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Politiche
Le radici storiche e ideologiche
del beceroanimalismo
L'Italia
le circostanze storico-sociali hanno prodotto una cultura fortemente
antirurale lontana anche dalla dimensione naturale concreta. Nella
realtà contemporanea su questo sfondo si è sviluppato un animalismo ben
poco ecologico, molto ideologico che sconfina nel culto pagano e che
reitera i cliché anticontadini
di Michele Corti
(09.12.18) L'animalismo becero in Italia è
ideologia diffusa, merce corrente.
Media e politica (destra e sinistra senza distinzioni) la rilanciano,
la vezzeggiano, creano dei casi. Basti pensare agli isterismi
collettivi in occasione della morte dell'orsa Daniza.
Poi ci sono
le storie degli
orsi "pendolari" con la Slovenia. Collarati da Forestale e
Università , ansiosi di visibilità, di emulare il Trentino e di godere
del prestigio che, il "magnifico animale", riverbera sugli adepti al
suo
culto (l'aspetto "scientifico" è un amenicolo strumentale). Così,
a ripetizione, hanno radiocollarato Bepi, Francesco, Mirtillo ed
Elisio. L'ultimo orso
di questa serie è stato sparato, del tutto legalmente, da un cacciatore
sloveno alla fine di novembre. Il caso balza sulle prime pagine della
stampa locale.
Il WWF
parla di "tragedia" (perché, già che ci siamo non chiede il lutto regiopnale?) e invoca "misure transnazionali", tanto per
cominciare imporre alla Slovenia una
fascia di confine no hunting (cosa che la Slovenia, paese piccolo ma orgoglioso non farà mai perché il grosso della popolazione ovina slovena si concentra a Nord-Ovest. L'on. Rizzetto
(Fratelli d'Italia), lesto a non sfarsi sfuggire l'occasione, chiede una discussione parlamentare. Poco ci manca
che venga chiesta la convocazione dell'ambasciatore e, intanto, con eroico sprezzo del ridicolo, i
giornali parlano di incidente diplomatico.
Non è finita. Si biasima la Slovenia perché i resti di un orso,
nato e morto in territorio sloveno, non sono "restituiti" all'Italia.
Perché? perché per farne un "eroe nazionale" cui dedicare una tomba
e un monumento stile "milite ignoto"? Siamo al neuroanimalismo. Un orso diventa molto più
importante di un umano qualsiasi. Siamo in troppi e nocivi sentenziano
i beceroanimalisti che, però, auspicano che a togliere il disturbo
siano gli altri; loro, il "popolo eletto" meritano di vivere.
In una società in cui lo spazio per la narrazione mitologica e
eroicizzante era rimaste circoscritto ai divi del pallone e del rock
(un po' poco...), l'ideologia della natura si è prestata in Italia a
colmare la fame di idoli, di miti, di identificazione eroica. Si potrebbe chiamare in causa
anche il senso del sacro, del mistero, dell'uomo di fronte al cosmo. Un
senso solo apparentemente annullato dai processi di
secolarizzazione, di scristianizzazione, di affermazione - almeno a
livello di superficie - di una cultura dominante di impronta
scientifico-materialistico-razionale.
Non sfugge a nessuno che la secolarizzazione e l'affermazione di una
cultura ufficiale improntata all'ortodossia scientista al razionalismo,
al materialismo ha trovato surrogazione, in funzione del livello
socio-culturale, in varie forme di spiritualità o di ricorso a pratiche
magiche. Del resto per l'uomo comune la tecnologia è incomprensibile,
una magia, esattamente come i più macroscopici fenomeni della natura
erano per l'uomo primitivo espressione di potenze arcane, da spiegare
con complesse mitologie in grado di fornire una qualche spiegazione.
Nel mentre si parla di intelligenza artificiale, la stragrande
maggioranza delle persone non ha la minima cognizione di quali siano i
principi fisici sfruttati da oggetti di uso quotidiano. Nel
frattempo, vivendo nella bolla di tecnologia l'uomo
"postindustriale" ha perso la cognizione di molti fenomeni biologici e
fisici che l'esperienza di generazioni aveva insegnato a conoscere in
dettaglio. Ne deriva un forte disorientamento, un vuoto da colmare.
