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Politiche

Le radici storiche e ideologiche
del beceroanimalismo

L'Italia le circostanze storico-sociali hanno prodotto una cultura fortemente antirurale lontana anche dalla dimensione naturale concreta. Nella realtà contemporanea su questo sfondo si è sviluppato un animalismo ben poco ecologico, molto ideologico che sconfina nel culto pagano e che reitera i cliché anticontadini  


di Michele Corti

(09.12.18) L'animalismo becero in Italia è ideologia diffusa, merce corrente. Media e politica (destra e sinistra senza distinzioni) la rilanciano, la vezzeggiano, creano dei casi. Basti pensare agli isterismi collettivi in occasione della morte dell'orsa Daniza.



Poi
ci sono le storie degli orsi  "pendolari" con la Slovenia.  Collarati da Forestale e Università , ansiosi di visibilità, di emulare il Trentino e di godere del prestigio che, il "magnifico animale", riverbera sugli adepti al suo culto (l'aspetto "scientifico" è un amenicolo  strumentale). Così, a ripetizione, hanno radiocollarato Bepi, Francesco, Mirtillo ed Elisio. L'ultimo orso di questa serie è stato sparato, del tutto legalmente, da un cacciatore sloveno alla fine di novembre. Il caso balza sulle prime pagine della stampa locale.
Il WWF parla di "tragedia" (perché, già che ci siamo non chiede il lutto regiopnale?) e invoca "misure transnazionali", tanto per cominciare imporre alla Slovenia una fascia di confine no hunting (cosa che la Slovenia,
paese piccolo ma orgoglioso non farà mai perché il grosso della popolazione ovina slovena si concentra a Nord-Ovest. L'on. Rizzetto (Fratelli d'Italia), lesto a non sfarsi sfuggire l'occasione, chiede una discussione parlamentare. Poco ci manca che venga chiesta la convocazione dell'ambasciatore e, intanto, con eroico sprezzo del ridicolo, i giornali parlano di  incidente diplomatico.
Non è finita. Si biasima la Slovenia perché i resti di un orso, nato e morto in territorio sloveno, non sono "restituiti" all'Italia. Perché? perché per farne un "eroe nazionale" cui dedicare una tomba e un monumento stile "milite ignoto"? Siamo al neuroanimalismo. Un orso diventa molto più importante di un umano qualsiasi. Siamo in troppi e nocivi sentenziano i beceroanimalisti che, però, auspicano che a togliere il disturbo siano gli altri; loro, il "popolo eletto" meritano di vivere.




In una società in cui lo spazio per la narrazione mitologica e eroicizzante era rimaste circoscritto ai divi del pallone e del rock (un po' poco...), l'ideologia della natura si è prestata in Italia a colmare la fame di idoli, di miti, di identificazione eroica.
Si potrebbe chiamare in causa anche il senso del sacro, del mistero, dell'uomo di fronte al cosmo. Un senso solo apparentemente annullato dai processi di secolarizzazione, di scristianizzazione, di affermazione - almeno a livello di superficie - di una cultura dominante di impronta scientifico-materialistico-razionale.
Non sfugge a nessuno che la secolarizzazione e l'affermazione di una cultura ufficiale improntata all'ortodossia scientista al razionalismo, al materialismo ha trovato surrogazione, in funzione del livello socio-culturale, in varie forme di spiritualità o di ricorso a pratiche magiche. Del resto per l'uomo comune la tecnologia è incomprensibile, una magia, esattamente come i più macroscopici fenomeni della natura erano per l'uomo primitivo espressione di potenze arcane, da spiegare con complesse mitologie in grado di fornire una qualche spiegazione. Nel mentre si parla di intelligenza artificiale, la stragrande maggioranza delle persone non ha la minima cognizione di quali siano i principi fisici sfruttati da oggetti di uso quotidiano.  Nel frattempo, vivendo nella bolla di tecnologia l'uomo  "postindustriale" ha perso la cognizione di molti fenomeni biologici e fisici che l'esperienza di generazioni aveva insegnato a conoscere in dettaglio. Ne deriva un forte disorientamento, un vuoto da colmare.

