Ruralpini Resistenza rurale
 

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Ridar vita alla montagna

(serve una svolta)



Da dove cominciare nell'individuare gli strumenti, i soggetti, i percorsi di una rinascita montana? Un dibattito che oggi non può essere lasciato agli "esperti", non deve "saltare" a forme di progettazione - più o meno estemporanee - che servono solo a far girare risorse che non toccano terra dove realmente serve. Gestire il territorio, i servizi, rianimare la socialità, il senso di appartenenza, ridare in mano alle comunità insediate, anche le più piccole, il diritto-dovere di decidere e gestire i piccoli-grandi problemi  della loro vita. Associarsi per vivere, nelle forme originali, spontanee e autonome che ogni comunità sceglie come adeguate, fuori dalle gabbie imposte dalla complessificazione della civiltà urbana. Fuori dalla gabbia di una divisione tra ambiti  ("economia" / "impresa", "servizi sociali", "pubblico" e "privato") che è stata calata sulla montagna, che qui è artificiosa e la paralizza. Non si tratta di inventare nulla. Basta capire come le comunità si sono autogestite prima della modernità disgregatrice e colonizzatrice.


di Michele Corti

(02.02.2020) Quello che sta succedendo alla montagna è un ritorno alla situazione prima dell'anno 1000, forse peggio. I boschi si rimangiano millenni di colonizzazione agricola e pastorale, lupi, cervi, cinghiali proliferano. Non ci si rende conto dei patrimoni che si perdono ubriacati, narcotizzati dalle perverse ideologia ambientaliste, abilmente utilizzate dagli interessi più forti e aggressivi (che del bene comune se ne fanno un baffo e che perseguono solo i loro obiettivi di profitto e potere).

La montagna ha futuro (se non ce lo si lascia rubare da chi ha interesse a farla morire)

D'altra parte molti fattori che hanno "condannato" la montagna della modernità e della contemporaneità a una situazione di svantaggio stanno forse venemdo meno.  Va anche detto che lo svantaggio della montagna non è mai stato assoluto, "naturale". In molte epoche si è vissuto meglio in montagna, la montagna era più progredita della pianura (basti pensare come, ancora nell'Ottocento il tasso di analfabetismo fosse molto più elevato in pianura che in montagna).  Oggi la "smaterializzazione" dell'economia (un po' mitizzata peraltro) e la rivoluzione dei sistemi di movimento di informazioni, oggetti, persone sta rivoluzionando ancora una volta lo svantaggio relativo. Una volta superato il problema della banda larga (con diverse soluzioni oggi possibili) l' "internet divide" che ha penalizzato la montagna, dopo i primi entusiasmi, un fattore di svantaggio (nel telelavoro ecc.) sarà archiviato. La grande penalizzazione della montagna è stata legata dai primi dell'Ottocento in avanti ai collegamenti stradali, una penalizzazione accentuata con la motorizzazione. In un mondo di mobilità a piedi, a dorso di cavallo o di mulo la differenza tra muoversi in pianura e in montagna non era sostanziale. In pianura  c'erano pochi ponti  e pochi traghetti a fune (uguali a quello che c'è ancora a Imbersago sull'Adda), in caso di piene, i  fiumi dilagavano e i guadi (che cnsentivano l'agevole passaggio di fiumi come il Serio) erano impraticabili. I boschi lungo i fiumi erano infestati dai briganti (sino ai primi decenni dell'Ottocento).
Tra il trasporto su carri in pianura e con le carovane di muli c'era una differenza di costi importante ma non abissale. Con lo sviluppo delle rete stradale e poi della motorizzazione i paesi sono stati collegati ma, spesso, con un'unica strada che porta in fondovalle.  I collegamenti con altri paesi, al di là dei versanti che un tempo erano affrontati a piedi, sono venuti meno. I paesi delle alte valli sono diventati cul de sac, periferia, margine, quando, invece erano al centro di collegamenti intervallivi. In pianura, invece, con la rete stradale ci si sposta ovunque con mezzi pubblici o privati. Ciò ha creato isolamento e svantaggio, tanto che la famosa e sospirata strada, spesso è arrivata... per facilitare il trasferimento a valle della popolazione.  Ma oggi il trasporto sta svincolandosi dai tracciati stradali. In caso di emergenza arriva un elicottero (che oggi presta anche già parecchi servizi di trasporto) e la tecnologia dei droni è già pronta per il trasporto di pacchi, corrispondenza mentre si sperimentano i droni-taxi. La l'elemento verticalità con il trasporto aereo è superato. Pensiamo anche agli effetti del cambiamento climatico. Laddove alla preoccupazione per gli inverni gelidi è subentrata quella per le estati torride. Non rappresenta questo un fattore di vantaggio, sempre relativo, per la montagna? Condannare a morte la montagna a fronte di queste trasformazioni è non solo un errore per la perdita di patrimoni, per le conseguenze in termini di calamità naturali del mancato presidio di ampie fasce di territorio ma è anche un errore in un mondo in profondo rivolgimento in cui lo svantaggio della montagna può essere in parte ribaltato.