C'è un confuso
aspirare a qualcosa che si elevi (almeno qualche spanna) dal livello
del suolo consumistico e dei freddi meccanismi del mercato, c'è la
percezione della necessità di recuperare la sintonia con
l'ecosfera. Le risposte offerte dall'ambientalismo sono però di tipo
ideologico. spesso astratte, fanno riferimento a situazioni globali a
complessi processi ecologici. L'animale in questo contesto in
quanto oggetto concreto, fonte di emotività, diventa un totem, un portatore,
sovraccaricato - a sua insaputa - di valenze simboliche.
Quando Daniele Zovi, al tempo delle stragi dell'orso "Dino" nella
montagna veneta comandante del corpo forestale di Vicenza, dichiarava
al Giornale di Vicenza che il suddetto orso: Non fa male agli uomini ed è
una rivincita della natura, capace di affascinarci col suo mistero,
non faceva altro che esprimere da una parte la sua partigianeria (in
aperto contrasto con l'obiettività che dovrebbe, sulla carta, garantire
il rispetto della legge da parte dei pubblici funzionari), dall'altra
la contraddizioni dell'animal-ambientalismo che gioca sui due tavoli:
quello della "necessità scientifica" (vedasi il topos del "vertice
della catena alimentare" che non è altro che una trasposizione in
linguaggio moderno del concetto di "re della foresta") e quello della
"pancia", della sollecitazione delle proiezioni psicanalitiche, della
sacralizzazione della
"natura" (compensativa
della secolarizzazione).
Orsi
e lupi dall'inizio della storia umana si prestano a rappresentare
valori, idee, aspirazioni, paure. È la loro ambivalenza che li rende
simboli potenti: da una parte temuti (e a volte disprezzati),
dall'altra assunti a modello guerriero, modello di forza indomabile
solitaria (l'orso), di coesione sociale e lealtà guerriera
(lupo). Il rapporto di lunga data con l'uomo che, nel corso
dell'evoluzione dell'umanità li ha visti come pericolosi predatori, poi
come concorrenti nella caccia, poi come una minaccia per gli armenti.
Simbolicamente , a fianco dell'aspetto "nobile" e "guerriero" sono
valse anche altre identificazioni. L'orso si è prestato a
rappresentare la stupidità (per il modo a volte goffo in cui si muove,
specie in posizione bipedale) o la torpidità (per via del letargo) ma,
soprattutto, la lussuria (l'orsa in particolare, considerata
sessualmente insaziabile).
Il lupo se da una parte rappresenza il
coraggio e la disciplina guerriera dall'altra è stato anche utilizzato
come simbolo di crudeltà e di furia. Animali intelligenti e capaci di
adattarsi
all'ambiente inevitabilmente sono identificabili con valori molto
distanti tra loro. Nell'adattamento l'uomo a volte legge un
comportamento opportunista (persino vigliacco nel caso del lupo) ma
sono le circostanze (prede disponibili, contatto più o meno facile con
l'uomo, natura della copertura vegetale) a determinarne la plasticità
etologica. L'ambiguità simbolica di orsi e lupi è parte del loro
"fascino". Dietro le formule buoniste (la "biodiversità", l'equilibrio
naturale), le immagini di lupetti e orsetti che giocano c'è
l'attrazione inconfessabile per il predatore libero e crudele.
Con questa storia
alle spalle è naturale che lupi ed orsi vengano ampiamente usati come
grimaldelli, come arieti, cavalli di troia (e si potrebbe continuare)
per affermare gli interessi e i progetti di una parte della società,
nella fattispecie per completare il processo storico di espropriazione
delle comunità rurali, di controllo del territorio da parte delle
burospertocrazie e delle istituzioni urbane. Un processo, si badi
bene, iniziato già alla fine del primo millennio quando il bosco (in
pianura) diventa materia di conflitto tra i poteri dell'epoca e le
comunità (vasi di coccio) finiscono per perdere tutti i loro diritti.