C'è un confuso aspirare a qualcosa che si elevi (almeno qualche spanna) dal livello del suolo consumistico e dei freddi meccanismi del mercato, c'è la percezione della necessità di recuperare la  sintonia con l'ecosfera. Le risposte offerte dall'ambientalismo sono però di tipo ideologico. spesso astratte, fanno riferimento a situazioni globali a complessi processi ecologici. L'animale in questo contesto in quanto oggetto concreto, fonte di emotività, diventa un totem, un portatore, sovraccaricato - a sua insaputa - di valenze simboliche.
Quando Daniele Zovi, al tempo delle stragi dell'orso "Dino" nella montagna veneta comandante del corpo forestale di Vicenza, dichiarava al Giornale di Vicenza che il suddetto orso: Non fa male agli uomini ed è una rivincita della natura, capace di affascinarci col suo mistero, non faceva altro che esprimere da una parte la sua partigianeria (in aperto contrasto con l'obiettività che dovrebbe, sulla carta, garantire il rispetto della legge da parte dei pubblici funzionari), dall'altra la contraddizioni dell'animal-ambientalismo che gioca sui due tavoli: quello della "necessità scientifica" (vedasi il topos del "vertice della catena alimentare" che non è altro che una trasposizione in linguaggio moderno del concetto di "re della foresta") e quello della "pancia", della sollecitazione delle proiezioni psicanalitiche, della sacralizzazione
della "natura" (compensativa della secolarizzazione).   
Orsi e lupi dall'inizio della storia umana si prestano a rappresentare valori, idee, aspirazioni, paure. È la loro ambivalenza che li rende simboli potenti: da una parte temuti (e a volte disprezzati), dall'altra assunti a modello guerriero, modello di forza indomabile solitaria (l'orso), di  coesione sociale e lealtà guerriera (lupo). Il rapporto di lunga data con l'uomo che, nel corso dell'evoluzione dell'umanità li ha visti come pericolosi predatori, poi come concorrenti nella caccia, poi come una minaccia per gli armenti. Simbolicamente , a fianco dell'aspetto "nobile" e "guerriero" sono valse anche altre identificazioni.  L'orso si è prestato a rappresentare la stupidità (per il modo a volte goffo in cui si muove, specie in posizione bipedale) o la torpidità (per via del letargo) ma, soprattutto, la lussuria (l'orsa in particolare, considerata sessualmente insaziabile).



Il lupo se da una parte rappresenza il coraggio e la disciplina guerriera dall'altra è stato anche utilizzato come simbolo di crudeltà e di furia. Animali intelligenti e capaci di adattarsi all'ambiente inevitabilmente sono identificabili con valori molto distanti tra loro.  Nell'adattamento l'uomo a volte legge un comportamento opportunista (persino vigliacco nel caso del lupo) ma sono le circostanze (prede disponibili, contatto più o meno facile con l'uomo, natura della copertura vegetale) a determinarne la plasticità etologica. L'ambiguità simbolica di orsi e lupi è parte del loro "fascino". Dietro le formule buoniste (la "biodiversità", l'equilibrio naturale), le immagini di lupetti e orsetti che giocano c'è l'attrazione inconfessabile per il predatore libero e crudele.


Con questa storia alle spalle è naturale che lupi ed orsi vengano ampiamente usati come grimaldelli, come arieti, cavalli di troia (e si potrebbe continuare) per affermare gli interessi e i progetti di una parte della società, nella fattispecie per completare il processo storico di espropriazione delle comunità rurali, di controllo del territorio da parte delle burospertocrazie e delle istituzioni urbane.  Un processo, si badi bene, iniziato già alla fine del primo millennio quando il bosco (in pianura) diventa materia di conflitto tra i poteri dell'epoca e le comunità (vasi di coccio) finiscono per perdere tutti i loro diritti. Già allora vengono messi in campo motivi "ecologici" e ideologici. Se le città comunali sono interessate al legname per le opere pubbliche e l'espansione urbana ai signori (quelli feudali sopravvissuti negli interstizi e ai magini del potere comunale e i nuovi signori che subentrano ai comuni cittadini) interessa il bosco quale "wilderness", ovvero quale riserva di caccia alle fiere (cinghiale, orso) e ai cervidi. Molto si è detto e scritto sulla caccia signorile quale "allenamento alla guerra" e rappresentazione del potere, sull'alimentazione a base di carne e selvaggina in contrapposizione alla dieta contadina e monacale. Andrebbe invece approfondito come (e perché) certi valori feudali siano stati in parte ereditati e riproposti dalla borghesia industriale come appare evidente nellas genesi e nello sviluppo dell'ideologia e della prassi ambientalista che nascono nell'Ottocento negli Stati Uniti e assumono subito il "National park" quale dimensione e proiezione idologica della loro azione politica. Il parco che ricostruisce una mitica "wilderness" e diventa l'inviolabile Santuario della natura. Un Santuario da difendere da contadini, pastori, "indigeni" quando il modello si espande nel mondo (assumendo in Africa le forme più spudorate del neocoplonialismo).



