài dè mut era prodotto anche nell'alta Valseriana, tanto è
vero
che il formai de mut si
chiama ufficialmente (e molto farraginosamente (formai de mut dell'alta
Valbrembana dop). Quello seriano era prodotto nello stesso modo di
quello dell'alta
Valbrembana (il perché è chiaro: era fatto per lo più dai bergamini
anche in alta Valseriana).
L'ardesiano Guido Fornoni (La casa
rurale, Comune di Ardesio,
1998?, p. 31) ci informa che il formài
dè mut era prodotto cuocendo la cagliata a 45-50°C. Un range
realistico con la "vera" pratica tradizionale, che adattava a
circostanze di mercato e a contingenze delle condizioni di produzione i
parametri tecnologici. L'assurda pretesa di produrre formaggi
"tradizionali" imponendo parametri "stretti" è diretta derivazione
dell'applicazione poco sensata di una mentalità anelastica, formatasi
nelle condizioni controllate della produzione industriale. L'artigiano
mantiene la (relativa) costanza di caratteristiche del suo prodotto
variando anche di
molto i parametri di lavorazione. Tenere fissi i parametri in
condizioni d'alpeggio significa ottenere prodotti molto variabili
(allora si usano i fermenti industriali e si deraglia).
Lo scalzo concavo:
l'apparenza inganna?
Lo scalzo concavo è
elemento di identità di alcuni formaggi grassi d'alpe alpini. Il branzi quando ha mutato
pelle,
divenendo invernale e semigrasso, ha mantenuto forma e scalzo.
Operazione perfettamente comprensibile, finalizzata a mantenere un
mercato "dell'orgoglio bergamasco". A volte ci si accontenta della
forma e di una bandiera stinta, ma - si sa - nel formaggio la forma è
spesso sostanza. Lo hanno
fatto anche il beaufort e l'abondance, nati, come tutti i
formaggi
grassi di montagna, in alpeggio e parecchio industrializzati nei decenni recenti. Le forme
perfettamente uguali, con gli
spigoli vivi e di uguale pezzatura sono quelle dei grandi caseifici
cooperativi (sotto il beaufort).
Nelle condizioni di alpeggio a volte si deve decisere su fare due forme
piccole o una gossa perché il latte è quello che è. Spesso sufficiente
a fare una forma al mattino e una, un po' più piccola, la sera o due al
mattino e una alla sera (in questo caso un po' più grossa di quelle del
mattino. Dove non si lavorano 2-3 quintali ma centinaia di quintali, e
tutte le fasi sono meccanizzate, le forme sono tutte perfettamente
calibrate. Il beaufort
è comunque un ottimo formaggio ed è rimasra anche una produzione dl'alpeggio.
Peccato che al nostro gusto "viziato" dai prodotti ribelli, allettato
dalla "selvaticità" del vero bitto, esso - come altri formaggi
savoiardo-svizzeri - ci ricordi sempre e un po' ossessivamente il gruyere.
Fig. 1 - Mappa dei formaggi a scalzo concavo. Sono tutti alpini,
d'alpeggio e grassi (a latte intero). Il bitto/branzi è un esempio
isolato dalla "famiglia" dei formaggi savoiardi (abondance e beaufort).
Anche la fontina ha uno scalzo subconcavo (almeno spesso).
Un segno di identità antico
L'area orobica può vantare una documentazione dello scalzo concavo del
XV secolo (scusate se è poco meussieurs). Si
tratta (l'ho già fatta vedere diverse volte della
rappresentazione di un formaggio nelle "nozze di Cana" dell'Oratorio
dei disciplini di Clusone. Perché lo scalzo concavo? Forse perché
quando è duro (dopo l'anno di sicuro) il formaggio può essere
conservato appoggiato sullo scalzo (non serve più girare le facce
piatte perché non perde quasi più umidità). Forse perché è facile
legare
intorno una corda alle forme e appenderle (serviva a caricare
facilmente i muli).
