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Cultura
ruralpina
La
stalla e gli altri manufatti
dell’edilizia tradizionale
(al centro
di un nuovo umanesimo rurale)
di
Antonio Carminati
(03.03.19)
Alla domanda su quale sia il manufatto più rappresentativo
dell’architettura rurale tradizionale della Valle Imagna, in
relazione alla vita e al lavoro delle popolazioni nei secoli scorsi e
al loro radicamento nelle contrade, la risposta viene da sé: la
stalla. È l’edificio rurale ad uso zootecnico e agricolo presente
nei centri abitati e nei löch
(maggenghi) più distanti. Il modulo edilizio, a
pianta ridotta (non più di sei metri per quattro), si ripete con un
locale al piano terra, per il piccolo allevamento zootecnico (la
stala di àche)(stalla per le mucche), e il fienile a quello
superiore (la stala dol fé,
con accesso separato dall’esterno). La comunicazione interna è
garantita dal büs dol fé
(botola), il buco (di dimensioni ridotte anche solo
di sessanta centimetri per quaranta, realizzato in corrispondenza
della traìs (mangiatoia) sottostante, oppure del fenèr),
dal quale scaricare
nella stalla il foraggio per l’alimentazione quotidiana del
bestiame. La stalla si presenta quale edificio compatto di pietra,
dai muri perimetrali (pride)(blocchi
di pietra squadrati) sino al tetto (di
piöde)(lastre di pietra) a due falde
senza gronda e sprovviste di canài (canali).
Il pavimento della stala di àche
è in acciottolato (ressöl),
per evitare lo scivolamento dei
quadrupedi.
L’utilizzo del legno è limitato alla soletta, che
separa la stalla dal fienile, e all’impalcatura del tetto,
sostenuto da robuste capriate. L’öss
de la stala e ol purtù de la
stàla dol fé (la porta della stalla e il portone del fienile)
sono generalmente realizzate, un tempo dallo stesso
contadino, in assito di castagno. Lo stile sobrio ed essenziale del
manufatto richiama subito un’economia di sussistenza, con pochi
capi di bestiame per il sostentamento familiare. Al fienile si accede
mediante una caratteristica porta a “T”: l’apertura nella parte
superiore è a misura del fascio di fieno, raggiungibile attraverso
alcuni gradini di pietra o una scala a pioli. Il vano è aerato da
piccole feritoie, utili per la conservazione del foraggio. Nella
stalla, oltre alla bösaröla
(usciolo) nella porta d’ingresso, c’è una
finestrella con inferriata. Le stalle più grandi e attrezzate sono
di solito annesse alla cà
(fabbricato d'abitazione)o situate nell’ambito della contrada;
alcune di esse fungevano da luogo di incontro e quale laboratorio per
i lavori invernali.
Pure i löch
più distanti sono dotati della stalla, per la
difficoltà nel trasportare il foraggio. I gruppi meglio organizzati
possedevano anche ol stalì dol
porsèl e ol stalòt de la fòia
(la porcilaia e il magazzino della foglia secca). La
stala, sempre ai margini del prato, costruita con i materiali del
luogo (la pietra estratta dal sottosuolo e il legname tagliato nel
bosco), si inseriva perfettamente nel contesto, sino a costituire
un’unità ambientale con esso. Non un corpo estraneo, ma uno dei
tanti elementi compositivi di un paesaggio coerente e dalle
architetture edilizie e vegetali sobrie. Avrebbero molto da imparare
anche i professionisti del costruire dei tempi moderni. La stalla
costituiva il perno di un’economia agricola e pastorale che si
autorigenerava tutti gli anni. Ciascun edificio aveva al suo intorno
il prato, il pascolo, il bosco, possibilmente anche una piccola selva
castanile. Mentre le stalle situate nelle contrade costituiscono
spesso un tutt’uno inscindibile con le abitazioni ed erano
utilizzate costantemente durante l’anno, svolgendo pure una
funzione sociale rilevante, quelle più distanti, sparse nei löch,
venivano utilizzate in periodi saltuari: per il pascolo primaverile e
autunnale, durante la fienagione, infine per il tempo occorrente –
tra il tardo autunno e la primavera - a
maià dó ol fé (a consumare il fieno), così da
produrre il letame per la concimazione del prato. Tra un periodo e
l’altro, il piccolo allevatore compiva una transumanza interna, per
lo spostamento degli armenti da una stalla all’altra e di tutto
l’occorrente per gestire la bergamina: catene, secchi di mungitura, fassaröl e spressùr,
ràscc e rastèi, (fascere, tavolo spersoio, raschiatori e
rastrelli) … Riti di passaggio, che
anche le vacche percepivano. La stalla ha rappresentato il vero cuore
della famiglia contadina, forse anche più della casa, dove l’uomo
ha sperimentato una particolare relazione umana e produttiva con il
contesto.