Da noi la continuità tra la cultura aristocratico-guerresco-venatoria e quella protezionista è evidente nella genesi delle stesse associazioni naturalistiche, della legislazione e degli stessi Parchi. Il Parco Nazionale del Gran Paradiso, sorto nel 1922, è l’erede della riserva di caccia sabauda istituita nel 1856 (previa sottrazione alle popolazioni di ogni diritto di caccia e la severa restrizione dei diritti di pesca e di pascolo). Lo stesso Parco Adamello-Brenta ha visto tra i suoi promotori un esponente della più antica nobiltà lombardo-veneta: il conte Gian Giacomo Gallarati Scotti dei principi di Molfetta, autore della legge di tutela dell’orso (1939) che aprì la strada all'istituzione del Parco nazionale dell'Abruzzo e promotore dell’Ordine di S. Romedio per la protezione dell’orso nel 1957.
Con facile sociologismo non si può non sottolineare a questo come, al di là di aspetti archetipici e psicoanalitici, l'identificazione con gli animalli "nobili", con il "re della foresta" rappresenti, in termini di proiezioni e auto-identificazioni, la compensazione della frustrazione piccolo-borghese di strati (impiegati e funzionari pubblici) di ceto medio in crisi. Questo vale sul piano socio-psicologico; su quello economico non dimentichiamoci che i Parchi, il lupo, l'orso oltre che a riverberare prestigio, portano molto concretamente posti a tempo indeterminato, incarichi professionali, cattedre, finanziamenti, possibilità di supportare i piccoli e meno piccoli centri di potere ambientalista.


Perché in Italia il beceroambientalismo trova "gioco facile"
?

Parchi, politiche "protezionistiche", lobby verdi e animaliste sono presenti in molti paesi. Quello che ci interessa chiarire è perché in Italia la forma  del "beceroambientalismo" rappresenti (insieme a quella dell'ecoaffarismo  alla Legambiente) quella di più facile presa popolare rispetto alle tante sfaccettature dell'ambiental-animalismo.
Sarebbe esercizio di superficialità attribuire tutto ciò a un carattere nazionale "emotivo", "superficiale", "opportunista". Un autoflagellarsi inutile e fuorviante, a meno che non si accettino le "lezioni"  del "mondo occidentale serio" (quello di matrice protestante-puritana, generatrice delle peggiori ipocrisie) che ci vorrebbero convincere che i "mali nazionali" sono eredità della cultura cattolica tutta caratterizzata dall'esteriorità, dalle "scappatoie" per ripulirsi l'anima, dalla delega clericale in luogo dell'impegno morale e spirituale individuale.