Invertire una secolare tendenza privatistica e individualistica

Realisticamente, però, non è pensabile che, spontaneamente, le nuove opportunità di futuro per la montagna contrastino i fattori di crisi in atto. Primi tra tutti la crisi demografica e l'inselvatichimento del territorio.  Per far fronte a questa situazione occorre rimettere in discussione l'assetto della montagna che abbiamo ereditato da epoche di forte popolamento, culminate nel XIX secolo. Epoche che avevano portato a un uso intensivo delle superfici agropastorali, di conserva con la privatizzazione delle risorse. Quest'ultima fu saggia e entusiasticamente accolta dai montanari nell'epoca di espansione medioevale, prima della peste ma, nel XVIII secolo, fu imposta dall'alto, dall'ideologia illuminista e dai concreti interessi della borghesia rampante rappresentata in montagna dai proprietari delle miniere e dei forni fusori, dagli speculatori che si accaparravano le risorse boschive sottoponendole a uno sfruttamento insensato. Uno sfruttamento che poi fu attribuito, falsamente, ai montanari sottoposti a una feroce (spesso insensata) disciplina forestale imposta dall'alto con strumenti tecnocratici e  polizieschi (le capre, strumento di autosufficienza indipendenza vitale del contadino di montagna furono le prime a farne le spese).
Questi precedenti dovrebbero, già da soli,  mettere in allarme di fronte alle ricette ambientaliste (sono la versione odierna della solita arrogante e aggressiva politica tecnocratica delle élites) fatte di "rewilding", proliferazione di orsi, lupi, linci, sciacalli, ghiottoni, gipeti e quant'altro, abbandono dei boschi a loro stessi (salvo praticare tagli a raso per alimentare le centrali a biomassa speculative e inquinanti - molto care all'Uncem - che con rese elettriche ridicole immettono gocce nel calderone delle "reti nazionali").




Pannicelli caldi

A fronte della minaccia di uno spopolamento che porta indietro la montagna di oltre mille anni (con conseguenze che è difficile prevedere) la cultura e la politica urbane intervengono con i pannicelli caldi. Hanno emanato una legge di facciata per i "piccoli borghi montani", quelli che soddisfano all'esigenza estetizzante del borghese bohemien (il bobo come in Francia vengono sprezzantemente definiti i radical-chic): una manciata di milioni per un ventaglio di interventi. Fuffa. Le leggi che,  dalla passata legislatura, sono state presentate a favore dell' "agricoltura contadina" rappresentano un'altra risposta parziale e insufficiente. Non distinguono tra montagna e pianura, rischiano di crare divisioni all'interno del mondo contadino favorendo aziende "bio e biodinamiche", spesso trastullo dei borghesi, ed escludendo aziende contadine vere, magari con più unità lavorative attive secondo il modello dell'azienda famigliare non ancora morto.  



Una società di mercato dove, se non fai profitto, sei l'eccezione che deve trovarsi la sua nicchia da "terzo settore"

La civiltà urbana dell' "occidente avanzato" ha creato una serie di istituzioni che dovrebbero rispondere all'esigenza di rendere meno feroci, in termini sociali, gli effetti di una economia di mercato che ha debordato ovunque, che ha modellato la società alle esigenze di del mercato e del profitto (viviamo in una società di mercato, non in un'economia di mercato). Di qui tutta una serie di istituti che, in qualche modo, prevedono che - al di là dell'azione pubblica - vi siano soggetti privati che in qualche modo perseguono finalità sociali fornendo utilità sociali dove l'impresa e il pubblico non  riescono a farlo.  Si tratta del terzo settore, dell'associazionismo, delle fondazioni, delle imprese sociali e cooperative "sociali". E' curioso che si parli di cooperative "sociali" tenendo conto che la cooperazione è nata nell'Ottocento per finalità sociali. Poi, però, nella prima metà del Novecento, essa, nel momento che è stata riconosciuta dallo stato e fatta oggetto di agevolazioni, è stata anche ricondotta alla fondamentale dimensione dell'impresa. Quanto rimane di "spirito sociale" della cooperativa è spesso qualcosa di formale e di facciata. Vediamo anche come le cooperative siano divenute lo strumento dell'esternalizzazione e della precarizzazione della forza lavoro in diversi settori.
La forma della cooperativa, nella versione "di comunità" o "di paese" (una fattispecie che in realtà non esiste) è stata suggerita come strumento idoneo a gestire le attività produttive e di servizi delle piccole comunità. Senza escludere che in alcuni contesti la cooperativa possa rappresentare una soluzione anche per i problemi della vitalità delle piccole comunità ci si chiede quanto possano pesare i vincoli della forma cooperativa, che è a tutti gli effetti un'impresa economica che deve fare bilancio. D'altra parte, anche se guardiamo alle possibilità previste per il "terzo settore" è giocoforza convenire che la scelta di una o più di queste forme di aggregazione può rispondere ad alcune esigenze ma non ad altre. In una piccola comunità una pluralità di associazioni può rappresentare una ricchezza ma servirebbe anche una struttura unificante. Questa non può essere il comune inteso come istituzione politica- amministrativa, caricata di crescenti funzioni burocratiche con la complessificazione della società urbana e della macchina pubblica ma anche impossibilitata,  per legge, ad assolvere a quei compiti di intervento più direttamente economico e sociale che sono stati assegnati nel tempo ad altri enti e al "terzo settore".  E' sintomatico per esempio come il comune abbia perso quelle competenze in materia agricola che pure aveva in passato. Il comune non ha smesso di influire sull'agricoltura ma lo ha fatto - quasi sempre con effetti negativi - utilizzando lo strumento urbanistico.
Vi è poi il ventaglio delle possibilità offerte dal "Terzo settore" (associazioni, fondazioni, società di mutuo soccorso, imprese e cooperative sociali, organizzazioni di volontariato). Molte delle attività comunitarie in materia di servizi sociali, cultura, sport, attività ricreative possono essere gestite da questi soggetti che , con la cosidetta "riforma del terzo settore" hanno anche più possibilità di svolgere attività economica sia pure senza scopo di lucro. Nessuna di queste forme di aggregazione può rispondere all'esigenza di gestire al tempo stesso attività agricole, forestali e di trasformazione alimentare, di distribuzione di merci, di organizzazione di servizi socio-sanitari, culturali, ricreativi.



