Ruralpini 

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  Cultura ruralpina


Hanno ucciso la montagna

la fine della grande famiglia del nonno




La famiglia allargata del nonno


di Antonio Carminati



(15.04.19) Riconosco di essere stato spettatore inconsapevole e protagonista a modo mio della fine della grande famiglia del nonno e, più in generale, del mondo in cui egli è cresciuto. Quello della “grande trasformazione” della società, anche nel contesto rurale, avvenuta negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è un argomento cruciale per comprendere i diversi fenomeni ad esso connessi (industrializzazione, urbanizzazione, emigrazione e scolarizzazione di massa,…), ma soprattutto per tentare di ricucire, almeno in parte, quello strappo epocale che ha lacerato il legame della nuova società con il mondo preesistente. La storia del notevole “balzo in avanti” di cui stiamo parlando, riconosciuto sotto il titolo di “miracolo economico” – così, almeno, lo abbiamo studiato nei libri di testo e sui banchi di una scuola “allineata” ai consumi – andrebbe riconsiderata e in parte riscritta. Nelle aree rurali, infatti, soprattutto in quelle più periferiche e di montagna, tale straordinario accadimento ha prodotto notevoli guasti, generando una serie di disvalori e di effetti negativi, connessi ad esempio all’abbandono della terra e allo spopolamento delle antiche contrade. Improvvisamente il contesto rurale è stato svuotato delle sue espressioni proprie, sociali ed economiche, e trasformato in semplice bacino di collettamento per reclutare nuova manodopera – una massa enorme di lavoratori e consumatori - da trasferire nelle città, nelle aree industriali, anche all’estero, in ogni caso da “riprogrammare” in relazione alle aspettative emergenti. La montagna è stata depredata, espropriata dei suoi caratteri intrinseci, impoverita per il venir meno dei contenuti e delle forme della sua organizzazione sociale ed economica, occupata e sfruttata da forze ancora più raffinate e potenti di quelle militari tradizionali. Hanno ucciso la montagna.


Casa e stalla a Canito

Come me, la generazione di montanari nata tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secondo dopoguerra, ha segnato il passaggio, anche nelle valli orobiche, dall’antico mondo contadino alla società “moderna”. Ha pienamente ragione Pepi Merisio quando afferma di aver fotografato, negli anni Cinquanta del secolo scorso, il Medioevo: sino ad allora, infatti, la vita e il lavoro sulle Orobie si tramandavano da una generazione con l’altra in modo quasi naturale e coerente, secondo modalità e ritmi antichi, che affondano le radici nella civiltà medioevale. Il lavoro nei campi e nelle botteghe artigianali, l’organizzazione sociale e religiosa nei villaggi sparsi sulle nostre montagne mantenevano sostanzialmente l’impianto strutturale originario, che nei secoli si è evoluto lentamente, con gradualità e senza discontinuità. La società rurale della prima metà del Novecento non era poi così dissimile da quella ottocentesca e dei secoli precedenti, mentre invece si presenta lontanissima e fondamentalmente estranea rispetto a quella della seconda metà del secolo scorso. Abbiamo assistito, in così poco tempo – sono bastati pochi decenni – a un’accelerazione socio-economica, in termini di incremento di servizi e di consumi, mai vista prima. Il “balzo in avanti” è stato così massiccio e invasivo – anche sul piano culturale – al punto che molti di noi oggi fanno fatica a individuare, riconoscere e accettare le proprie origini. Sempre l’amico Merisio, al quale auguro di ristabilirsi presto da una difficile condizione di salute, mi ricordava che, quando allora entrava nelle nostre valli per fare ricerca, non solo in campo fotografico, si trovava sempre di fronte ad ambienti e a persone autentici e profondamente riconoscibili nelle loro diverse espressioni: riusciva ad individuare il muratore dal boscaiolo, la massaia dalla filatrice, il medico dal contadino, il prevosto dal cursore,… e via dicendo. Attualmente, invece, ci hanno resi solo all’apparenza tutti uguali, per favorire e facilitare i processi dei consumi di massa, sui quali si fonda la moderna società. Egualitarismi di facciata. Nulla di più. Fatichiamo a riconoscerci.
Queste considerazioni rischiano di rimanere concetti vuoti e astratti, fin tanto che non vengono calate nel vissuto concreto delle persone. Ecco perché, anche nella riflessione che segue, ripercorro la mia esperienza personale, quale punto di partenza nel tentativo di rilettura dell’evoluzione della società nel suo complesso.