In altri paesi le ideologie "verdi" si sono saldate con sentimenti e valori tradizionali, diffusi a livello popolare. In Germania, non a caso, il movimento verde ha saputo esprimere una sua soggettività politica, una sua organicità, a differenza dell'Italia dove è sempre rimasto una costola delle sinistre (ex-marxiste o radicali). L'Italia è il paese più precocemente urbanizzato, che - nel medioevo - vede l'affermazione del dominio assoluto delle città sulle campagne (a differenza del resto dell'Europa). Il rapporto città-campagna (e, per ovvia conseguenza, anche tra naturale e "artificiale")  non dipende solo dal retaggio delle cento città e del loro (feroce) dominio coloniale sui "loro" contadi ma anche (forse soprattutto) sul paradosso che il paese della più radicata cultura urbana (e urbanocentrica) nel XIX, e ancora nella prima metà del XX secolo, era quello più decisamente rurale dell'Europa occidentale, quello dove l'élite borghese urbana, inserita nella realtà capitalistica, era la più sottile e dove i contadini erano i più numerosi. Ancora alla fine del XVIII sec. L’Encyclopédie, icona intellettuale progressista della sinistra "senza tempo", a proposito dei contadini, riferiva che: Molti scorgono scarsa differenza tra questa classe di uomini e gli animali usati per coltivare la terra (cit. da E.Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale 1870-1914, Il Mulino, Bologna, 1989, p.27). Parole che dovrebbero far riflettere chi non ha ancora compreso la natura sociale della sinistra.
Da metà Ottocento in poi, però,
da bestie gradualmente i paysanne diventarono francesi  mentre il bauer e la cultura popolare diventano in Germania elementi costitutivi dell'identità nazionale. In Italia no. In Italia il cafone restava una bestia da sfruttare. Imponeva questa ideologia la necessità di legittimare il potere precario di una esigua minoranza (il corpo elettorale era limitato al 2% della popolazione) che, oltretutto era in lotta aperta con la chiesa in un paese al 99% cattolico . Il contadino da bestia o , nel migliore dei casi, da "bambini" non poteva capire di politica; concedendogli il voto sarebbe stato "traviato" dal clero reazionario.  Così la "satira del villano" tardo medievale (che offriva il calco del contadino animalesco, sia pure furbo e malizioso) rimaneva alla base della rappresentazione ideologica non solo dell'Italia dei primi decenni dell'Ottocento che, attraverso le parole razziste dell'illuminato e progressista Melchiorre Gioia, dichiarava: Un solo colpo d’occhio ci fa vedere che tra uomini e uomini passa tanta diversità, quanta tra uomini ed animali. (M. Gioia, Saggio sui pregiudizi popolari, in Melchiorre Gioia, Opere minori, vol. I, Lugano, Ruggia, 1832, p. 231) ma anche di quella liberale della seconda metà del secolo.
La tragedia italiana, che continua ancor oggi a pesare sulla cultura e la vita sociale nazionali è che il pregiudizio antirurale restò in vita
sino al Novecento quando, altrove - da lungo tempo - il disprezzo per i contadini aveva lasciato il posto all'apprezzamento delle loro virtù.

Per escludere dal potere le masse rurali bisognava dipingerle come animalesche o, al più, come bambini incapaci di prendere decisioni ragionevoli. Preti e notabili provvedevano a farne i tutori. L'esigua componente borghese delle classi dominanti italiane (dove predomineranno a lungo, almeno numericamente, i proprietari fondiari) costringeva all'alleanza con settori della società che vivevano di rendita fondiaria.
A differenza dei gentlemen inglesi o dei signori di campagna francesi i grandi proprietari italiani non appartenevano però alla società rurale ma a quella delle capitali. Il caso macroscopico e aberrante di Napoli non deve far dimenticare che è al Centro-Nord, con l'affermarsi del comune che i signori rurali sono letteralmente costretti a trasferirsi entro le mura cittadine. Se, inizialmente, questo sradicamento, finalizzato ad acquisire da parte del comune un dominio assoluto sul contado di pertinenza (spesso corrispondente ad attuali provincie), avvenne con la forza, o con la minaccia di esproprio, poi si consolidò con laffermarsi di una duplice tassazione e di una duplice giurisdizione, sempre a favore di chi risiedeva entro le mura cittadine. Le conseguenze furono notevoli: il mondo rurale italiano è rimasto privo di uno strato sociale superiore, la vita rurale è stata percepita come una condizione di assoluta, pesante inferiorità tanto che a ogni minima elevazione nella scala sociale corrispondeva la fuga dalla condizione rurale, l'adozione di modi di vita (vestiario, arredamento, alimentazione). Scheuermeier, negli anni Venti del secolo scorso, notava che

La scomparsa della tradizione contadina locale è stata probabilmente accelerata anche dalla scarsa stima che esiste generalmente in Italia nei confronti del contadino: da molti il contadino viene considerato e trattato come un inferiore, ed egli stesso solo raramente si definisce con orgoglio contadino.