Il "bitto dop", che alla sostanza
della tradizione non è interessato (vai con i mangimi e i fermenti e
chissenefrega se non c'è latte di capra), nel disciplinare precisa la
caratteristica di "spigoli vivi" dello scalzo. Un risultato ottenibile
con le fascere di plastica (che non si deformano, non si "piallano" con
l'uso, non si degradano se non in migliaia di anni). Per fortuna che,
causa l'umidità eccessiva all'interfaccia tra la fascera e la cagliata,
molti stanno tornando indietro al legno che "sa" regolare l'eccesso di
umidità della pasta di formaggio al suo contatto. Per mantenere
un "bello scalzo concavo" e dagli "spigoli vivi" il casaro deve
rinnovare
il parco fascere e utilizzare come combustibile le vecchie (di legno,
ovviamente). Ma per sparagnare i casari le cambiano poco (la "sana economia contadina" non è
applicata sempre a proposito ma, come è noto, si spendono follie per le
trattrici, e si fa "economia" sulle fascere). Così tante volte si
vedono
"storici ribelli" (ex bitto storico) con lo scalzo diritto, che non è
proprio bello da vedere (ma sempre meglio della diffusione della
plastica). Meglio la
sostanza o la forma? La sostanza. Senza dimenticare, ripeto, che nel
formaggio
la forma è anche sostanza.
L'apprezzabile modestia
del formai de mut
Dopo tutta questa disgressione non si può fare a meno di dare ragione
al formai de mut che per
distinguersi dal branzi (e dal bitto) ha rinunciato ad una
caratteristica molto particolare e interessante del gran formaggio
d'alpe delle Orobie occidentali. Il formai non pretende di
eguagliare quella che è stata la gloria del vecchio bitto o del vecchio
branzi, dichiara di essere una "versione più modesta" tanto che ammette
l'uso del latte di due mungiture (quindi acidificato) laddove la grande
qualità del bitto della tradizione è legata alla lavorazione due volte
il giorno a munta calda. Significativo che nell'ambito del formai de mut si sia distinto, grazie al maestro casaro Abramo Milesi (peraltro fondatore e vicepresidente del Consorzio tutela del formai de mut), il camisolo. Prodotto solo nell'omonima alte il camisolo spuntava prezzi notevolmente superiori al formai de mut diventando, di fatto un formaggio a sé.
Il formai de mut è frutto di
una regressione, di un depotenziamento del sistema alpicolturale
altobrembano legato, come ho avuto modo di spiegare in altre occasioni,
alla fissazione in pianura dei bergamini che, sino alla prima guerra
mondiale, monopolizzavano gli alpeggi dell'alta val Brembana. Con meno
vacche e meno esperienza di caseificazione commerciale i piccoli
allevatori stanziali (i "casalini") impiegarono decenni a prendere il
posto dei bergamini nonostente i tecnocrati, cui i bergamini stavano
antipatici (perché non se li filavano) facessero di tutto per
l'educazione tecnica paternalistica dei "villici". I casalini non
riuscirono mai riempire il vuoto lascato dai bergamì e
parecchi alpeggi furono caricati da valtellinesi, che nel frattempo
seppero "allargarsi" oltre il displuvio. Nel frattempo il vecchio
branzi diventava un formaggio invernale semigrasso. Lo stesso formai de mut, di fronte
all'esiguità della produzione si è ben presto ridotto ad ammettere la
versione "invernale" con la distinzione tra etichetta blu (alpeggio) e
etichetta rossa (invernale). Peraltro il molto discutibile disciplinare
del 1985 lo ammetteva, consentendo anche l'insilato di mais
nell'alimentazione delle vaccine (sarebbe da rivedere, no?).
Se il formai de mut è il
frutto dell'impossibilità di perpetuare nelle nuove condizione dell'era
post-bergamina le
glorie del passato, dichiarandosi onestamente "diverso" dal gran
formaggio d'alpe delle Orobie, il "bitto dop" è l'esito furbastro di
una forzatura che ha "disaccoppiato" una tradizione secolare dalla sua
matrice culturale e geografica.