Mancano solo poco più di tre settimane
all’arrivo ufficiale
della primavera, ma le attuali giornate calde e soleggiate hanno già
messo in fermento contadini e allevatori, impegnati a concludere le
ultime attività invernali, prima che la natura compia la sua
resurrezione. Sö la stala dol fé
(sul fienile) si contano ormai i pochi balù
(balloni) rimasti.
Gli anziani consigliano di conservare sul
fienile il
fabbisogno di foraggio sufficiente almeno sino alla metà del mese di
aprile e, se le scorte stanno per finire, bisogna provvedere senza
indugio. Giungono così improvvise le comànde
ai Brüghì, mercàncc
de fé de (gli ordini ai Brughini, commercianti di fieno) Put Giürì [Ponte Giurino], e… con i
prezzi che circolano, besógna mèt
mà al bursì (è necessario porre mano al portafoglio)! Con i
piccoli trattori da montagna, si trasportano qua
e là grosse rotoballe, da una stalla all’altra, in relazione ai
bisogni alimentari delle vacche. Alcune di esse, dopo molti mesi alla
catena, oppure semplicemente rinchiuse in ambiti coperti, iè ‘mpó
scassìde (sono un po' malmesse). I capi adulti, ma anche i
vitelli, incominciano a muggire
nella stalla, più di prima, come a “sentire” il tempo ormai
prossimo dell’alpeggio, in libertà, tra prati e pascoli di monte. Le sént en dol sàng che
l’è sà ura de ‘ndà (avvertono nel sangue che è giunta l'ora di
partire) e che, tra poco
più di un mese, tempo permettendo, festeggeranno con salti
improvvisi e galoppate nel prato la nuova e fresca aria che soffia
dal Resegone. Francesco trasporta le sue ultime rotoballe dalla
stalla di Recüdì a quella di Calsinù
[Calcinone, una delle contrade di Corna Imagna], dove ha le mucche in
stalla,
ma anche quella scorta di fieno, fatto essiccare sulle pendici del
monte Poren, non basta e dovrà provvedere all’acquisto di cinque o
sei balloni. C’è anche il letame da stendere nei prati ed è in
attesa gli consegnino la nuova pinza dentata, azionata da un sistema
idraulico collegato al trattore, per il carico del prezioso concime.
Ormai l’è ura. La vita rurale è disseminata di situazioni
impreviste. Inimmaginabili per gli abitanti della città. Quassù
ogni giorno è un’avventura, non c’è un’alba o un tramonto
uguali agli altri e l’unica certezza per i montanari, presente sin
dal primo risveglio, sono le cose da fare e che non possono non
essere fatte.
Mentre Francesco è intento nel trasporto del
foraggio, Ugo,
attende che Graziano salga ai Calf con la sua ruspa, per livellare
un’area sottratta al bosco e da sistemare a prato stabile: ha già
provveduto a tagliare tutte le piante e, nella sua visione delle
cose, intravvede già che, dal nuovo prato, nei prossimi anni potrà
ricavare due rotoballe in più di fieno. Ugo è un visionario, ma non
si può non esserlo in montagna, per poter guardare oltre le molte
fatiche contingenti. Antica e preziosa attività è quella di
sottrarre al bosco nuove aree coltivabili, che ha caratterizzato la
vita e il lavoro dei valligiani nei secoli scorsi, anzi addirittura
negli ultimi millenni. Un’azione oggi in controtendenza, rispetto
all’avanzare continuo, incontrollato e selvaggio delle aree
boscate. Ugo si è fatto portatore di un piccolo ma significativo
gesto. Lo vogliamo considerare un esempio generativo, un seme. Al
giorno d’oggi, poi, i potenti mezzi meccanici sono in grado di
compiere in poche ore ciò che un tempo avrebbe occupato più
contadini per diversi mesi. Nel frattempo, il nostro protagonista ha
già accantonato, dalla méssa dol rüt(concimaia),
la parte di letame
occorrente per dare subito la sostanza al prato in formazione.