Lo studioso svizzero, proviente da un mondo, quello di lingua tedesca, dove il bauer era orgoglioso di esserlo, notava che, con poche eccezioni, i contadini italiani, appena potevano, cercavano di nascondere la loro identità, così il giorno di festa cercavano di vestirsi alla cittadina. Era vero, ancora nel Novecento, per il contadino italiano ciò che valeva per quello francese prima della trasformazione culturale della metà dell'Ottocento. Il già citato Eugene Weber ha osservato infatti che:

... il contadino si vergognava di essere tale; si vergognava di essere incivile e conveniva con i suoi giudici nell’ammettere che a lui mancava qualcosa di prezioso e di altamente superiore, ossia conveniva che la civiltà francese, e in particolare tutto ciò che veniva da Parigi, fosse evidentemente qualcosa di superiore e, quindi, di apertamente desiderabile.

In Italia
questa condizione si è protratta sino all'amalgama culturale postsessantottesco e dell'urbanizzazione diffusa, che ha trasferito anche nelle aree ex rurali modelli urbani.  Ma secoli di cultura dominante urbanocentrica pesano nel profondo culturale. Pesa il differenziale tra la realtà italiana e le altre europee. Nel mentre la società si nazionalizzava, si industrializzava altrove cadeva il vecchio stigma anticontadino, in Italia no. Si è trasferito nella cultura italiana moderna.




Vi è anche un altro fenomeno culturale che ha pesato fortemente sulla realtà italiana. Già si è ricordato che la borghesia "moderna", inserita nei processi capitalistici era assolutamente minoritaria e che, ancora alla fine dell'Ottocento, doveva basarsi per dominare la società sull'alleanza con i proprietari fondiari, in larga misura assenteisti, poco interessati alla gestione delle proprietà che demandavano volentieri a degli intermediari. Si interessavano delle campagne se potevano erigere "ville di delizie" dove riproporre lo sfarzo e la raffinatezza delle dimore cittadine e ricostruire una natura "abbellita" di forme geometrie, riferimenti mitologici. Anche se, almeno nel caso lombardo, questa classe non disdegnava alleanze famigliari con la borghesia e gli investimenti produttivi, la sua influenza comportò per lungo tempo la svalutazione della cultura tecnica, delle arti "meccaniche", delle scienze fisiche e biologiche considerati interessi poco consoni ai gentiluomini.

L'egemonia di questa cultura aristocratica improntata ai miti della classicità, delle belle lettere, del "bello perché costoso ed inutile", condizionata dai riflessi di una civiltà rinascimentale espressione di una grandezza perduta,  era tale che anche la borghesia, appena possibile, cercava di imitarla, di dedicarsi alla cultura classica, alla letteratura, all'eruditismo. Alla fine del Settecento le scienze vennero accolte come cenerentola nei cenacoli aristocratici, nelle Società di arti, lettere e ... scienze e, per un certo periodo, qualche nobiluomo stimò snob occuparsi di agronomia (anche se le rare osservazioni pratiche erano annegate nelle citazioni dei classici agronomici latini).  Due personaggi del calibro di Carlo Cattaneo e di Stefano Jacini che, anche nella loro stessa Lombardia erano un po' dei profeti che proclamavano nel deserto, deprecavano che i figli della borghesia rurale studiassero (male) il latino al ginnasio per poi abbandonare gli studi senza aver ricevuto i rudimenti di una cultura tecnica e scientifica (Jacini da ragazzo aveva studiato in Svizzera in una scuola agraria all'avanguardia in Europa). Come è noto questi temi si sono riproposti costantemente nella cultura italiana, attraverso le riforme scolastiche e nel dibattito pubblico.



L'impatto della cultura ambientalista in Italia non poteva non essere inflenzato da questo retroterra, la predisposizione per l'ideologismo e per la concettualizzazione astratta, la scarsa diffusione della cultura agronomica e biologica, la distanza siderale che ha contraddistinto la cultura "elevata" dall'esperienza concreta, specie della popolazione rurale, lo snobismo aristocratico ereditato dalle vecchie classi proprietarie, hanno prodotto esiti nefasti. Il contadino, il pastore, l'allevatore è sempre stato considerato con diffidenza dagli animal-ambientalisti che, nella veste di guardie ecologiche e zoofile volontarie provano grande soddisfazione a sanzionare per minime violazioni abusando di divise, lampeggianti, armi e manette e giocando sull'altro piano del rapporto di superiorità sociale: quello dell'autorità e del suddito.