Se in val Brembana le capre erano state
perseguitate, crollando a poca cosa a fine Ottocento, non fu così in
Valtellina dove il bitto continuò ad essere prodotto con il latte di
capra (con l'eccezione di alcuni alpeggi di Albaredo a seguito di
rimboschimenti e divieti che - nel periodo tra le due guerre -
costrinsero a tenere le capre presso i maggenghi. Ma in Valtellina (la
parte orobica, ovviamente, dove si faceva bitto) le capre vennero
riammesse appena possibile in alpeggio. La possibilità di fare bitto
dop senza latte di capra, prevista dal disciplinare nel 1995, era
propedeutica
all'estensione pansondriese del bitto dal passo dello Spluga al Gavia e
a Livigno seconda un'operazione dettata dai saccenti guru del
marketing del tempo che credevano che una produzione di alta qualità
legata (almeno nominalmente) alla tradizione potesse avvantaggiarsi di
"masse critiche" di
mercato allo stesso modo di un prodotto seriale industriale.
Pendolarismi transorobici
e denominazioni "pendolari"
Più approfondisco la storia del Gran formaggio d'alpe delle Orobie e
più mi rendo conto che la matrice è unica e che le diverse
denominazioni, i "ritocchi" ai parametri di produzione per
"differenziarsi", le "perimetrazioni" ecc. sono tutti fattori che hanno
immiserito una grande storia. La cosa più misera è consistita nel
tracciare una linea di demarcazione artificiale tra i due versanti
brembano e valtellinese delle Orobie.
Quando le Orobie erano divise tra tre stati sovrani (allora erano
sovrani sul serio) c'era una circolazione di capitali, di competenze,
di prodotti, di idee tra i versanti. Oggi ce la sognamo. Che si
trattasse di industria mineraria e di lavorazione del ferro o di
formaggio i confini erano porosi, le famiglie operavano con rami di qui
e di là.
Ma quale "bitto
valtellinese", non c'entra un fico con la valtellinesità il bitto
La storia dei bergamini la dice lunga sul "bitto valtellinese". Natale
Arioli ha dato nel 2016 alle stampe, per ora in edizione privata, un
volume ("Oltre i ricordi, alla ricerca delle radici") che ricostruisce
la dinastia di bergamini cui appartiene. Una dinastia che, con vari
rami altobrembani (Piazzatorre, Mezzoldo), si era diffusa alla Bassa,
non senza intrecciarsi con dinastie bergamine delle altre convalli
brembane, della val Taleggio, della Valsassina, dell'alta Valseriana.
In questo volume, più sistematicamente rispetto a scritti precedenti,
emerge la secolare frequentazione degli Arioli degli alpeggi della
Valgerola (presi in affitto). Bomino, Dosso cavallo, Pescegallo sono
stati, tra XVI e XVIII secolo, caricati in modo continuativo dagli
Arioli. E parliamo solo di una dinastia! Sappiamo che anche un altro
grande alpeggio gerolese (Trona) è stato caricato per secoli da
bergamaschi e valsassinesi (tutti bergamini). Se il cuore della
produzione del bitto, la Valgerola era caricato da bergamini brembani e
valsassinesi con quale facciatosta si può asserire che il bitto è un
formaggio valtellinese? Se poi consideriamo che le famiglie della val
Gerola e della val Tartano erano legate alla Valsassina e alla
Valbrembana il quadro è sufficiente per concludere che il bitto è al
100% orobico, e se si vuole precisare e diventare un po' cattivi,
allora dobbiamo aggiungere che è nato in Valsassina e Valbrembana.
Nei documenti citati da Arioli emerge anche che altri alpeggi orobici
valtellinesi erano caricati da bergamini brembani oltre a quelli del
comune di Gerola.