Contrada Corna


Per rappresentare, in sintesi, l’arco storico di riferimento, mi avvalgo di tre figure: il nonno (classe 1907), che rappresenta l’antica civiltà rurale della montagna orobica; il papà (classe 1933), un soggetto di transizione, che si è dovuto confrontare sia con la precedente società del risparmio (del nonno), che con quella successiva e attuale del consumo; infine la mia (classe 1961), affacciatasi sulla scena della nuova società, che ha definitivamente sancito il crollo del preesistente sistema di vita. Molti esempi si affacciano nelle mie riflessioni, quando penso, ad esempio, alla morte dell’edilizia rurale, costruita da oltre un millennio con pietre, calce e rena, i materiali con i quali sono stati edificati i luoghi della vita e del lavoro e modellati i versanti montani, oggi sostituiti dal cemento armato; come pure penso alla sconfitta dei tradizionali allevamenti di monte, nei pascoli popolati da vacche bruno e grigio alpine, oggi sostituite da una varietà di altre razze di lontana provenienza. Il territorio, nel suo complesso e nelle sue molteplici espressioni, è divenuto uno spazio estraneo e persino poco conosciuto. Ma, in questo momento, penso soprattutto alla morte della grande famiglia, che per lungo tempo ha accolto, in comunanza di spazi e di intenti - entro un unico progetto di vita - i diversi componenti del gruppo parentale, anziani e giovani, donne e uomini, tuse e spuse (figlie e nuore): all’interno di questa grande unitaria compagine, il regiùr (il capo della famiglia estesa) coordinava le attività e i lavori che si svolgevano prevalentemente fuori della casa, con un potere di rappresentanza generale del gruppo all’esterno, mentre la regiùra (la donna adulta detentrice dell'autorità nella sfera domestica) si occupava fondamentalmente delle questioni domestiche e delle relazioni tra i vari membri.

Sìe amò ü tosalì (ero ancora un ragazzino) quando la mamma ha separato la sua residenza da quella della famiglia estesa di un tempo, abbandonando quindi la casa del nonno, dopo la metà degli anni Sessanta: col sò Cèsco (con il suo Francesco) e i primi tre bambini ancora piccoli (ne arriveranno poi altri tre), l’è ‘ndàcia a stà fò a la Césa (è andata a risiedere presso la chiesa), occupando uno degli otto appartamenti della grande casa che l’anziano capostipite aveva costruito pròpe denàcc a la bütìga dol Balèta (proprio di fronte al negozio del Balèta), grazie soprattutto delle rimesse provenienti dal lavoro nei boschi in Svizzera dei suoi figli.