Estendere il modello dell'associazione fondiaria

Pensare che una piccola comunità possa auto-organizzarsi per gestire tutti gli aspetti della vita che la modernità urbana ha segmentato artificialmente (contribuendo non poco con questa frammentazione e compartimentalizzazione a mettere in difficoltà le piccole comunità) è utopistico?  Nell'ambito della gestione dello spazio agro-silvo-pastorale esiste uno strumento, Associazione fondiaria che risponde all'esigenza di contrastare gli effetti della polverizzazione fondiaria e dell'abbandono organizzando in forma associata (i soci sono i tanti possessori di particelle fondiarie) la gestione agrosilvopastorale. Una rivoluzione copernicana che, in realtà, rappresenta un ritorno alle gestioni collettive. Non si "collettivizza" la terra, non la si espropria. Sarebbe un errore gravissimo. Chi abita in montagna (tutto l'anno o una parte dell'anno), chi si è allontanato ma mantiene delle proprietà "terriere", è coinvolto in vario grado. Può partecipare attivamente alla gestione o limitarsi ad essere socio con il suo pezzo di terra. Un fatto importantissimo perché un giorno un socio, il figlio di un socio potrebbero tornare a fare i contadini, i boscaioli, i pastori o, meglio, gli operatori multifunzionali della montagna (come sono sempre stati i montanari prima che la modernità imponesse l'aut aut: "o ti trasformi in impresa o fai l'esodato rurale"). Potenzialmente l'associazione fondiaria può intervenire anche sulla valorizzazione congiunta delle produzioni dei terreni che ad essa fanno riferimento. E qui si apre il discorso della "filiera rurale", della riattivazione di quei nessi tra i campi, i prati, i pascoli, i boschi da una parte e il tessuto comunitario dall'altra, nella sua dimensione di famiglie, di persone, di piccole attività economiche (commerciali, artigianali) ma anche di edifici, di manufatti, di patrimonio costruito. 

Un auspico di 64 quattro anni fa

Le idee alla base delle Associazioni fondiarie non sono certo nuove. Il ritardo con il quale si perviene a queste soluzioni spiega molti dei problemi della montagna. L'esigenza dell'associazionismo fondiario era già sentita molti anni fa. La soluzione prospettata dai tecnici era però prematura: il contadino di montagna ben difficilmente avrebbe rinunciato a coltivare la sua terra per entrare in una cooperativa di conduzione unita. Le Associazioni fondiarie hanno potuto affermarsi solo con l'abbandono, solo con la perdita di contatto della maggior parte dei proprietari delle "loro terra", sono con i passaggi di proprietà a generazioni che quei fazzoletti di terra, acquistati magari con inauditi sacrifici dai vecchi, non hanno coltivato. In uno dei tanti convegni "sui problemi della montagna", tenutosi a Sondrio nel 1956, uno dei relatori, il capo dell'Ispettorato delle foreste di Sondrio, dott. Feliciani esponeva quelle che erano idee correnti tra gli "esperti": 

