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La
cascina nel cuore del bergamino
di Massimo Vitali e
Michele Corti
foto della mostra: Giovanni Siro Mocchi
Alla mostra sui
bergamini a Bergamo è esposta uno straordinaria testimonianza di una
storia di vita individuale e collettiva: il modello a grande scala che
ricostruisce, sin nell'ultimo impensabile dettaglio la cascina
Majocchetta di Melegnano. Acquistata dopo generazioni di transumanza e
di fatiche da una famiglia
di transumanti (Vitali "Giana" di Pizzino), venne espropriata dal
comune. Piero, uno dei proprietari, non accettò questo fatto e si
ritirò da eremita in montagna nella baita paterna. Qui, affidandosi
alla memoria, ricostruì la sua cascina.
vedi il programma completo del Festival del pastoralismo
Pietro
Vitali Giana a ottanta anni al Piazzo
La mandria dei Vitali arriva in
cascina
(29.10.18) La Cascina
Maiochetta (che in parte sopravvive come struttura edilizia), era sita
al limite nord dell'abitato di Melegnano, Nell'Ottocento era ancora
chiamata Majocca; poi, per distinguerla dalle non poche "Majocche"
della zona, assunse il diminutivo di Majocchetta. Questa cascina ha
visto, sin dal 1880,
Antonio Vitali bergamino transumante della famiglia Giana del Piazz
(una frazione di Pizzino in val Taleggio), svernarvi con le sue
bestie.
Negli anni Venti del
secolo scorso Antonio diventa fittabile, ma continua a praticare la
transumanza a piedi su e giù da Pizzino e dall'alpe Baciamorti fino a
Melegnano.
Nel 1976
i nipoti Giuseppe e Piero (nato nel 1921) acquistano dai Conti Cicogna
Mozzoni
di Milano La cascina Maiochetta: in poco più di 50 anni e in tre
generazioni, la famiglia Giana del Piazz passa da bergamini ad
affittuari e poi proprietari. La disordinata espansione edilizia del
secondo dopoguerra "assedia" la cascina.
Di qui anche il sorgere di situazioni di conflitto. Piero le racconta
con foga a tanti anni di distanza in una intervista del 2001, capace di
adirarsi ancora.
Lì c’erano dei palazzi ... c’erano
dei professori [medici
dell'ospedale di Melegnano] nei palazzi in giro alla costa. Nessuno mi
ha
reclamato. [alza il tono di voce] Uno, che andava a fare il
mal-gh-ese [sillabando] e‘ndava
con nüm, guardi,
che mi creda, eh... c’era lì il professore de Melegnano el
diséva niént ... el prufesór de li ossa [ortopedico] ... e quèl
lì, che ‘nava
a fà il malghées (al
mùng amò i vàch), in un altra
parte, in cascina ... andava in Comùn a dì che i
spussàva.... Se pò fà chi robb lì? Basta ...l’è vera, neh!
Nel 1987 il comune di
Melegnano espropria tutta la cascina inserendola
in un piano di edilizia economica popolare. Senza la cascina, Giuseppe
e i figli sono costretti a cessare l'allevamento e la transumanza che
non si era mai interrotta e diventano coltivatori e contoterzisti.
Per
Piero, che era scampolo, è un duro colpo. Non mai accettato il
fatto
che, in forza di una legge, qualcuno gli avesse portato via la sua
cascina. Piero non riusciva a stare senza le sue vacche; quando viveva
in cascina tutti i giorni le lavava le puliva, in tutta la stalla non
c'era una ragnatela. Lui era sempre lì a disposizione dei suoi animali,
guai a toccarglieli! Per stare vicino alle sue "bestie" dormiva in un bait, uno spazio, tamponato con
assiti, nella soppalcatura della stalla. La stalla non sembrava nemmeno
una stalla tanto
era ordinata e pulita sembrava una sala!
Piero,
che di carattere era un orso, si ritira al Piazzo di Pizzino nella
antica casa paterna, lontana dal paese, e lassù nella
pacifica solitudine dei lunghi inverni (gli vengono a portare da
mangiare una volta la settimana), ricostruisce intagliando nel
legno, le sue vacche, i maiali i cavalli, i carretti le stalle e pezzo
dopo pezzo tutto quello che era stata la sua cascina.
La cascina
Majocchetta oggi
L'ultimo dei bergamini
Piero era
ancora immerso nella dimensione bergamina descritta dal Volpi (Luigi
Volpi,
I Bergamì Note
folkloristiche in Rivista di
Bergamo, giugno 1930, pp 261-266). Era uno degli ultimi
veri bergamini, che non aveva perso quell'istintivo senso della
decorazione, dell'abbellimento, della personalizzazione degli oggetti,
un senso andato perduto in nome della mera funzionalità, del venir meno
di valori simbolici ed estetici associati anche agli umili utensili di
uso quotidiano.