Già allora vengono messi in campo motivi "ecologici" e ideologici. Se
le città comunali sono interessate al legname per le opere pubbliche e
l'espansione urbana ai signori (quelli feudali sopravvissuti negli
interstizi e ai magini del potere comunale e i nuovi signori che
subentrano ai comuni cittadini) interessa il bosco quale "wilderness",
ovvero quale riserva di caccia alle fiere (cinghiale, orso) e ai
cervidi. Molto si è detto e scritto sulla caccia signorile quale
"allenamento alla guerra" e rappresentazione del potere,
sull'alimentazione a base di carne e selvaggina in contrapposizione
alla dieta contadina e monacale. Andrebbe invece approfondito come (e
perché) certi valori feudali siano stati in parte ereditati e
riproposti dalla borghesia industriale come appare evidente nellas
genesi e nello sviluppo dell'ideologia e della prassi ambientalista che
nascono nell'Ottocento negli Stati Uniti e assumono subito il "National
park" quale dimensione e proiezione idologica della loro azione
politica. Il parco che ricostruisce una mitica "wilderness" e diventa
l'inviolabile Santuario della natura.
Un Santuario da difendere da
contadini, pastori, "indigeni" quando il modello si espande nel mondo
(assumendo in Africa le forme più spudorate del neocoplonialismo).
Da noi la continuità tra la cultura aristocratico-guerresco-venatoria e
quella
protezionista è evidente nella genesi delle stesse associazioni
naturalistiche, della legislazione e degli
stessi Parchi. Il Parco Nazionale del Gran Paradiso, sorto nel 1922, è
l’erede della riserva di caccia
sabauda istituita nel 1856 (previa sottrazione alle popolazioni di ogni
diritto di caccia e la severa
restrizione dei diritti di pesca e di pascolo). Lo stesso Parco
Adamello-Brenta ha visto tra i suoi
promotori un esponente della più antica nobiltà lombardo-veneta: il
conte Gian Giacomo Gallarati
Scotti dei principi di Molfetta, autore della legge di tutela dell’orso
(1939) che aprì la strada all'istituzione del Parco nazionale
dell'Abruzzo e promotore dell’Ordine di
S. Romedio per la protezione dell’orso nel 1957.
Con facile sociologismo non si può non sottolineare a questo come, al
di là di aspetti archetipici e psicoanalitici, l'identificazione con
gli animalli "nobili", con il "re della foresta" rappresenti, in
termini di proiezioni e auto-identificazioni, la compensazione della
frustrazione piccolo-borghese di strati (impiegati e funzionari
pubblici) di ceto medio in crisi. Questo vale sul piano
socio-psicologico; su quello economico non dimentichiamoci che i
Parchi, il lupo, l'orso oltre che a riverberare prestigio, portano
molto concretamente posti a tempo indeterminato, incarichi
professionali, cattedre, finanziamenti, possibilità di supportare i
piccoli e meno piccoli centri di potere ambientalista.
Perché in Italia il beceroambientalismo trova "gioco facile"?
Parchi, politiche "protezionistiche", lobby verdi e animaliste sono
presenti in molti paesi. Quello che ci interessa chiarire è perché in
Italia la forma del "beceroambientalismo" rappresenti (insieme a
quella dell'ecoaffarismo alla Legambiente) quella di più facile
presa popolare rispetto alle tante sfaccettature
dell'ambiental-animalismo.
Sarebbe esercizio di superficialità attribuire tutto ciò a un carattere
nazionale "emotivo", "superficiale", "opportunista". Un autoflagellarsi
inutile e fuorviante, a meno che non si accettino le "lezioni"
del "mondo occidentale serio" (quello di matrice protestante-puritana,
generatrice delle peggiori ipocrisie) che ci vorrebbero convincere che
i "mali nazionali" sono eredità della cultura cattolica tutta
caratterizzata dall'esteriorità, dalle "scappatoie" per ripulirsi
l'anima, dalla delega clericale in luogo dell'impegno morale e
spirituale individuale.
