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Cultura
ruralpina
La
distillazione della grappa
(una tradizione di libertà)
di
Antonio Carminati
(24.02.19)
Sin verso la metà del secolo
scorso, pochi erano i possessori di alambicchi e gli anziani del
villaggio ricordano che diversi piccoli contadini ricorrevano al
prestito del prezioso strumento, anche fuori paese, e, quale
corrispettivo, il proprietario del làmbech
(alambicco) riceveva un quantitativo di
grappa commisurato alla quantità di litri prodotti. Empó a la ölta,
però, töcc e gli à raspàt (un po' alla volta tutti se li è presi) . In molti casi la distillazione
veniva
effettuata la notte, per garantirsi la protezione da sguardi indiscreti
e per la pura de fàs ciapà
(per il timore dell'arresto). Il buio nascondeva anche il fumo del
braciere e, fò per chèle alète,
anche l’odore acre del distillato si
perdeva lì intorno. Ogni famiglia aveva messo a punto una propria
organizzazione. In molti casi i vàa
fò per i canài a fà la gràpa (si va a fare la grappa nelle
vallecole), sia
per la comodità nel rifornimento dell’acqua che per ottenere maggior
sicurezza. La neve, poi, avrebbe in parte assorbito l’inconfondibile
odore emanato dai fumi prodotti durante la cottura.
Lungo il percorso pedonale che, dalla contrada
Cà
Gavaggio, conduce alla località Prà
Péz, sono ancora visibili, in
prossimità dei diversi ruscelli d’acqua, alcune postazioni utilizzate
nel passato per la distillazione, costituite da modesti pianori,
delimitati da muretti in pietra a secco, entro i quali veniva
impiantato l’alambicco sopra il braciere. A Canito, la contrada della
mia famiglia, il nonno Luigi impiantava l’alambicco lontano
dall’abitazione, nella piccola proprietà terrazzata situata Sóta ol
Póz (sotto la località Pozzo),
in una zona difficilmente raggiungibile e in prossimità di un
ruscello. Ol Giösèp de Mansenài
distillava invece nel canale vicino
alla sua stalla alle Patèrne,
mentre ol Polénte en dol sò casèl sö
la
Còrna Piàna (il Polente in un suo piccolo fabbricato usato per
la sosta del latte su alla Corna Piana). Una parte della produzione era
destinata al consumo
domestico, mentre la rimanente alla vendita: passavano, di casa in
casa, nel periodo invernale, de
furistìr (dei forestieri), ossia uomini dalla
provenienza sconosciuta, che ritiravano anche pochi litri di grappa dai
contadini, versandoli nel contenitore ben mascherato nello zaino.
Seppure senza alcuna ambizione commerciale, quella della produzione
della grappa è una tradizione che si tramanda e ripete ancora oggi –
come quella dell’uccisione del maiale - e richiama alla luce una
relazione vivace dell’uomo con il suo territorio e lo sfruttamento
infinitesimale delle sue risorse.
Vecchi alambicchi di rame a gennaio e febbraio
tornano a funzionare e, ora come allora, la frutta raccolta in estate e
autunno, conservata in grossi bidoni, viene cotta ad elevate
temperature e distillata. Una tradizione ben radicata sulle nostre
montagne, che nasce dalla capacità - un tempo necessità - dei montanari
di sfruttare al meglio i prodotti della terra. Un esercito silenzioso,
perché sono veramente tanti, ma produrre grappa in casa è ancora
un’azione illegale. Lo conferma un recente decreto ministeriale (DM n.
153 del 2001) e si rischia la gabbia (1).
Lo Stato è sempre a caccia di
soldi e intende riscuotere un’imposta sulla produzione dei
superalcolici: Chiunque fabbrica
clandestinamente alcol o bevande
alcoliche è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa
dal doppio al decuplo dell’imposta evasa, non inferiore in ogni caso a
15 milioni di lire. Non è poco. Dunque prudenza e cautela. In
sostanza
ecco il messaggio finale: puoi distillare, ma prima devi pagare!