Noi pensiamo che si possa pervenire ad un risultato conveniente attraverso una particolare forma di Cooperazione agricola: L’affittanza collettiva su terre proprie con conduzione unita. E' risaputo infatti che la polverizzazione la dispersione della proprietà fondiaria impongono un lavoro mal ricompensato a tutti i proprietari che provvedono singolarmente alle diverse operazioni agricole e che impediscono, o perlomeno limitano, iil ricorso a  mezzi tecnici progrediti e specialmente al meccanizzazione. L'affittanza  collettiva su terre proprie con conduzione unità significherebbeebbe la costituzione di una cooperativa tragli stessi proprietari della terra.  La cooperativa dovrebbe provvedere all'esecuzione collettiva delle operazioni agricole con un certo numero di unità lavorative scelti esclusivamente, o almeno prevalentemente, tra i soci e lasciando che gli altri possono dedicarsi differente attività. I prodotti verrebbero distribuiti assegnato una quota della terra conferita, una quota al lavoro prestato e trattenendo altra quota per le spese generali. stante gli aspetti numerose completi dell'economia montana, la cooperativa dovrebbe prevedere molte attività e cioè funzionare non soltanto come semplice associazione per la coltivazione della terra, ma anche come società d'alpeggio, come ente per l'esecuzione di miglioramenti fondiari ed anche come organizzazione per seguire i soci o di lavori loro familiari che non potendo essere convenientemente occupati nelle operazioni agricole, avessero necessità di dedicarsi ad altre attività..


Abbiamo esempi di queste forme di associative per la gestione della vita della comunità? Certamente. Negli Stati Uniti ci sono città intere che non appartengono a un comune (il territorio non è tutto suddiviso in comuni) ma direttamente alla contea. Si autogestiscono in forma privata. E funziona. In Italia è citato il caso di Partigliano, una frazione di 200 abitanti di un comune della provincia di Lucca dove diverse associazioni, operando di conserva, hanno assunto la gestione dei servizi, di fatto svuotando il comune (che ha sede in pianura e che, come spesso succede, delle frazioni "periferiche" si interessa poco).  E' stata la modernità, con la sua ossessione per le gestioni individuali, con la sua ossessione per organizzare ogni attività conomica in forma di impresa a fine di lucro, che ha distrutto le forme di gestione collettiva, comunitaria, delle risorse. L'istituto che rappresentava l'associazione tra gli abitanti era la Vicìnia (assume anche altre denominazione). Era limitata alle famiglie "originali"  perché queste, spesso, avevano a suo tempo riscattato dai signori feudali a suon di moneta sonante i diritti di possesso di boschi e pascoli. Vi erano, però, grazie alla corresponsione di una quota e alla residenza prolungata, delle possibilità di accesso a queste associazioni. Gestite nella forma della democrazia diretta (si conservano ancora le macchine per votare in forma segreta, ovvero per inserire palle di colore diverso per approvare o respingere una proposta)  queste associazioni  non solo gestivano i beni silvopastorali (quelli agricoli erano stati privatizzati nell'epoca delle colonizzazioni medievali in coincidenza con l'intensificazione agricola e l'aumento della popolazione) ma anche le strutture di trasformazione e distribuzione dei prodotti: i mulini, le cantine, le osteri, le segherie. Non solo ma le Vicìnie gestivano spesso anche le scuole e delle forme di assistenza, contribuivano al mantenimento della chiesa ecc..

Lasciate che la piccola comunità si gestisca come una famiglia, senza burocrazia, senza tasse

Oggi la sopravvivenza di funzioni minime per la sopravvivenza delle piccole comunità è legata alla possibilità di gestire il bar-trattoria-negozio, un centro di servizi comunitario dove poter disporre di attrezzature per lavorare i prodotti agricoli (anche dell'attività di coltivazione e allevamento  "hobbistica"  sia per autoconsumo che per la vendita nel bar-trattoria-negozio), dove poter praticare attività artigianali (legno, lana). Queste strutture comunitarie, come i vecchi mulini, segherie, osterie, caneve, sono il trait d'union tra la vita del paese e la rinascita delle superfici agrosilvopastorali. Tutte queste attività devono essere totalmente defiscalizzate e deregolamentate. Si deve equiparare la piccola comunità  a una famiglia. Va precisato che il "quanto piccolo"
non può essere definito solo in base non solo a numero abitanti ma anche a parametri di spopolamenti, distanza dai centri con servizi, perdita di superfici agropastorali.  Sono a volte fuorvianti i caratteri puramente fisici, primo fra tutti l'altimetria perché da lungo tempo è noto che la fascia di maggior sofferenza è quella della bassa-media montagna.
Il criterio guida di questa "rivoluzione"
è che non devono essere richiesti adempimenti e requisiti diversi da quelli per lo svolgimento delle stesse attività nel chiuso dell'abitazione famigliare, del contesto "hobbystico". Ciò è un passo avanti rispetto alla semplice riduzione degli adempimenti per le aziende "contadine" (vedi le proposte di legge da due legislature attendono di essere discusse in parlamento). Qui non si parla di aziende ma di comunità che sono (o possono tornare a essere) "grandi famiglie" e che solo attraverso la cooperazione, il passaggio dalla chiusura individualistica a una dimensione mutualistica e socializzante possono recuperare motivi per volere un futuro. 
Ma non basta ancora. Serve poter organizzare in forma comunitaria le attività di recupero del patrimonio edificato, di manutenzione. Tornando all'esecuzione dei lavori in economia e in forma mutualistica. Anche in  presenza di necessari specialisti questi ( e non solo chi ha la fortuna di avere in famiglia il muratore, l'elettricista ecc.) operando nel contesto della loro comunità, devono poter essere sollevati da oneri fiscali e adempimenti burocratici. Lo stesso per i servizi sociali, educativi, assistenziali tenendo presente che già oggi è possibile organizzare le scuole parentali e che questo modello può servire per altri ambiti.  Assistenza infermieristica, trasporto ammalati (ma anche altri trasporti di persone e merci) dovrebbero rientrare nella sfera operativa di questa "società di abitanti" che autogestisce i "servizi per vivere". Per ricollegarci malle prospettive offerte dai nuovi sistemi di trasporto, l'associazione di comunità potrebbe gestire un servizio di drone-taxi (a Torino entreranno in funzione l'anno prossime e quindi non è fantascienza) che ampia enormemente le possibilità di trasporto (anziani, ammalati, urgenze "minori") rispetto all'elicottero.