In altri
paesi le ideologie "verdi" si sono saldate con sentimenti e valori
tradizionali, diffusi a livello popolare. In Germania, non a caso, il
movimento verde ha saputo esprimere una sua soggettività politica, una
sua organicità, a differenza dell'Italia dove è sempre rimasto una
costola delle sinistre (ex-marxiste o radicali). L'Italia è il paese
più precocemente urbanizzato, che - nel medioevo - vede l'affermazione
del dominio assoluto delle città sulle campagne (a differenza del resto
dell'Europa). Il rapporto città-campagna (e, per ovvia conseguenza,
anche tra naturale e "artificiale") non dipende solo dal retaggio
delle cento città e del loro (feroce) dominio coloniale sui "loro"
contadi ma anche (forse soprattutto) sul paradosso che il paese della
più radicata cultura urbana (e urbanocentrica) nel XIX, e ancora nella
prima metà del XX secolo, era quello più decisamente rurale dell'Europa
occidentale, quello dove l'élite borghese urbana, inserita nella realtà
capitalistica, era la più sottile e dove i contadini erano i più
numerosi. Ancora alla fine del XVIII sec. L’Encyclopédie, icona intellettuale progressista della sinistra "senza tempo", a proposito dei
contadini, riferiva che: Molti scorgono scarsa differenza tra questa
classe di uomini e gli animali usati per coltivare la terra (cit. da
E.Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia
rurale
1870-1914, Il Mulino, Bologna, 1989, p.27). Parole che dovrebbero far
riflettere chi non ha ancora compreso la natura sociale della sinistra.
Da metà Ottocento in poi, però, da bestie gradualmente i paysanne
diventarono francesi mentre il bauer e la cultura
popolare diventano in Germania elementi costitutivi dell'identità
nazionale. In Italia no. In Italia il cafone restava una bestia da
sfruttare. Imponeva questa ideologia la necessità di legittimare il
potere precario di una esigua
minoranza (il corpo elettorale era limitato al 2% della popolazione)
che, oltretutto era in lotta aperta con la chiesa in un paese al 99%
cattolico . Il contadino da bestia o , nel migliore dei casi, da
"bambini" non poteva capire di politica; concedendogli il voto sarebbe
stato "traviato" dal clero reazionario. Così la "satira del
villano" tardo
medievale (che offriva il calco del contadino animalesco, sia pure
furbo
e malizioso) rimaneva alla base della rappresentazione ideologica non
solo dell'Italia dei primi decenni dell'Ottocento che, attraverso le
parole razziste dell'illuminato e progressista Melchiorre Gioia,
dichiarava: Un solo colpo d’occhio ci fa
vedere che tra uomini e uomini passa tanta diversità, quanta tra uomini
ed animali. (M. Gioia, Saggio sui pregiudizi popolari, in Melchiorre
Gioia, Opere minori, vol. I, Lugano, Ruggia, 1832, p. 231) ma anche di quella liberale della seconda metà del secolo.
La tragedia italiana, che continua ancor oggi a pesare sulla cultura e
la vita sociale nazionali è che il pregiudizio antirurale restò in vita
sino al Novecento quando, altrove - da lungo tempo - il disprezzo per i
contadini aveva lasciato il posto all'apprezzamento delle loro virtù.
Per escludere dal potere le masse
rurali bisognava dipingerle come animalesche o, al più, come bambini
incapaci di prendere decisioni ragionevoli. Preti e notabili
provvedevano a farne i tutori. L'esigua componente borghese delle
classi dominanti italiane (dove predomineranno a lungo, almeno
numericamente, i proprietari fondiari) costringeva all'alleanza con
settori della società che vivevano di rendita fondiaria.