Ancora oggi la frutta andata a male, troppo matura o
rovinata dalla grandine, viene fatta fermentare e quindi distillata,
per ottenere acquavite casalinga, ottima come digestivo a fine pasto,
correzione del caffè e per riscaldarsi nei rigori dell’inverno. Un
tempo, i lavoratori del bosco, dopo averne bevuto un bicchierino la
mattina presto, prima di uscire di casa, versavano le ultime gocce
rimaste sul palmo delle mani e le sfregavano sulle tempie, come per
riscaldare il fisico, in vista dei faticosi lavori. Ol Pino (i nomi di
seguito riportati nel racconto sono casuali), all’esterno del garage
della sua nuova abitazione, nel colderöl de ram, regalatogli dallo zio
Frédo, collocato sopra un braciere di legna, ha inserito cinquanta
litri di enàsse: dopo averlo chiuso col suo coperchio, anch’esso di
rame, lo ha sigillato, utilizzando un impasto di crusca, farina di
frumento e acqua. Ol coèrcc e l’gh'à
mia da sorà (il coperchio non deve soffiare) - mi dice - perché
altrimenti il vapore si disperde nell’aria e… la grapa la sìvla!... Un
tempo si utilizzava anche la cenere mista a calcina, oppure la boàssa
cólda de l’vàche (lo sterco ancora caldo delle vacche), raccolta con d’öna cassölèra (schiumarola),
bene spalmata attorno
alla giuntura esterna del coperchio della culdìra (caldaia). La cottura va
eseguita con cura, assicurando sempre un fuoco costante. Non serve la
fretta. È un processo che richiede pazienza e tempo a disposizione. Per
alcuni giorni Pino è sempre lì, attorno al suo colderöl (caldaietta). Non lo
abbandona per un attimo ed è impegnato in una serie di piccole ma non
trascurabili azioni: tiene viva la fiamma del braciere con legnetti di
piccole dimensioni, aggiunge in continuazione blocchi di neve nel
bidone della serpentina per mantenere fredda l’acqua, misura col pruì
la gradazione alcolica della flèm (flemma),
tiene controllato che ol coèrcc
(il coperchio) rimanga ben chiuso e sigillato. Inoltre, per evitare che
i fumi e gli
odori invadano le case nella contrada sottostante, ha innalzato un
grosso tubo verso il cielo, che da giorni fuma come un camino. Una
bandiera.
Attraverso la pöpa (becco), il condotto che dalla sommità
del coperchio della caldaia giunge alla serpentina, è convogliato il
vapore derivante dalla cottura delle vinacce. Nella serpentina, poi, un
semplice tubo a spirale, anch’esso in rame, posto in un grosso
contenitore colmo d’acqua, i vapori si condensano e fuoriescono sotto
forma di acquavite. Per tenere sempre fresca l’acqua a contatto con la
serpentina, viene rimboccata con grossi blocchi di neve. Si evita, in
questo modo, di utilizzare l’acqua corrente del rubinetto. Tutto è
economia. La flèm (flemma),
ossia il distillato della prima còcia
(distillazione)
l’è trobia,
torbida e a bassa gradazione. Con la sua carica di cinquanta chili di
vinacce, Pino ha ricavato dieci litri di flèm che, a procedimento
concluso, dopo il secondo processo di distillazione, produrrà cinque
litri di grappa già raffinata. In realtà, la seconda còcia, effettuata
riversando nella caldaia, ben ripulita da tutti i residui di vinacce,
la flèm ricavata dalla prima
distillazione, permette di raffinare
ulteriormente la grappa, aumentando il tasso alcolico e rendendo il
prodotto trasparente e limpido. Adamantino. Il primo pisì che fuoriesce
dalla serpentina ha una elevata gradazione e può superare anche i
novanta gradi, mentre a seguire il tasso alcolico diminuisce, sino ad
ottenere un distillato finito di circa 45-50 gradi. Del distillato si
tiene solamente il cuore, mentre la testa e la coda della flèm vengono
buttate. Il primo liquido a uscire dalla serpentina è altamente
alcolico e tossico, alcool metilico allo stato puro, e lo si sente bene
dal profumo: versato sul fuoco si ottiene un’improvvisa fiammata. La lüs söbéto (si accende subito).