Utopia perché non passa dalle app?

A chi obietta che si tratta di "utopie" basterebbe ricordare che in città, grazie a delle app, funzionano le banche del tempo, i servizi di sharing, di baratto e altre forme che non sono null'altro che il ritorno al mutualismo spontaneo della società contadina. Se funzionano con delle app in un ambiente dove tutti sono sconosciuti agli altri non dovrebbero funzionare dove a oliare e rinforzare i meccanismi della cooperazione vi è ancora la relazione fisica, calda di prossinità? Prossimità che diventa prigione e fonte di tensioni se c'è disgregazione, se non ci sono speranze comuni, se non c'è la prospettiva dell'aiuto reciproco sincero, ma che diventa sicurezza, sostegno, consolazione se i meccanismi di relazione sono caratterizzati da esperienze positive.



E Livigno allora?

Quando si avanzano proposte di defiscalizzazione della  montagna in sofferenza  non si attenta al bilancio dello stato, non si incita alla sovversione fiscale. La zona franca a Livigno è intoccabile e muove un gigantesco giro d'affari, Livigno è una delle migliori località turistiche alpine e prospererebbe anche senza la zona franca che alimenta  attività speculative. Lo stato perde parecchio in termini di iva non riscossa ma nessuno osa eliminare un anacronismo che è privilegio. Per i piccoli centri di montagna si auspica una defiscalizzazione che aiuterebbe la sopravvivenza e stimolerebbe flussi turistici di minima entità.

Nuovi insediamenti, giovani famiglie


In una comunità che riesce a auto-ri-organizzarsi secondo questi modelli si può prevedere di operare al contrario rispetto al passato. Ovvero, invece di chiedere una "quota di ingresso" nella associazione si potrebbe offrire alloggi recuperati senza canoni di affitto e la possibilità di inserirsi nei circoli di autoconsumo (prodotti agricoli, legna da ardere) e autofruizione di servizi locali in cambio dell'impegno (per un numero minimo di anni) a prestare l'opera di uno o più membri della famiglia nelle attività agrosilvopastorali gestite in modo associativo e nelle altre attività di servizio (manutenzioni, servizi di megozio-bar-trattoria, servizi assistenziali) prevedendo comunque la "presa in carico" di una superficie anche piccola di terreno da coltivare direttamente. Come per tutti gli altri "soci" della comunità anche i nuovi arrivati, a fronte del sostegno ricevuto, saranno chiamati a prestare "giornate" di lavoro volontario secondo le proprie capacità o compensate altrimenti (non è del resto consuetudine del tutto abbandonata in parecchi comuni, almeno con riguardo alle strade).



I rapporti con lo stato

In questo schema lo stato rinuncia a tassare e sottoporre a oppressiva regolazione piccole attività che vanno poco al di là di quelle svolte nell'ambito domestico e dell' hobbismo. In compenso non è difficile valutare quale risparmio in termini di interventi per calamità naturali esso possa conseguire a seguito del mantenimento del presidio e della manutenzione di ampie superfici territoriali. Non solo, favorendo il solidarismo spontaneo, il mutualismo, la soddisfazione di molti bisogni e servizi in forma autonoma da parte delle piccole comunità, lo stato (inteso anche il comune) risparmia ingenti risorse (pensiamo solo quanto costa  l'invio nei paesini di assistenti sociali, e poi il trasporto di alunni e malati, quelle manutenzioni che diverebbero superfle in un contesto edificato e silvopastorale "usato e vissuto"). In  corrispettivo di tutti questi risparmi  lo stato, oltre a rinunciare alle varie forme di oppressione fiscale di realtà minime  (vedi il sadismo dei registratori di cassa, delle fatture elettroniche ecc.), dovrebbe riconoscere alla "società degli abitanti", attraverso il comune, un corrispettivo forfettario a titolo di "contratto di manutenzione e cura del territorio" a riconoscimento delle utilità sociali e dei servizi ecosistemici forniti alla più ampia collettività dalla presenza (a questo punto non più stile dormitorio) delle piccole comunità dei territori di montagna, alta collina, zone interne svantaggiate. Non mettiamoci altri sessant'anni, però, a mettere in pratica queste (o altre) soluzioni. La montagna sta morendo velocemente e non c'è consapevolezza sufficiente, anche per colpa di distorte ideologie ambientaliste di matrice urbana, delle gravi conseguenze di questo fenomeno per tutta la società.