A differenza dei gentlemen inglesi o dei signori di campagna francesi i
grandi proprietari italiani non appartenevano però alla società rurale
ma a quella delle capitali. Il caso macroscopico e aberrante di Napoli
non deve far dimenticare che è al Centro-Nord, con l'affermarsi del
comune che i signori rurali sono letteralmente costretti a trasferirsi
entro le mura cittadine. Se, inizialmente, questo sradicamento,
finalizzato ad acquisire da parte del comune un dominio assoluto sul
contado di pertinenza (spesso corrispondente ad attuali provincie),
avvenne con la forza, o con la minaccia di esproprio, poi si consolidò
con laffermarsi di una duplice tassazione e di una duplice
giurisdizione, sempre a favore di chi risiedeva entro le mura
cittadine. Le conseguenze furono notevoli: il mondo rurale italiano è
rimasto privo di uno strato sociale superiore, la vita rurale è stata
percepita come una condizione di assoluta, pesante inferiorità tanto
che a ogni minima elevazione nella scala sociale corrispondeva la fuga
dalla condizione rurale, l'adozione di modi di vita (vestiario,
arredamento, alimentazione). Scheuermeier, negli anni Venti del secolo
scorso, notava che
La scomparsa della
tradizione contadina locale è stata probabilmente accelerata anche
dalla scarsa stima che esiste generalmente in Italia nei confronti del
contadino: da molti il contadino viene considerato e trattato come un
inferiore, ed egli stesso solo raramente si definisce con orgoglio
contadino.
Lo studioso svizzero, proviente da un mondo, quello di lingua tedesca,
dove il bauer era orgoglioso di esserlo, notava che, con poche
eccezioni, i contadini italiani, appena potevano, cercavano di
nascondere la loro identità, così il giorno di festa cercavano di
vestirsi alla cittadina. Era vero, ancora nel Novecento, per il
contadino italiano ciò che valeva per quello francese prima della
trasformazione culturale della metà dell'Ottocento. Il già citato
Eugene Weber ha osservato infatti che:
... il contadino si
vergognava di essere tale; si vergognava di essere incivile e conveniva
con i suoi giudici nell’ammettere che a lui mancava qualcosa di
prezioso e di altamente superiore, ossia conveniva che la civiltà
francese, e in particolare tutto ciò che veniva da Parigi, fosse
evidentemente qualcosa di superiore e, quindi, di apertamente
desiderabile.
In Italia questa condizione si è protratta
sino all'amalgama culturale postsessantottesco e dell'urbanizzazione
diffusa, che ha trasferito anche nelle aree ex rurali modelli
urbani. Ma secoli di cultura dominante urbanocentrica pesano nel
profondo culturale. Pesa il differenziale tra la realtà italiana e le
altre europee. Nel mentre la società si nazionalizzava, si
industrializzava altrove cadeva il vecchio stigma anticontadino, in
Italia no. Si è trasferito nella cultura italiana moderna.
Vi è anche un altro fenomeno culturale che ha pesato fortemente sulla
realtà italiana. Già si è ricordato che la borghesia "moderna",
inserita nei processi capitalistici era assolutamente minoritaria e
che, ancora alla fine dell'Ottocento, doveva basarsi per dominare la
società sull'alleanza con i proprietari fondiari, in larga misura
assenteisti, poco interessati alla gestione delle proprietà che
demandavano volentieri a degli intermediari. Si interessavano delle
campagne se potevano erigere "ville di delizie" dove riproporre lo
sfarzo e la raffinatezza delle dimore cittadine e ricostruire una
natura "abbellita" di forme geometrie, riferimenti mitologici. Anche
se, almeno nel caso lombardo, questa classe non disdegnava alleanze
famigliari con la borghesia e gli investimenti produttivi, la sua
influenza comportò per lungo tempo la svalutazione della cultura
tecnica, delle arti "meccaniche", delle scienze fisiche e biologiche
considerati interessi poco consoni ai gentiluomini.