Procedendo con la bollitura, la gradazione alcolica si
abbassa e si ottiene la vera grappa, l’acquavite, che esce dalla
serpentina con una temperatura di circa quindici gradi centigradi.
Nella fase della seconda distillazione, alcuni produttori aggiungono
pure erbe aromatiche, già preparate da tempo, essiccate e sminuzzate,
tali da aromatizzare l’acquavite: salvia, mintù (Mentha longifolia), doèrnes (Juniperus ssp.), anche la
giassàna (Genziana lutea)
(trasportata dalla Svizzera dai nostri emigranti), le cui
radici hanno proprietà tonico-digestive.
Quello della
distillazione della grappa è un’antica pratica di libertà,
un rito che, ancora oggi, si rinnova ogni anno in molte famiglie rurali
del villaggio. Messe da parte, ormai, le paure quasi fisiologiche dei
tempi difficili – anche se permangono ancora, quale antico retaggio,
alcuni comportamenti prudenziali - la postazione di un alambicco
funzionante diventa un luogo di incontro, meta di amici e conoscenti,
anche “esperti” assaggiatori: töcc i
dìs la sò (tutti vogliono esprimere il proprio parere),
analizzando i vari
aspetti sensoriali, per cogliere profumo, sapore, colore e limpidezza.
Si confrontano così memorie gustative che traggono origine da
esperienze differenti (ad esempio in relazione al tipo di uva o di
vinacce utilizzate e al loro grado di torchiatura,…), accomunate però
dalla medesima tradizione. Ol Tata,
sentàt dó denàcc al làmbech (il vecchio patriarca, seduto
davanti a l'alambicco),
accantonate le due stampelle, rievoca i suoi fermenti giovanili, quando
- ormai molti inverni or sono - distillava guardingo scundìt (nascosto a) Sóta ol
Póz , mentre Bèrto confronta la grappa di vinacce del Pino con
quella de
brögne (di prugne) da lui prodotta; Rico, invece, con la sua
lunga barba che cela
la personalità dietro un atteggiamento sornione e tranquillo, con fare
bonario sorride e dispensa conferme ai disquisitori. Pino, infine,
quando gli chiedo di poter scattare alcune fotografie, mi chiede di
attendere: «Spécia, che ‘ndó fò a tö
ol capèl de Alpino!..». (Aspetta che vado a prendere il cappello
d'alpino). Come se
la grappa nostrana richiamasse anche gli Alpini, oltre che lo stile di
vita dei montanari. Poi, fiero di una tradizione, ha insistito affinchè
anche ol sò Tata lo portasse. Però, prima di congedarmi, mi richiama
all’ordine: «Mètele sö mia per i
giornài, nèh!...» (non metterle però sui giornali).
Note
(1)
La distillazione è attività concessa dallo stato
solo in impianti autorizzati, il che preclude la fabbricazione
casalinga. Si giustifica la norma con la tutela della salute quando è
evidente che le motivazioni sono ben altre. Non solo gli 8 € al litro
percepiti dallo stato ma anche gli interessi dell'industria di
distillazione come dimostra il fuoco di sbarramento dei produttori
contro il disegno di legge del senatore Vallardi, leghista trevigiano,
che nel 2009 aveva portato quasi a buon fine, suscitando grandi
speranze nella "depenalizzazione" della produzione sino a 50 l. La
distillazione clandestina era molto diffusa in tutte le regioni alpine
e costituiva anche una forma di sfida e di rivalsa contro uno stato
lontano e ostile che aveva sottratto alle comunità locali ogni
autonomia, soffocando con tasse odiose (macinato, macellazione)
l'economia di sussistenza contadina. Non diversamente era inteso il
contrabbando.
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Cultura
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