Una graduazione

Tutto o nulla? Questa "utopia" si può applicare solo alle piccole comunità di poche centinaia di abitanti. No, perché non risolveremmo il problema della montagna. Per i centri più grandi (e/o meno svantaggiati) vanno comunque avanzate proposte di semplificazione della giungla regolativa pubblica, defiscalizzazione, stimolo all'associazionismo di comunità. Posto che nei piccoli centri non può esservi l'obbligo di passare a una gestione comunitativa, in quelli più grandi ciò deve comunque essere possibile e incoraggiato. Misure di semplificazione sono state previste nella citata legge sui piccoli borghi e sono contenute in altre proposte legislative, così come misure di defiscalizzazione.  Fuori da queste provvidenze va lasciata la montagna  senza svantaggio, quella Istat. Qui ci sono più voti e voce in capitolo ma se non si ragiona, schematizzando, sulle "tre montagne": quella che non necessità di uno status diverso dalla pianura, quelle con maggior svantaggio, spopolamento, che necessità di un'approccio radicale, quella "intermedia", cosa succede? Che la calata a valle, verso i centri pedemontani (non importa se perimetrati nella montagna e nelle comunità montane) continuerà, che l'emorragia dei centri minori continuerà. Ecco perché ci vuole un intervento coraggioso che non guarda al consenso immediato.



MONTAGNA AMARA ...  MA CHE NON MUORE IN SILENZIO PER NON DAR FASTIDIO AGLI IPOCRITI CHE LA UCCIDONO


Popolo alpino... a rischio estinzione
(29.01.20) Andrea Aimar, un giovane della val Maira torna sul tema di una montagna a cui viene rubato il futuro.  Le "piccole" cose che stanno uccidendo la montagna (nessuno potrà dire: "non sapevo, non ce l'aveva detto nessuno") leggi tutto


Schiacciati tra lupi e registratori di cassa
"Ormai è peggio di una dittatura, vogliono far chiudere tutte le piccole aziende agricole di montagna". Così conclude questo nuovo intervento Anna Arneodo. Il suo grido di dolore è circostanziato. In altre occasioni ha indicato il lupo come uno degli "strumenti" con i quali si vuole attuare la pulizia etnica della montagna. Ora indica nella burocratizzazione, nelle tante voci di costo imposte per legge (pesantissime per le piccole aziende), nell'adozione di modalità informatiche (che penalizza la montagna mal connessa) altrettante "armi di distruzione". leggi tutto

  • Rinaturalizzazione o spopolamento della montagna?
  • (07.01.20) Dal punto di osservazione della sua valle Imagna, un territorio di montagna intensamente antropizzato, Antonio Carminati affronta, con un secondo intervento, il problema della politica di spopolamento della montagna. Una politica cammuffata con l'ipocrisia pseudoecologica del "rewilding" e gabellata come riparazione della natura e risanamento dell'ambiente. Ai fautori di queste politiche non si deve consentire di operare la pulizia etnica della montagna contrabbandandola come operazione ecobuonista. Vanno costretti a gettare la maschera.

(21.12.19) Il dibattito tra montanari sul futuro della montagna entra nel vivo. Rispondendo ad Andrea Aimar (val Maira, CN) , Carminati dalla valle Imagna bergamasca,  mette l'accento sui processi  culturali oltre che su quelli socio-economici. Vero che la montagna è colonizzata , che le normative la penalizzano, che è priva di rappresentanza politica, ma il problema è anche l'autocolonizzazione, l'esodo culturale che - altrettanto negativo dello spopolamento demografico - rende i montanari estranei alla montagna pur continuando a risiedervi, ma senza più legami concreti e  simbolici con il territorio, con la memoria della comunità 

Transumanza amara
(18.12.19)«Sulle strade statali, dell’ANAS, con le bestie non puoi più passare!». Ma la transumanza, patrimonio dell’UNESCO, dove passa? Su Google, sul cellulare, sullo smartphone? La transumanza che piace corre con bellissime immagini sui media, non puzza, non sporca, non porta con sé fatica, sudore, sofferenza, stanchezza. Quale transumanza vogliamo allora celebrare e sostenere con il riconoscimento Unesco? Una domanda che merita risposte franche

(13.12.19) Essere consapevoli dei termini di un problema rappresenta già un primo passo per una possibile soluzione.  Nella lettera che riportiamo, Andrea, un giovane di una valle della provincia di Cuneo, sostiene che - al di là dei proclami - la politica (Roma e Bruxelles) vuole lo spopolamento della montagna. Porsi rispetto alla politica senza illusioni, con realismo, significa poter elaborare strategie adeguate a contrastare certi disegni. Quantomeno provarci, in un quadro di scenari aperti che concede anche qualche chances.