L'egemonia di questa cultura aristocratica improntata ai miti della
classicità, delle belle lettere, del "bello perché costoso ed inutile",
condizionata dai riflessi di una civiltà rinascimentale espressione di
una grandezza perduta, era tale che anche la borghesia, appena
possibile, cercava di imitarla, di dedicarsi alla cultura classica,
alla letteratura, all'eruditismo. Alla fine del Settecento le scienze
vennero accolte come cenerentola nei cenacoli aristocratici, nelle Società di arti, lettere e ... scienze
e, per un certo periodo, qualche nobiluomo stimò snob occuparsi di
agronomia (anche se le rare osservazioni pratiche erano annegate nelle
citazioni dei classici agronomici latini). Due personaggi del
calibro di Carlo Cattaneo e di Stefano Jacini che, anche nella loro
stessa Lombardia erano un po' dei profeti che proclamavano nel deserto,
deprecavano che i figli della borghesia rurale studiassero (male) il
latino al ginnasio per poi abbandonare gli studi senza aver ricevuto i
rudimenti di una cultura tecnica e scientifica (Jacini da ragazzo aveva
studiato in Svizzera in una scuola agraria all'avanguardia in Europa).
Come è noto questi temi si sono riproposti costantemente nella cultura
italiana, attraverso le riforme scolastiche e nel dibattito pubblico.
L'impatto della cultura ambientalista in Italia non poteva non essere
inflenzato da questo retroterra, la predisposizione per l'ideologismo e
per la concettualizzazione astratta, la scarsa diffusione della cultura
agronomica e biologica, la distanza siderale che ha contraddistinto la
cultura "elevata" dall'esperienza concreta, specie della popolazione
rurale, lo snobismo aristocratico ereditato dalle vecchie classi
proprietarie, hanno prodotto esiti nefasti. Il contadino, il pastore,
l'allevatore è sempre stato considerato con diffidenza dagli
animal-ambientalisti che, nella veste di guardie ecologiche e zoofile
volontarie provano grande soddisfazione a sanzionare per minime
violazioni abusando di divise, lampeggianti, armi e manette e giocando
sull'altro piano del rapporto di superiorità sociale: quello
dell'autorità e del suddito.
Con l'aggravarsi del conflitto innescato dalla diffusione dei grandi
predatori la diffidenza è diventata contrapposizione e disprezzo.
Sintomatica la riesumazione di un lessico desueto ("villici"),
nell'ambito di comunicati zeppi di insulti, da parte degli animalisti
saliti in Trentino a protestare per l'orsa Daniza. Sintomatica di una posizione
ideologica che non trova corrispondenza in nessun altro paese europeo,
la persistente criminalizzazione da parte di tutto il mondo
ambiental-animalista (non solo delle componenti più estremiste)
dell'attività venatoria, tanto più indispensabile quanto più diverse
specie di fauna problematica stanno proliferando.
Mentre in Germania contadini e cacciatori dialogano con il movimento
ecologista, in nome di una cultura ecologica popolare comune che
integra la cultura e l'esperienza tradizionale con la conoscenza
scientifica, in Italia l'ambientalismo rappresenta la prosecuzione
della guerra di sottomissione della città contro la campagna,
l'imposizione di vincoli concreti, di un controllo burocratico
asfissiante. Esso si impone con arroganza attraverso "piani" stesi a
tavolino da esperti universitari chiusi nelle torri del loro
specialismo autoreferenziale, incapaci di ragionare oltre i loro
numeri, le loro assunzioni, incapaci di assumere le variabili
socio-culturali, di considerare che altre istanze, oltre a quelle da
loro sostenute, hanno diritto di essere considerate in una società che
si presume democratica, che l'orso e il lupo non possono essere
variabili indipendenti.
Bisogna proprio ricorrere alla storia della cultura, ai precedenti del
conflitto città-campagna, ai precedenti della cultura italiana, per
farsi una ragione della scarsa o nulla considerazione con la quale
vengono tenuti il lavoro del pastore, la sua fatica fisica, la sua
ansia di fronte al reiterarsi delle predazioni. Per i nuovi signori
feudali che pretendono di signoreggiare il territorio dalle sedi dei
parchi e delle università contadini e pastori sono un "disturbo
antropico" che va eliminato.