Il nome bitto, però, ha avuto successo anche se, per secoli, la
stragrande maggioranza del Gran formaggio d'alpe delle Orobie era
venduto fuori dalla Valtellina e chiamato diversamente. La via del
bitto lo portava direttamente dagli alpeggi in Valsassina e a Lecco, la
Priula a Mezzoldo e a Bergamo. Il formaggio di monte (o formaggio
grasso) come era chiamatodopo l'affermazione a fine Settecento
della Fiera di san Matteo ai Branzi, divenne il "formaggio dei Branzi"
e tale fu nell'Ottocento.
All'inizio del Novecento a Morbegno vi fu un fervore di iniziative: la
Mostra casearia provinciale, (che non si chiamava "Mostra del bitto"),
la realizzazione della casera sociale dei caricatori d'alpe. Iniziative
che spostarono gradualmente da Branzi a Morbegno il baricentro. Quando
Arrigo Serpieri, illustre economista agrario, si dedicò per la Società
agraria di Lombardia all'indagine sistematica sui pascoli alpini,
registrava ancora, parlando degli alpeggi delle Orobie valtellinesi
(Società agraria di Lombardia, 1904) che la maggior parte della
produzione di bitto era esitata ai Branzi. Ma nel 1907, quando uscì
l'indagine sugli alpeggi bergamaschi, Morbegno era in fase
effervescente e il Serpieri, che pure sapeva che ai Branzi si vendeva
il branzi, chiamò "formaggio
grasso tipo bitto" quello degli alpeggi altobrembani (riservando
curiosamente la denominazione "branzi" a quello degli alpeggi delle
convalli più orientali (di Carona e Roncobello). Si veda la Tab. 1 (che
ho già presentato più volte).
Tabella
1 - Alpeggi dell'alta val Brembana all'inizio de XX secolo (da: Soc. agraria di Lombardia, I pascoli alpini della provincia
di Bergamo, 1907)
Nome alpeggio |
Comune |
Paghe |
Prodotto |
Ponteranica |
S. Brigida |
60 |
Formaggio grasso tipo Bitto |
Parissolo* |
S. Brigida |
60 |
idem |
Avaro |
Cusio |
173 |
idem |
Foppa* |
Cusio |
100 |
idem |
Colle |
Averara |
100 |
idem |
Ancogno* |
Averara e Mezzoldo |
180 |
idem |
Gambetta |
Averara e Mezzoldo |
80 |
idem |
Cantedoldo |
Averara e Mezzoldo |
90 |
idem |
Azzarino/Fioraro/M.te
Nuovo |
Mezzoldo |
172 |
idem |
Azzarino/Calvetti |
Mezzoldo |
90 |
idem |
Cavizzola* |
Mezzoldo |
82 |
idem |
Siltri |
Mezzoldo |
58 |
idem |
Terzera |
Mezzoldo |
107 |
idem |
Cavallo |
Piazza Torre |
97 |
idem |
Monte Secco |
Piazza |
45 |
idem |
Torcola vaga |
Piazza |
118 |
idem |
Torcola soliva |
Piazza |
94 |
idem |
Toragello |
Mojo de’Calvi |
58 |
idem |
Toracchio |
Mojo de’Calvi |
80 |
idem |
Arale V. con
Scessi |
Valleve |
300 |
idem |
Saline |
Valleve |
70 |
idem |
Arete |
Foppolo |
100 |
idem |
Carisole |
Carona e Foppolo |
700 |
Branzi |
Sasso |
Carona |
191 |
idem |
Armentagra |
Carona |
118 |
idem |
Mersa |
Carona |
72 |
idem |
Foppe |
Carona |
66 |
idem |
Sardignana |
Carona |
55 |
idem |
Lago Gemello |
Branzi |
173 |
idem |
Valle Oscura |
Branzi |
80 |
idem |
Monte Colle |
Branzi |
133 |
idem |
Mezzena |
Roncobello |
197 |
idem |
Grumello |
Roncobello |
45 |
idem |
Valli |
S. Brigida |
37 |
Burro e formaggio magro |
Vago |
Valleve |
30 |
? |
Fontanini |
Valleve |
60 |
Stracchino |
Piazzoli |
Foppolo |
35 |
? |
Rovera |
Foppolo |
28 |
? |
Cadelli |
Foppolo |
20 |
? |
Dordona |
Foppolo |
18 |
? |
Val Sambuzza |
Carona |
133 |
Formaggini freschi |
Acquabianca |
Carona |
105 |
Stracchini di Gorgonzola |
Foppobone |
Carona |
33 |
? |
Zoppo |
Bordogna |
30 |
? |
Da quanto detto si ricava: 1) che al
tempo in cui il bitto consacrava la sua fama (secoli XVI-XVII) a produrre bitto erano
per lo più bergamini brembani (compresi quelli di Tartano che era
un'appendice brembana a nord del displuvio); 2) che il nostro formaggio
nell'Ottocento era venduto per lo più a Lecco e a Branzi (qui con il
nome di branzi); che all'inizio del Novecento osservatori autorevoli
definivano "tipo bitto" il formaggio prodotto nella maggior parte degli
alpeggi brembani.