Non
intagliava solo i tanti "pezzi" della sua cascina, ma anche vari
oggetti legati all'attività del bergamino. Oltre agli oggetti d'uso
(sgabello di mungitura, cucchiai, ciotole) produceva anche le nacchere
bergamasche (i tarlèch) che
sapeva utilizzare in modo molto abile (eco dei tempi in cui i bergamini
autoproducevano e suonavano vari strumenti musicali: pifferi, corni, baghèt).
Piero si riferiva a quelle manifestazioni "stregate" che rimandano alle
antiche mitologie e religioni precedenti la cristianizzazione (la
caccia selvaggia, nella versione della cascia di can, il sabba, nella
versione dei balabiòt) come
esperienze reali (sia pure non vissute personalmente ma riferitegli
come testimonianze oculari da parenti stretti).
La
vita di Piero è stata dura, dormire nella stalla, trasportare in
alpeggio i vitelli a spalla sino giù in paese, stare all'aperto sotto i
temporali scaldarsi con l'orina delle vacche nelle fredde albe in
alpeggio, bere acqua della cisterna ("con le lumache"). Amava ripetere
a proposito: Uu fàa ‘na pelìcula mi
... uu fàa
‘na pelìcula. La "pellicola" gli ha garantito una salute di
ferro: Mai ciapà niéent! Il bergamino resistente a ogni fatica
e intemperie non aveva una "pellicola" per i mali dell'anima. Per
quesati era più vulnerabile. La vita di Piero è
stata segnata dolorosamente – sino al rocovero in ospedale
psichiatrico - dal divieto di contrarre matrimonio con la sua bionda murusa, la fiöla del
biòlch (‘bifolco’ ovvero una delle tante figure di dipendenti
fissi
della cascina della Bassa). Quella ferita, frutto della rigida
disciplina patriarcale che consentiva alle grandi famiglie bergamine di
sopravvivere (e, spesso, di arricchirsi) non si è mai rimarginata. Sino
alla fine Piero non ha perdonato alla madre (una bergamina Pretalli
valdimagnina) di aver impedito il matrimonio con l'amata. Il dramma di
Piero è legato a una situazione di evoluzione dei rapporti sociali che
rendeva incomprensibili, sin anco crudeli, quei "tabù" (Piero, nella
sua semplicità, usa proprio questa appropriata espressione colta). Ma
questi tabù avevano garantito la continuità famigliare dei gruppi
patriarcali bergamini. L'entrata in famiglia di una donna che non fosse
assuefatta ai disagi della vita semi-nomade, che non avesse
acquisito da bambina le competenze e le abilità necessarie a "fare
tutte le cose come gli uomini", metteva in pericolo il
gruppo. Piero ha continuato a rimpiangere la morosa sino
alla vecchiaia. Tanto è vero che una delle figure del "modello" di
Majocchetta è proprio lei, collocata vicino alla "tromba" (la pompa)
dell'acqua.
Una fedeltà alla memoria
che commuove
Nulla di quello che è rappresentato nel modello è invenzione, ogni
"pupazzetto", ogni carro è fedele all'originale. Piero non si è basato
su fotografie, su piante della cascina.
Era tanto impresso nella memoria ogni dettaglio che non ha avuto
difficoltà a riprodurlo, un evidente atto di amore per la cascina
perduta e per le cose amate: le "bestie", la morosa. La ricerca della
corrispondenza all'originale ha portato Piero ad utilizzare oltre al
legno materiali "realistici", cuoio, metallo. Ammirevole la
ricostruzione dei finimenti, soprattutto la "collana" dei cavalli.
In ciò l'opera di Piero si distacca nettamente dalle
fattorie-giocattolo o dal Lego con il quale qualcuno potrebbe notare
delle somiglianze. Esse, sono casuali, dettate dalla ricerca di
soluzioni semplici per modellare il legno. I pupazzetti di plastica del
Lego il Piero non li ha mai visti.
Ogni mucca reca, scritto a matita sul ventre, il suo nome e,
probabilmente, la lunghezza e la forma delle corna e altri dettagli
morfologici sono, sia pure in forma stilizzata, rispecchiati nel
modello.
Anche le macchine, non ancora numerose, sono personalizzate. Così la
falciatrice reca la scritta "Laverda". Il modello di Landini a testa
calda è invece immediatamente riconoscibile. Belle anche la macchina a
vapore e la trebbiatrice da essa azionata.
Espressione di questa fedeltà, finalizzata non tanto a creare
qualcosa "bella" per gli altri, ma per sè stesso, è la
collocazione di oggetti di dettaglio all'interno degli "edifici" o di
altri oggetti. Anche dove nessuno, dall'esterno, osservando il
modello, potrebbe scorgerli o intuirli.
Così all'interno del forno vi sono delle forme di pane, all'interno
delle stalle le varie categorie di animali, all'interno del landò (la carrozza dei fittavoli
che conducevano la cascina quando i Vitali erano ancora bergamini), vi
erano i famigliari del fittavolo.
E così via. Ovviamente c'è anche lui, Piero, nascosto nel soffitto
della stalla, nel bait.
Per informazioni sulla mostra:
festivalpastoralismo@gmail.com
3282162812
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