Non
solo i fautori dei grandi predatori non si rammaricano delle
perdite di animali domestici, delle sofferenze di uomini e animali ma
ne traggono, con soddisfazione, l'auspicio che, alpeggio dopo alpeggio
la montagna sarà riconsegnata alla loro mitica wilderness (che non può
esistere perché buona parte delle specie animali e vegetali presenti
oggi sono in qualche modo relazionate a influssi antropici recenti o
remoti), ovvero ai loro orsi e lupi e, in definitiva, a loro stessi.
Non è difficile non vedere come il precedente dell'odio animalista per
i pastori e gli allevatori, la negazione della loro stessa umanità,
traggono le loro radici dalla "satira del villano" dall'ideologia
cittadina che qualificava i contadini tra le bestie.
Lo
stesso impegno viene dedicato alla demagogica campagna contro il
consumo della carne d'agnello a Pasqua, campagna che riceve molti
appoggi
da un sistema economico ben contento di dirottare contro i
pastori (vaso di coccio) le accuse ecologiche e sull'etica animale a
carico dell'allevamentrro industriale.
Un
tempo il contadino sorpreso a cacciare nelle riserve feudali veniva
impiccato dai forestali (che nascono come sgherri). Mutatis mutandis le
cose non sono cambiate: il pastore, il contadino e i suoi animali, che
condividono la proiezione sociale della sua inferiorità sociale e
culturale, sono di serie B, il lupo e l'orso e i loro manovratori e
protettori , che condividono la superiorità "essenzialista", ontologica
(visto che sul piano biologico ed etico è impossibile reclamare la
superiorità di una specie animale sull'altra), sono di serie B, super
animali e super uomini .
Quanto qui esposto vuole valere da spunto per una riflessione che
consenta di capire l'intreccio ideologico, psicologico, culturale che
ha determinato l' affermazione in Italia di uno status di protezione assoluta ("a prescindere")
dei grandi predatori che non ha riscontro in nessun altro paese al
mondo, che ha sinora impedito di reagire in modo risolutivo ed efficace
all'aggressione pianificata alle comunità di montagna portata
avanti con i grandi predatori, che vede la reazione a questa
aggressione ancora frammentata e poco organizzata a differenza di
quanto avviene in Francia e in Svizzera.
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Articoli
ruralpini su temi connessi
Animalismo,
biocapitalismo, ecototalitarismo
(30.06.15)
Proseguiamo
la riflessione sul biocapitalismo e le ideologie ambientaliste
allargando la riflessione all'animalismo che in modo più esplicito e
violento nega il valore della vita umana. Esso si presenta come un
perfetto strumento per legittimare i paradigmi del nuovo biocapitalismo
in cui l'uomo diventa una merce da fabbricare e la vita umana può
essere rliminata senza particolari scrupoli (come e peggio che nei
Gulag e nei Lager)
Gli
orsi sparigliano politica e istituzioni
(01.09.14) Le
destre cavalcano l'animalismo ma rischiano di scottarsi (loro e la
sinistra)
La gestione degli orsi trentini è scappata di mano. Il conflitto
sociale, ideologico, territoriale innescato dall'aver sovraccaricato
Life Ursus di valenze di ogni tipo impatta in modo imprevedibile sulla
politica
Il
lupo come diversivo della biodistruzione
(02.04.13)
Con le
nevicate tardive i lupi in Piemonte si sono abbassati. Branchi a pochi
metri dalle case, pecore predate nei giardini al limite dei paesi. Il
sistema capitalista-industriale che sta provocando l'estinzione di
massa delle specie viventi usa come diversivo e oppio del popolo il
lupo anche per eliminare, impedendo ogni difesa, pastori, contadini e
montanari: gli unici veri resistenti
J’ACCUSE
: I lupi parte di un patto contro la montagna
(14.01.13) Pubblichiamo l'importante
contributo di Robi Ronza apparso domenica 13 gennatio su www.ilsussidiario.net
Tra
le fauci del lupo e quelle del mercato
(04.03.13) I prezzi offerti dai
commercianti sono irrisori e molti hanno ingrassato gli agnelli
che a Natale non si sono potuti vendere. Ma a Pasqua troveranno
mercato? La soluzione: spiegare ai consumatori che si tratta di carni
sicure, ottenute senza danneggiare l'ambiente, che possono
essere consumate tutto l'anno
L'imbroglio
ecologico (IV e ultima parte)
(09.12.13) Nella storia di
Legambiente si rispecchia un ambientalismo di regime, apparato di
controllo sociale e di "acculturazione" funzionale alla greed
economy turbocapitalista. Con un "pensiero ecologico" debole
appiattito sulla modernità e l'ideologia scientista, tecnocratica.