L'ambigua cultura del bosco
(30.03.19) L'ideologia del bosco ha radici plurime che si richiamano a una... selva di simboli. Essa è capace di richiamare valori che si collocano agli antipodi: libertà e autoritarismo, peccato e innocenza, razionalità e irrazionalismo, individualismo e statalismo.  Come tutte le suggestioni ambigue anche il richiamo apparentemente innocente all'amore per il bosco è capace di suscitare un consenso manipolato. leggi tutto


Borgata alpina in vendita in blocco  per quattro soldi in val Grana
(04.02.19) Le amare considerazioni di Anna Arneodo di Coumboscuro che conosce e ama le borgate della sua valle. leggi tutto


Idolatria boschiva

(24.03.19) La superficie forestale ha superato nel 2018 quella agricola, rappresenta il 40% del territorio nazionale contro  l'11% del 1950.  L'Italia à dunque un paese ricco di boschi (di che qualità?) e gli ambientalisti da salotto (ma anche tanti esperti con il paraocchi) giubilano. leggi tutto


Dalle Terre Alte un no a questa Europa
(08.01.14) "Abbiamo bisogno di risorse per i bimbi, per le strade e l'Europa finanzia i lupi". E' una condanna senza appello dell'Europa della tecnocrazia quella di Alte Terre, associazione di Cuneo. Ma non basta denunciare; occorre un'azione politica unitaria.  E per l'occasione delle prossime europee si potrebbe ripetere il "miracolo del '79" che vide l'unità di un largo fronte minoranze e di gruppi autonomisti  leggi tutto

 

(13.02.11) La cultura urbanocentrica svuota la montagna  Riportiamo l'articolo di Tarcisio Cima pubblicato dal "Giornale del popolo" il 21 gennaio 2011 con il titolo 'La montagna svuotata' Il Canton Ticino gode larga autonomia ed ha un territorio al 100% montano. Eppure si 'pensa' come un'area urbana e la tendenza è a dimenticare che le Alpi hanno bisogno di città ma che il  ruolo di queste ultime può rafforzarsi proprio in quanto città alpine leggi tutto

(23.06.16) Nuovi montanari che vengono da lontano un fenomeno ambivalente
 Apriamo con un lavoro su turismo alpino e immigrazione inviatoci da Andrea Membretti, sociologo del territorio, un dibattito su un tema tra i più sensibili: immigrazione neocomunitaria e extra-comunitaria nelle Terre alte leggi tutto

(09.09.13) Lasciateci almeno delle riserve indiane  Piuttosto che essere del tutto scacciati dalla wilderness lasciateci delle ZPS umane.  A lanciare la provocazione è l'associazione Alte Terre. Un'associazione di resistenza sociale montanara delle valli di Cuneo.  "Siamo noi montanari in via di estinzione , creiamo delle riserve indiane senza orsi e lupi per difendere la biodiversità culturale umana che rischia di sparire". leggi tutto
 
(05.09.13)  Per una politica delleTerre Alte
In vista dell'incontro a Coumboscuro di domenica 9 presentiamo gli atti del Convegno di Sondrio del giugno 2012 dal quale scaturitono 5 punti su cui impostare la futura azione politica. Un contributo alla documentazione del percorso sin qui seguito dal dibattito politico-culturale sulle Terre Alte leggi tutto

(03.09.13)  In difesa delle Terre Alte
Quest'anno Amamont organizza il suo evento annuale nelle valli Maira e Grana all'estremo occidente alpino, incontrando due associazioni che condividono il tema sociale. delle Terre Alte. Un'occasione per riprendere il filo di un percorso che si snoda nelle Alpi dai tempi dell Carta di Chivasso, che viene riproposto anche in forma transfrontaliera e che punta a un nuovo patto tra piano e monte leggi tutto

(20.08.13) La rinascita delle comunità locali una risposta strategica alla crisi
Il sociologo territorialista De La Pierre, attento ai temi della rinascita comunitaria e della progettualità locale autosostenibile, invidua nella profonda crisi presente, una straordinaria opportunità di rinascita comunitaria. De La Pierre rintraccia un filo comune in quanto sta avvenendo nei borghi già abbandonati dell'Appennino, in Brasile, nella Grecia che rinasce quando la crisi sembra disperata, in una inedita  Lombardia leggi tutto

(13.02.12) Le montagne si parlano
Un primo incontro a Sondrio sabato 18, un secondo a Edolo per dire che la montagna alpina lombarda si parla senza passare dalla pianura, che l'organizzaizone in provincie è superata. Incontri paralleli in programma in Piemonte e poi entro la primavera un grande convegno sui temi dell'autogoverno della montagna. Con il coraggio di guardare a prospettive radicalmente nuove. Con la voglia di fare smettendo di chiedere leggi tutto
 
(03.02.12) Montagna: crisi e recupero di autogoverno
Pubblichiamo gli interventi del Seminario di Milano del 10 dicembre su: "La Montagna di fronte alla crisi". Uno spunto per un dibattito aperto che vuole arrivare alla definizione di una "Carta per l'autogoverno della montagna" da presentare a Sondrio in un convegno da tenersi entro la primavera di quest'anno. Oltre a commentare ogni intervento online i lettori possono inviare loro contributi ai temi del dibattito aperto leggi tutto
 