Con l'aggravarsi del conflitto innescato dalla diffusione dei grandi predatori la diffidenza è diventata contrapposizione e disprezzo. Sintomatica la riesumazione di un lessico desueto ("villici"), nell'ambito di comunicati zeppi di insulti, da parte degli animalisti saliti in Trentino a protestare per l'orsa Daniza. Sintomatica di una posizione ideologica che non trova corrispondenza in nessun altro paese europeo, la persistente criminalizzazione da parte di tutto il mondo ambiental-animalista (non solo delle componenti più estremiste) dell'attività venatoria, tanto più indispensabile quanto più diverse specie di fauna problematica stanno proliferando.



Mentre in Germania contadini e cacciatori dialogano con il movimento ecologista,  in nome di una cultura ecologica popolare comune che integra la cultura e l'esperienza tradizionale con la conoscenza scientifica, in Italia l'ambientalismo rappresenta la prosecuzione della guerra di sottomissione della città contro la campagna, l'imposizione di vincoli concreti, di un controllo burocratico asfissiante. Esso si impone con arroganza attraverso "piani" stesi a tavolino da esperti universitari chiusi nelle torri del loro specialismo autoreferenziale, incapaci di ragionare oltre i loro numeri, le loro assunzioni, incapaci di assumere le variabili socio-culturali, di considerare che altre istanze, oltre a quelle da loro sostenute, hanno diritto di essere considerate in una società che si presume democratica, che l'orso e il lupo non possono essere variabili indipendenti.

Bisogna proprio ricorrere alla storia della cultura, ai precedenti del conflitto città-campagna, ai precedenti della cultura italiana, per farsi una ragione della scarsa o nulla considerazione con la quale vengono tenuti il lavoro del pastore, la sua fatica fisica, la sua ansia di fronte al reiterarsi delle predazioni. Per i nuovi signori feudali che pretendono di signoreggiare il territorio dalle sedi dei parchi e delle università contadini e pastori sono un "disturbo antropico" che va eliminato.



Non solo i fautori dei grandi predatori non si rammaricano delle perdite di animali domestici, delle sofferenze di uomini e animali ma ne traggono, con soddisfazione, l'auspicio che, alpeggio dopo alpeggio la montagna sarà riconsegnata alla loro mitica wilderness (che non può esistere perché buona parte delle specie animali e vegetali presenti oggi sono in qualche modo relazionate a influssi antropici recenti o remoti), ovvero ai loro orsi e lupi e, in definitiva, a loro stessi. Non è difficile non vedere come il precedente dell'odio animalista per i pastori e gli allevatori, la negazione della loro stessa umanità, traggono le loro radici dalla "satira del villano" dall'ideologia cittadina che qualificava i contadini tra le bestie.
 Lo stesso impegno viene dedicato alla demagogica campagna contro il consumo della carne d'agnello a Pasqua, campagna che riceve molti appoggi da un sistema economico ben contento di dirottare contro i  pastori (vaso di coccio) le accuse ecologiche e sull'etica animale a carico dell'allevamentrro industriale.

Un tempo il contadino sorpreso a cacciare nelle riserve feudali veniva impiccato dai forestali (che nascono come sgherri). Mutatis mutandis le cose non sono cambiate: il pastore, il contadino e i suoi animali, che condividono la proiezione sociale della sua inferiorità sociale e culturale, sono di serie B, il lupo e l'orso e i loro manovratori e protettori , che condividono la superiorità "essenzialista", ontologica (visto che sul piano biologico ed etico è impossibile reclamare la superiorità di una specie animale sull'altra), sono di serie B, super animali e super uomini .

Quanto qui esposto vuole valere da spunto per una riflessione che consenta di capire l'intreccio ideologico, psicologico, culturale che ha determinato l' affermazione in Italia di uno status di protezione assoluta ("a prescindere") dei grandi predatori che non ha riscontro in nessun altro paese al mondo, che ha sinora impedito di reagire in modo risolutivo ed efficace all'aggressione pianificata alle comunità di montagna  portata avanti con i grandi predatori, che vede la reazione a questa aggressione ancora frammentata e poco organizzata a differenza di quanto avviene in Francia e in Svizzera.


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