Non
è finita. Come ho già ricordato in più occasioni che il branzi (anche
quello prodotto sugli alpeggi di Gerola, considerata il cuore del
bitto) era colorato con lo zafferano e cotto a temperature elevate
(48-52°C) mentre il "bitto", ovvero quello esitato sulla piazza di
Morbegno, era senza zafferano e cotto a 45-47°C. Il "bitto" era
assimilato al bettelmat
(formaggio morbido da consumare entro la primavera successiva), il
"branzi", allo sbrinz (formaggio
duro da grattugia). In realtà i bergamaschi consumavano "branzi" molto
stagionato da grattugia. Oggi il bitto "valtellinese" dop si cuoce a
48-52°C, a 45-47°C il formai de mut
"bergamasco". Per secoli i "bergamaschi" hanno caricato gli alpeggi
delle Orobie valtellnesi, oggi parecchi alpeggi altobrembani sono
caricati da valtellinesi. Di fronte a tutti questi sistematici veri e
propri scambi di identità e di ruoli chi ha il coraggio di sostenere
che bitto e branzi non fossero (almeno prima che il branzi diventasse
un formaggio inverbale semigrasso) la stessa cosa? Quanto al formai de mut si è abbondantemente
chiarito che sorge da quel ceppo come "adattamento a una situazione di
depotenziamento".
Una sovrapposizione solo declinata al
passato?
I soliti scettici
diranno: "si ma tu ti riferisci a cose di un secolo minimo fa,
figuriamoci poi cosa interessa a noi dei secoli precedenti". Potrei
rispondere: "siete zotici, perché la profondità storica è quella che
oggi fornisce vantaggi comparati sul mercato globalizzato". Ma senza
polemizzare oltre veniamo a circostanze di pochi decenni fa e persino
di oggi. Così accontentiamo anche gli zotici. Prego quindi leggere la
Tab. 2 che si riferisce al momento d'oro del Formai de mut. Ottenuta la dop, il cav. Pierangelo Apeddu
(morto nel 2014 senza che nessuno se ne ricordasse, ma su questo oblio
torneremo presto) si diede molto da fare per convincere tutti o quasi i
caricatori dell'alta val Bembana a sottoscrivere (almeno sulla carta)
l'adesione al Consorzio di tutela. Così vediamo che anche i
valtellinesi (i Colli, i Fognini, i Marioli, i Gusmeroli, i Duca, i Fallati)
aderirono al formai de mut. Però continuarono a fare "tipo bitto" visto che non
avevano le capre. Per il formai
de mut quello era un pregio, perché così di demarcava dal bitto,
che allora era ancora considerato tale solo con l'aggiunta
di latte di capra. In ogni caso, anche senza dop, anche senza latte di capra, il bitto o "tipo bitto" continuava ad essere
molto più rinomato (e pagato) del formai
de mut (secoli di fama non si bilanciano con un riconoscimento
burocratico).
