Ispirazioni/Ceronetti

 

 

 

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Ceronetti e la campagna (nota di Michele Corti)

La cultura italiana è antiruralista, in particolare quella letteraria. Eppure ci sono intellettuali, scrittori, poeti 'fuori dagli schemi' cui questo giudizio non può essere applicato. Alcuni, anzi, hanno parlato della campagna e (con acuto senso di dolore)  della 'morte della campagna'.  L'industrializzazione dell'agricoltura è stata descritta con  immagini che hanno anticipano le analisi dei sociologi e che forse si sono rivelate più lucide.

Guido Ceronetti è scittore e , soprattutto poeta. dalla vena pessimistica e iconoclasta. In alcuni suoi scritti degli anni '70 (una fase in cui si stava concludendo la grande fuga dalle campagne e l'implosione della società contadina) individua temi che i decenni successivi confermeranno tragicamente come del tutto reali. Ceronetti è stato tutto tranne una cassandra visionaria.

L'esportazione del 'male urbano' verso la campagna (assimilata ad una propaggine agroindustriale della civiltà urbana) è proseguita. La 'malavita laureata' dopo i veleni chimici ha escogitato gli OGM. Ma nelle campagne sono germogliati anche semi  di speranza che ai tempi dello scritto di Ceronetti non potevano ancora essere scorti. L'agricoltura biologica, i territori OGM free, le filiere corte, rappresentano innovazioni che nascono nella campagna, non come mera reazione passiva, ma sulla base della nuova capacità creativa di un 'nuovo mondo contadino'. Un mondo che pur confrontandosi con mille difficoltà  è capace - indifferente alle visioni denigratorie imposte dalla cultura urbana - di ricollegarsi ai valori di una millenaria civiltà contadina. Valori di certo meno effimeri di quelli della poco più che secolare civiltà tecno-scientifico-industriale. Un mondo che oggi trova ascolto in un consumatore urbano ampiamente disilluso e scettico rispetto ai paradigmi della razionalità scientifica e della pseudo efficienza economica (vedi Pil e ossessione della crescita). La città si ispira ai valori di una campagna che tenta di rinascere. Una rivoluzione nella storia dell'umanità.

L'ispirazione di poeti come Ceronetti è stata di non poca utilità al 'nuovo mondo contadino'. Fortemente legato alla ispirazione del poeta è stato Gino Girolomoni, pioniere del movimento dell'agricoltura biologica. Partito dalle riflessioni sulla 'fine della civiltà contadina' negli anni '70, Girolomoni ha saputo individuare nella produzione biologica di qualità e legata alla valorizzazione di risorse locali (varietà coltivate, saperi) il futuro dell'agricoltura delle zone collinari dove la fuga dai campi era stata impressionante. Il tutto, ovviamente, molto tempo prima che il biologico fosse visto come un'occasione di differenziazione imprenditoriale, se non di speculazione.  Oggi, in presenza di una nuova fase e di un sia pur timido rilancio di un movimento ruralista (in grado quantomeno di sviluppare una sua autoriflessività e privo di sensi di inferiorità verso le culture urbane), il legame di continuità che l'esperienza di Girolomoni ha saputo creare con le ispirazioni ruraliste del passato (di varia matrice culturale e religiosa) risulta quanto mai prezioso.

 

 

Campagne

 

 

di Guido Ceronetti (1973)

Andare per campagne non è più una gioia. Improvvisamente qualcosa è cambiato in un paesaggio che non cambiava da quattromila anni, quello delle terre coltivate,e l'anima dell'uomo si è rattristata.

Pensavamo, vivendo nelle città, che sarebbe sempre esistito, lontano dalle strade, dalle mura. dai grandi serpenti cloacali, dagli anelli periferici dove agonizzavano e rinascevano i tram, dalle concentrazioni di sforzi e di pena, di crudeltà e di godimento troppo elevate, un mondo non tutto contaminato, un dolore meglio sopportato, una miseria più pulita, una fatica meno impura, una benda per le ferite dei nervi, una possibilità d'incominciare una vita diversa. una riserva inesauribile di nutrimento fresco e di acque, una religione astrale delle consuetudini che scampava dai cambiamenti troppo rapidi, reagiva con sovrana indifferenza alle imposture della politica, non tradiva la fedeltà di chi nasceva e le speranze di chi gli si convertiva.