(11.12.11) Milano. Parte una iniziativa politico-culturale per le Terre alte
Si è svolto ieri presso l'Associazione consiglieri (al Pirelli) un seminario coordinato da Robi Ronza su: "La montagna di fronte alla crisi!". Partito da una proposta di Quaderni Valtellinesi (Dario Benetti) e Ruralpini(Michele Corti) il seminario era stato preparato con un incontro cui hanno partecipato anche Ronza (Confronti), Mariano Allocco (Patto per le Alpi piemontesi) e Giancarlo Maculotti (Incontri TraMontani).  Ora si avvia una fase di serrata discussione e confronto (via internet) per arrivare a un Manifesto/Carta dell'autogoverno delle Terre alte e a un convegno a Sondrio, città al centro delle Alpi. Con lo scopo dichiarato di dare espressione politica (ma non c'entrano i partiti tradizionali) a quel fiume carsico dell'autonomia e libertà alpina che prese origine con la Carta di Chivasso ('44) e proseguì con quelle di Sondrio ('86) e di Coumboscuro ('87) e, più di recente ('06), con il Patto per le Alpi piemontesi. Con l'idea di passare dalle "Carte" all'azione.  leggi tutto
 
(28.05.11) Ricominciare dalla montagna?
Il titolo del saggio di Gianfranco Miglio (1978) è quanto mai attuale. Mai come oggi la montagna è a un bivio. Può ispirare al resto della società modelli utili a ripensare la gestione dello spazio, delle risorse, comprese quelle umane o può essere cancellata come realtà sociale. E ridotta ad un 'supporto fisico' colonizzato materialmente e simbolicamente dalla civiltà megapolitana. In vista di un 'ripensamento complessivo' della realtà della montagna è utile ripercorrere le tappe della presa di consapevolezza della realtà delle Terre alte. Una di queste è rappresentata indubbiamente dal convegno di Sondrio dell'aprile 1986 (foto) nel cui ambito venne redatta la 'Carta di Sondrio' che ripubblichiamo in vista di nuove iniziative. leggi tutto


(24.11.11) Materiali. Contributi al dibattito sulle Terre alte (Incontro di Pradleves)
La scorsa primavera si è svolto un incontro sulla "questione montana" a Pradleves, un comune della valle Grana. In collaborazione con Mariano Allocco, che figurava tra gli organizzatori dell'evento, pubblichiamo gli interventi più interessanti nel contesto dell'attuale dibattito "la montagna alpina nella crisi": quelli di Annibale Salsa, Werner Bëtzing e quello dello stesso Allocco. Nelle prossime settimane Ruralpini intensificherà la pubblicazione di contributi sul tema che possono essere proposti o segnalati anche dai nostri lettori. leggi tutto
 
(01.10.11) Montanari dissodatori di ieri, montanari di oggi, montanari futuribili
Giancarlo Maculotti è l'animatore degli Incontri Tra/Montani che la scorsa settimana a Carcoforo (alta Valsesia) sono giunti alla ventiduesima edizione. Le riflessioni che ci consegna a commento del convegno si inseriscono nel dibattito sulla 'chiusura della montagna' innescato dalla serpeggiante proposta di abolizione dei piccoli comuni. Vanno però al di là delle vicende istituzionali vissute in prima persona da Giancarlo in quanto sindaco di Cerveno, un paese di 700 abitanti nella media Valcamonica. Toccano i temi della 'montagna triste', dei giovani che non ci sono o che se ne vanno, della problematica venuta di 'nuovi montanari'. Un contributo disincantato e stimolante  al dibattito che Ruralpini ha aperto su: "La montagna nella crisi" leggi tutto

(27.09.11) La montagna dentro la crisi: verso la desertificazione o un recupero di autonomia e di identità?
I recenti dibattiti sulla chiusura dei piccoli comuni e sui ‘costi’ del mantenimento della popolazione montana impongono una reazione. Se la montagna fosse libera dall’oppressiva regolamentazione burocratica e dai vincoli che le impediscono di valorizzare le proprie risorse (umane, energetiche, faunistiche ecc. ) potrebbe fare a meno del tutto delle elemosina delle istituzioni ‘superiori’.  Riprendere autonomia, capacità di autogestione, identità è, per la montagna, la strada per evitare di divenire un deserto verde e per uscire rafforzata dalla crisi. Ruralpini lancia la proposta di un convegno su questi temi.  leggi tutto


(24.05.11) Meno stato più comunità nelle Terre alte
Dalle scuole parentali agli alberghi 'informali' delle 'donne di montagna', ai gruppi di consumo arrivano segnali della volontà delle terre alte alpine di voler tornare a gestirsi sulla base delle mai sopite tradizioni di gestione comunitaria. Lo stato, la burocratizzazione e istituzionalizzazione di ogni aspetto della vita economica e sociale, devono fare un passo indietro. E le terre alte diventeranno un modello vitale. leggi tutto

 



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