Tab. 2 - da
Consorzio tutela Formai de mut. Alta
val Brembana, un palmo di terra. Una valle, una storia, "Il Formai de
mut" , 1988
La famiglia Duca all'alpe di Ancogno soliva, ritratta come "produttrice
di Formai de mut" nel libro celebrativo del 1988.
Una foto tratta dal libro del formai de mut che mostra come lo scalzo
restava concavo. Chi faceva bitto continuò a fare bitto. Non buttavano
certo via le fassere per far piacere ad Apeddu. Così il libro
testimonia dell'ambiguità di questo
formai del mut che era bitto (sotto la fascera con la nervatura
centrale che imprime la concavità).
I caricatori d'alpe,
convinti da Apeddu a entrare nel formai
de mut, lo fecero aspettando gli eventi (furbizia contadina). La
dop rappresentava un prestigioso traguardo ma non poteva scalzare il
prestigio del bitto, specie perché il formai
de mut si presentava, per sua scelta, come il "fratello povero" del bitto (lo
abbiamo già spiegato: temperatura, pezzatura, durata minima di
stagionatura. Così quando la Valtellina passò alla riscossa, con
ritardo di 10 anni rispetto al formai
de mut che aveva avuto dalla sua il ministro Pandolfi e
l'assessore regionale all'agricoltura Ruffini, Apeddu perse i
produttori valtellinesi, che poterono fare legalmente bitto dop anche in
Valbrembana (sono sette i comuni riconosciuto "da bitto" dal
dsciplinare del bitto dop).
Ma la storia dei formaggi camaleonte, della battaglia della
territorializzazione becera (anche andando contro la storia), del "sono
più forte io", non cessò. Grazie a quei "fessi" dei ribelli, che tenevano eroicamente alta un'immagine di calecc', di capre orobiche, di
sacrifici (nel mentre venivano presi allegramente per il culo dal
Consorzio del bitto e casera e dalla Latterie di Delebio ecc.), il bitto mantenne
il suo prestigio. Il differenziale di prezzo tra bitto e formai de mut fece convertire al
bitto (cioè alle palanchine) anche dei bergamaschissimi produttori gogis. Anzi, qualcuno (ed è una
vera barzelletta che la dice lunga sulla serietà delle dop), tiene
opportunisticamente il piede in due scarpe. Lo stesso alpeggio fa
entrambe le dop. Non lo possono fare i ribelli del bitto, i
talebani della capra orobica, perché se hai le capre (e per fare l'ex
bitto storico, ora storico ribelle, è obbligatorio) non puoi fare formai de mut. Cosa distingue
formai de mut e
bitto dop? Il prezzo e, al massimo la furbizia di usare la fascera da
scalzo concavo quando fai (dici di fare) bitto.
Tabella 3 - Produzione per alpeggio (anno 2015, fonte: consorzi)
Alpe
|
Comune
|
prodotto
1
|
prodotto
2
|
Casera
|
Cusio
|
Bitto
dop
|
|
Foppe
|
Cusio
|
Bitto
storico
|
|
Parissolo
|
Santa
Brigida
|
Bitto
storico
|
|
Cul
|
Averara
|
Bitto
dop
|
|
Cantedoldo
|
Averara
|
Formai
de mut |
|
Ancogno
solivo
|
Mezzoldo
|
Bitto
storico
|
|
Cazizzola
|
Mezzoldo
|
Bitto
storico
|
|
Moretti
|
Foppolo
|
Bitto
dop
|
|
III
Baita
|
Foppolo
|
Bitto
dop |
|
Rovera
|
Foppolo
|
Bitto
dop |
Formai
de mut
|
Sessi
|
Valleve
|
Bitto
dop |
Formai de mut
|
Arale
|
Valleve
|
Bitto
dop |
Formai
de mut
|
Carisole
|
Carona
|
Bitto
dop |
Formai
de mut
|
Cosa
mersa
|
Carona
|
Formai
de mut
|
|
Torracchio
|
Valnegra
|
Formai
de mut
|
|
Torcola
soliva
|
Piazzatorre
|
Formai
de mut
|
|
|