La nonna con il suo Francesco

 Negli anni Sessanta incominciava a circolare nelle famiglie una maggior quantità di denaro, grazie soprattutto al lavoro in Svizzera di molti valligiani. In quel periodo sorgono nuovi imponenti edifici, strutturati in numerosi piani, raggiungendo altezze quassù mai viste prima, come grandi torri inneggianti al nuovo corso economico. Il modello della casa divisa in appartamenti sancisce la fine della famiglia di un tempo, in fase di continuo smembramento, e i beni individuali incominciano a prevalere con forza su quelli collettivi. Pure la terra subisce un continuo processo di frazionamento in minuscole particelle, ciascuna delle quali con specifico e quasi esclusivo interesse edificatorio, anziché rimanere agganciate alle dinamiche agricole. La mamma era felice della sua nuova casa, percepita come una conquista sociale, ma lo stesso non posso dire per me: mi mancavano soprattutto il nonno e la nonna, ma poi anche gli zii e gli amici d’infanzia con i quali, sö la còsta de Canìt (sul pendio di Canito) mi ero affacciato alla vita. I luoghi dei miei primi movimenti all’aria aperta, per prati e boschi, spaziavano senza confini nella mia fantasia ed erano troppo diversi da quelli ristretti entro le pareti estranee della nuova casa, edificata lontano, non più nella contrada, ma nel nuovo centro del paese, allora in fase di formazione. Quell’appartamento, fò a la Césa (vicino alla chiesa)(1), rimaneva un ambiente chiuso e limitante: gh’ìa mia l’èra (non c'era l'aia), che connetteva la cucina direttamente con il prato. Inoltre non sentivo più il cinguettio degli uccelli del Tata (patriarca), tenuti in gabbia en banda al laandì (di fianco al lavandino); mi mancavano le corse nel prato col Mósca, il vecchio cane pastore del nonno, come pure lo scodinzolare tra le gambe del Muschì, il cucciolo nato pochi mesi prima fò en de la strécia, drì a la cà (nel vicolo dietro casa).
Fò a la Cèsa (vicino alla chiesa) mi mancava l’aria che avevo respirato nei primi sei anni di vita: le mucche nella stalla sö a l’èra (su all'aia). L’asinello Pino, che il papà aveva acquistato qualche anno prima, per alleviare alcune fatiche nei trasporti, soprattutto per lo spargimento del letame nei prati. Ol serài egliò apröf, fò pus a la cà, drì a la nüs (il recinto del pollaio lì vicino, dopo la casa, dietro l'albero di noce), dove l’estate il nonno, dopo aver pranzato, è l’vàa fò a fà ol mesdé (usciva a fare il pisolino): si sdraiava nel prato, all’ombra del grande noce, appoggiando la testa söl giachèt pieghàt sö (sulla giacca ripiegata), utilizzato come guanciale, e coprendosi il volto con il suo cappello a larghe tese. Mi mancava il lettone dei nonni, in mezzo ai quali molte mi coricavo la sera: prima, però, la nóna la me fàa sémpre dì sö ol Pater (mi faceva sempre recitare il Pater), l’Angelo de Dio e ü Rèquiem per töcc i mòrcc (il Requiem per tutti i morti); infine non mancava mai ol sègn de la Crùs (il segno della Croce), con le dita della mano bagnate en de l’aqua santa dol segnaröl (nell'acqua santa dell'aquasantiera). Durante il giorno, non c’erano più ol pòrtech de la lègna, la stala dol porsèl, ol pianèt de l’èra, ol casòt dol nóno (il portico della legna, la stalla del maiale, lo spiazzo dell'aia, il casotto del nonno),… tutti luoghi abituali del mio primo incontro cosciente con la vita e degli innocenti divertimenti con archècc e éscc (archetti e esche), intento alla cattura di qualche volative. Piccole prede come grandi trofei! Questo mondo era improvvisamente finito. Fò a la Césa, (presso la chiesa) nel nuovo appartamento, prima de endà en cà besognàa caà fò i scarpe, per mia strüdì sö ol paemét (prima di entrare in casa bisognava togliersi le scarpe, per non lasciare strisce sul pavimento) di graniglia di marmo incerato: tutte le mattine la mamma, prima di andare a scuola, e l’mo l’fàa terà fò löstro, co i patìne sóta i pì, (me lo faceva tirare lustro con le pattine sotto i piedi) oppure con gli stracci di lana sóta i mà (sotto le mani), camminando a quattro zampe. Non così nella casa del nonno. Anche a scuola, i miei amici rimanevano quelli della bànda de ché (parte di qui), provenienti cioè da Canito, sul versante orientale del villaggio, assieme ai quali, poi, al termine delle lezioni mattutine, mi avviavo, all’insaputa della mamma, sulla strada di casa del nonno. Lungo quel percorso, per me naturale, che si snodava tra prati e boschi, erano almeno due le tappe: la prima per la cattura di una lucertola almeno, la seconda per continuare a scavare una piccola grotta, dó en de la àl de Spàdola (giù nella valle di Spadola), che nei nostri progetti fantasiosi doveva servire da rifugio durante le giornate di pioggia.


La nonna

La nóna, quande che la me idìa reà fò, ‘nsèma ai tosài de Canìt
(la nonna quando mi vedeva arrivare insieme ai ragazzini di Canito),  non mi rimproverava e, prima che io raggiungessi il nonno dó en dol càp, o sö a la stàla de l’èra (giù al campo, o su alla stalla dell'aia), improvvisava ü ciarighì e, con la polénta ansàda dol mesdé (un uovo al burro con la polenta avanza da mezzogiorno), anche il mio dolce preferito: polénta e marmelàda (polenta e confettura di frutta)!
Le mie “fughe” in uno spazio “diverso” e autentico, rappresentava forse un tentativo - inutile - di recuperare e trattenere un’esperienza felice, in un periodo di grandi e repentini cambiamenti. Non c’erano alternative. O mangià stà menèstra, o saltà la fenèstra (o mangi questa minesta o salti questa finesta), si diceva, allora, per indicare una situazione incontrovertibile. Come la corrente di un torrente in piena, ogni cosa o azione contraria al moto principale veniva immancabilmente travolta… col rischio, per le persone, di farsi anche del male.