Tutto questo chiamavamo campagna. Averla conosciuta prima che un malvagio incantesimo la corrompesse, mentre la città franava nella catastrofe, è stato un bene perfetto, anche se una felicità bevuta è sempre madre di eccessivo rimpianto, e credo siano da compiangere le generazioni che ormai, nate o non nate in campagna, potranno vederla soltanto come un prolungamento e un irradiamento della città, coi suoi miasmi celebri e i suoi modici squarci di autenticità umana atterrita e di vita animale e vegetale ammorbata e prigioniera. Una delle più offensive stupidità che si sentano dire dalla malavita laureata, indottrinata e politicizzata è che bisogna ridurre sempre più l’antitesi città-campagna.

Non è certo con un impossibile ritrasferimento di orti e di ulivi nei morti tessuti urbani che questa ottusa canaglia immagina la sua riduzione all'antitesi. Sa che si tratta di una via a senso unico: l'estensione dei mali urbani (frettolosamente elencabili come inquinamento industriale, dei piccoli mestieri, trasformazione del libero contadino in operaio asservito, nevrosi, paura, criminalità, prostituzione abbrutimento pubblicitario e televisivo, vertiginosa circolazione monetaria) a ogni resto, a ogni avanzo, a ogni barlume superstite di campagna.

La conosco questa campagna dove si è venuta via via riducendo la famosa antitesi, e davanti ai suoi tratti deturpati l'orrido puro, il deforme puro, la malattia assoluta della città mi sembrano meno laidi e meno sconfortanti.   E’ una campagna che somiglia a una bambina bellissima, che un cancro ha devastato in un sol lato del viso, cancellandone un occhio, e lasciando l'altro aperto per lo stupore e il silenzioso rimprovero.

E’ una campagna umiliata, sofferente, che si vergogna di non poter sparire, nella quale ogni nuovo insediamento industriale è come un vistoso chiodo nella carne, disperata di non avere difesa. La peste chimica l'avviluppa completamente, di sopra e di sotto, di dentro e di fuori, animali, esseri umani, piante, suolo, acque d'irrigazione, acque profonde. La gente che rimane accetta tutto, in una passività sconcertante, va allo spaccio dei veleni maledetti e li compra a quintali, per spargerli demenzialmente sulle colture. Telefona all'elicottero e lo invita ad avvelenargli a proprietà. Con gli anticrittogamici di alta tossicità, con le macchine agricole e nafta, s'introduce i veleni nella pelle, nel sangue, nei polmoni.

In cambio della sua morte e di quella della campagna, dà e riceve denaro. Una banconota sporca, sarà l'ultimo prodotto della campagna.

Ma il male urbano, che sta dirigendo i suoi raggi di morte. su tutte le campagne, è così profondo che non si può misurarlo facilmente. Il mio piccolo catalogo di mali è soltanto un'osservazione da giornalista che non ha tempo e arte di vedere altro, prima di ripartire. Voglio evitare definizioni superficiali, cioè qualsiasi definizione il mosaico dei sintomi non ci la chiave di questa lebbra, che  si sottrae alla nostra penetrazione razionale. E, al li là dei sintomi, tutto è troppo fluido per avere sufficiente prensilità.

Dove la forza della ragione cessa, comincia l'indivisibilità dell'ignoto. Il moderno male urbano è forse soltanto il modello più perfetto del male generale i cui i grandi miti antichi offrono qualche spiegazione angelica ma senza più voglia di entrare per una delle nove porte di un'anima vivente in cerca di un sostegno che muore, e dal quale l'illusione della campagna come dal miasma (esemplare la fuga in villa dalle città colpite dal colera o dai bubboni), divinamente, coi suoi paesaggi antitetici, le sue libertà promesse, che distoglieva.

Questa illusione so che non la ritroverò uscendo dalla città e andando verso la campagna. So di agitarmi sempre, qualunque strada pigli, nella stessa prigione la ritrovo leggendo qualche poeta, che ha avuto la fortuna di poter trascrivere la pienezza dell'illusione nel proprio linguaggio, dove non si è  perduta, Virgilio, Leopardi o Verlaine, e guardando qualche pittura, dove si vedono paesaggi inverosimili, vere Gerusalemme celesti, meraviglie edeniche (e sono soltanto inverni ed estati), in cui il guasto umano nella natura, lacerazione lontana, incancellabile, si presenta in deliziosi e musicali travestimenti, addirittura come l'attuarsi dell'ordine divino nel caos; e so che la vera campagna è ferma nel gioco di quella finzione, e che la fuga in lei non è  più possibile se non passando attraverso gli specchi lontani che la rifransero.

 

Gino Girolomoni                             Guido Ceronetti  

pagine visitate dal 21.11.08

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