Inoltre ha messo da parte, sö la
stala dol fé (nel
fienile), tutto ol blès
(fiorume) risultante dalla movimentazione del foraggio, raccolto in
sacchi,
pronto per essere poi disteso e seminato sulla nuova cotica.
Possedere una visione significa riuscire a vedere oltre le apparenze
e le situazioni contingenti, traguardando un progetto realizzabile in
un contesto ben definito. Visione come atto di amore nei confronti di
un territorio: dunque nessuna fantasticheria o utopia priva di
fondamento. Tutt’altro. Ugo è capace di vedere al di là della
situazione attuale e il suo pensiero insegue un’idea, dà forma a
un disegno di riordino di un pezzo di terra, attribuendogli una
funzione specifica.
È la stessa visione di quasi tremila anni fa,
quando i primi gruppi di Orobi si stanziarono nella regione. In
questo momento, il nostro protagonista sta persino preparando i pài
de castègna (pali di castagno) che serviranno per la successiva
recinzione:
scortecciati, uno alla volta, col scursì
(accetta) - un attrezzo caro al
lavoro dei boscaioli impegnati nelle grandi foreste di abeti di
Svizzera e Francia -, appuntiti con la sighür (scure) come fossero delle
enormi matite, quindi incatramati, o bruciacchiati, nella parte da
interrare, infine allineati sö la
stala dol fé (presso il fienile), in attesa di essere
conficcati nel terreno e collegati tra loro da pèrteghe orizzontali.
Tante piccole azioni a misura d’uomo. Questi tronchetti appuntiti,
cosi bene allineati e in bella mostra, si presentano come tante lance
di una falange sul campo di battaglia, pronta per conquistare e
delimitare un altro territorio.
Non è un ritorno al passato, perché Francesco,
Ugo (cito
espressamente i due, di cui sono testimone diretto del loro lavoro) e
tanti altri contadini e valligiani sono oggi impegnati non solo a
produrre beni alimentari, valorizzando risorse di origine vegetale e
animale, ma anche ad assicurare servizi vitali per tutti noi,
connessi alla tutela della natura e dell’ambiente, nonché alla
concretizzazione dei principi universalmente condivisi di umanità e
di comunità. Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando
sono in grado di accogliere relazioni generative con la popolazione
locale, e quindi di esprimere i caratteri di una visione,
rappresentano dei valori, più che dei beni o delle merci. Francesco,
Ugo e tanti molti agiscono come tante api operaie, ossia
contribuiscono in modo determinante a sostenere l’ossatura e il
futuro del “sistema montagna” delle Orobie, presidiando il
territorio e difendendo l’insieme delle sue caratteristiche
naturali e antropiche. O, se vogliamo, combattono, come altrettanti
guerrieri, la battaglia quotidiana di umanizzazione del creato, o
dell’evoluto. Con quali strumenti? Primo, tra tutti, quello del
lavoro. È proprio grazie al lavoro che l’utopia diventa realtà,
la visione continua ad assumere, oggi come tre millenni fa, connotati
concreti.
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Cultura
ruralpina (in valle Imagna)
La
distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19)
Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne
offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce
gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure,
di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene
di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute",
disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal
Cinquecento). leggi
tutto
La
caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli
uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una
volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti
all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano
[a caccia] di volpi). leggi
tutto
L'economia
delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori
e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa
per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo
alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta
somma di denaro... leggi
tutto
In
morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) La
triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna.
Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di
prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a
"uso vacanza". leggi
tutto
La méssa dol rüt
(08.01.19) La
méssa dol rüt (la concimaia) era l'elemento chiave di un
paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e
sprecare risorse
leggi
tutto
Il Natale dei contadini. Un rito che non
scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18)
Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione
del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori. Quella
che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero
possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza
della macellazione con qualche immagine di insaccatura. leggi
tutto
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