Centralismo comunista accoppiato con i meccanismi delle
corporation. Ma il dissenso cresce.
L'imbroglio
ecologico (parte III)
(02.12.2013) Dalla critica al
capitalismo della prima ecologia politica alla partecipazione
all'affarismo della green economy. L'ambientalismo, nel solco del
progressismo illuminista, come supporto ideologico e cosmetico al
biocapitalismo dello sfruttamento integrale
L'imbroglio
ecologico (parte II)
(16.11.2013) La nascita
dell'ambientalismo come movimento sociale negli anni '80. I
condizionamenti sulla nascita del movimento ambientalista del travaso
dell' "eccesso di militanza" dalla "sinistra rivoluzionaria" e
dell'egemonia culturale del PCI. La divaricazione tra localismo e
ambientalismo quale occasione mancata. La necessità di andare oltre la
sinistra (e la destra) per recuperare spazi di autonomia sociale
L'imbroglio
ecologico (ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali nell'era del
capitalismo neoliberista)
(07.11.2013) Oggi l' ambientalismo è
la proiezione della Green economy capitalista e i movimenti devono
imboccare con coraggio nuove strade, oltre la sinistra e la destra e
oltre l'ambientalismo per una nuova autonomia dei soggetti e delle
comunità popolari. L'imbroglio ecologico è finito perché il ruolo
dell'ambientalismo istituzionale è palesemente di controllo sociale.
Prima parte di un ampio contributo che ripercorre la storia dei
rapporti tra ambientalismo, sinistra, capitalismo e movimenti sociali
dai primordi del movimento ambientalista ad oggi.
Per
una gestione comunitaria delle risorse e dei problemi ambientali
(08.01.13) Attorno ai problemi, dei
rischi per la salute legati alla nocività ambientale e alla volontà di
gestire in positivo le risorse territoriali sta crescendo nel mondo un
movimento post-ambientalista.
Dalla
tecnocrazia alla scienza comunitaria
(02.01.13) La tecnocrazia ha imposto
un modello di scientificizzazione della politica che svuota la
democrazia. Si è imposta anche nella forma di "ecopotere" con il
pretesto della "tutela della natura dall'uomo". La riduzione del
rischio presuppone però una strada diversa, quella di una scienza
civica e comunitaria e più ampi spazi di democrazia
Ripensare
la relazione tra la natura e la società
(02.01.13) L'affermazione di
una gestione partecipata dei problemi ambientali e delle risorse è
indispensabile per fronteggiare crescenti rischi e la tendenza
tecnocratica a concentrare decisioni con pesanti implicazioni sociali
nelle mani di pochi e sulla base di incerti presupposti scientifici.
Per muoversi in questa direzione, però, è necessaria una profonda
revisione di alcuni fondamenti ideologici della modernità e della
"civiltà occidentale" e dello stesso ruolo della scienza.
Ritorno
alla terra: non solo cibo
(10.10.13) Il distacco dalla terra
non si esprime solo nell'indifferenza per l'origine del cibo che
mangiamo, è anche privazione di stimoli conoscitivi, emotici, psichici.
Ma, nel mentre ci si rende conto del rischio che corre un umanità
sempre più estranea alla madre terra e se ne riscopra il valore, una
folle corsa alla distruzione dei suoli agricoli e alla
industrializzazione agricola procede per forza di inerzia e di
meccanismi economici e tecnologici fuori controllo
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