Con la zia Romilde a Canito, nel 1968

Quelle piccole fughe, infatti, terminavano quando arrivava a Canito la mamma, certo preoccupata delle mie continue disubbidienze, decisamente anche molto indispettita: con le sue ragioni, ma specialmente co la bachèta de cornàl en di mà (con il bastone di corniolo - Cornus mas - nelle mani),  cercava a tutti i costi di convincermi che la mia casa l’ìa piö chèla dol Tata fò en Canit, bensì chèla nöa fò a la Césa. (non era più quella del patriarca, a Canito, ma quella nuova presso la chiesa).  Non capivo, allora, cosa stesse dicendo: parole vacue, senza un significato accettabile. Innanzitutto, ribelle com’ero, cercavo di non farmi acchiappare, perché desideravo intensamente vivere con i nonni: a volte fuggivo per prati e boschi, oppure mi nascondevo nelle stalle o sui fienili; altre volte, invece, cercavo rifugio e comprensione attaccato alla begaröla de la nóna (il grembiule della nonna), la grande mediatrice, che mi ha voluto tanto bene. Pòrtel vià. Ma péchel mia!... (Portalo via ma non picchiarlo) si limitava a raccomandare alla mamma, consapevole che anche la sua autorità stava per finire. Un po’ meno dispiaciute, forse, erano le zie, la cui pazienza aveva molti più limiti, spesso al centro dei miei dispettucci e di piccole rivendicazioni domestiche… A loro tutti, comunque, rimango grato.


Con la nonna e la mia futura sposa nel 1984

Note:

(1) Corna Imagna è un comune con numerose contrade; la chiesa, il municipio, la scuola e le botteghe sorgono, come in molti comuni privi di centro, in località baricentrica rispetto alle contrade. Abitare "vicino alla chiesa" ha il significato di superamento della vita di contrada e di avvicinamento alla modernità, al luogo un po'artificiale" dove erano disponibili i servizi.


Serie cultura ruralpina (in valle Imagna)

a cura di Antonio Carminati


Architettura identitaria. I tetti in piöde, bandiere di identità valdimagnina
(06.04.19) In valle Imagna  L'arte delle coperture, della posa delle piöde ha raggiunto particolare perfezione tanto da assumere i connotati di un emblema identitario. Non sono poche, però, le difficoltà nel conservare e far rivivere questo patrimonio di valori culturali (saperi, abilità) ed estetici. Un tema per un utile dibattito con il coinvolgimento delle comunità locali e non solo degli addetti ai lavori.

Pecà fò mars  Il rito della definitiva cacciata della cattiva stagione
(31.03.19) Dopo il carnevale, ancora una volta, per cacciare la brutta stagione, soprattutto la sua pazza coda di marzo, occorre produrre altro rumore, diffondere suoni anche strani nell’aria, insomma fare chiasso e… tanto baccano.  La funzione è sempre stata duplice: da un lato allontanare gli spiriti del male, dall’altro richiamare ad alta voce la bella stagione, facilitando così il risveglio della natura

Omaggio ai boscaioli emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19) Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso ricordarla.

La gestione del letame nell'economia agropastorale montana

(20.03.19) Lo spargimento del letame nei prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel passato.  quale fertilizzante, è forse una delle attività maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della conclusione di un ciclo.

La stalla e gli altri manufatti dell’edilizia tradizionale

(03.03.19) Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie, presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue caratteristiche naturali e antropiche.

La distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19) Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure, di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute", disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal Cinquecento).

La caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano [a caccia] di volpi).


L'economia delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta somma di denaro...


In morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19)
La triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna. Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a "uso vacanza". 



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(08.01.19) La méssa dol rüt  (la concimaia) era l'elemento chiave di un paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e sprecare risorse


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(23.12.18) Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori.  Quella che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza della macellazione con qualche immagine di insaccatura. 



contatti:redazione@ruralpini.it

 

 

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