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Cultura
ruralpina
Loaröi e loaröle
venditori e venditrici di uova
di
Antonio Carminati
(05-.02.19) L’economia della montagna è tuttora
spesso percepita come un sistema di relazioni e produzioni connesse per
lo più all’allevamento zootecnico e alla trasformazione del latte
in caseus. E ciò, almeno in parte, è vero, ma non possiamo dimenticare
molte altre attività rilevanti per il sostentamento del gruppo
familiare, sia sotto il profilo alimentare, che per quanto concerne
l’introito di qualche pur modesta somma di denaro… sempre utilissimo e
persino provvidenziale.
La tenuta e la
gestione del pollaio è una di queste diverse componenti, poco
considerata, ma determinante. Ogni casa la gh’ìa ol sò polèr col serài
(aveva il suo pollaio con il recinto esterno), costituiti il primo da ü stalì (lo stallino), dentro il quale la notte
trovavano riparo le galline, mentre il secondo da un modesto spazio
esterno recintato, all’interno del quale il pollame razzolava all’aria
aperta e veniva alimentato, en dol
sò àlbe (nella sua mangiatoia), col pastaròt (pastone), composto da una
miscela variabile a base di granoturco, crusca, avanzi della cucina
domestica, con l’aggiunta di radicchio, cicoria, ortiche o altre erbe
tagliuzzate, ottenute dalla pulizia degli spazi circostanti alla casa.
Perché l’öf e l’vì dal bèch
(l'uovo viene dal becco). In talune circostanze ol serài poteva anche essere
coperto con pèrteghe e bròche (pertiche
e rami arborei). I due ambienti sono sempre collegati e, nella parte
bassa della porta lignea dello stalì,
öna bösaröla (porticina) consente
alle galline di andare e venire dal polèr
anche durante il giorno, perché all’interno trova
spazio la casèta di öv (cassetta delle uova), che può
essere collocata anche in una nécia
dol mür (nicchia del muro), resa accogliente da un semplice
giaciglio di paglia.
Durante il
giorno, qualcuno della famiglia – un compito molte volte assegnato a
bambini e ragazzi – doveva tenere d’occhio il pollaio, soprattutto
quando le galline venivano liberate per razzolare liberamente nel prato
circostante (non certo prima della fienagione), beccando lombrichi e
altri animaletti che vivono a contatto con la terra, oppure sull’èra
(aia) della corte domestica, dove i pigolii dei pulcini al seguito
della
chioccia, il canto del gallo, il chiocciare continuo delle galline
ruspanti costituivano un sorta di colonna sonora del contesto rurale
familiare.
Ol tata (il capofamiglia) le voleva però lontane dalla stalla,
perché le ga sgargiàa entùren ol rüt
e le ga desfàa dó la mìda de la méssa (girano intorno al letame
e scompaginano la concimaia). Un paesaggio sonoro e visivo assai
particolare, dove tutto pareva così spontaneo e naturale.
Sull’imbrunire, poi, utilizzando anche gli ultimi sprazzi di luce,
prima di concludere le attività della giornata e de stangà fò ol purtù de la cà
(chiudere con la stanga il portone di casa), la regiùra (la principale donna di
casa, la massaia) ordinava a una ragazza de ‘ndà a serà sö i galìne (di
andare a richiudere le galline), che venivano fatte entrare nel polèr, per poi chiudere la bösaröla durante la notte,
allontanando così il pericolo di un eventuale attacco di volpi e faine.
All’interno del polèr, dò o trè pèrteghe s(due o tre
pertiche) sospese tra una parete e l’altra e fissate al muro consentono
alle galline de ‘ndà a lòs,
ossia di appollaiarsi per la notte. L’espressione “endà a lòs”, infatti, significa
andare a dormire.
La tenuta del pollaio non era finalizzata
solamente alla produzione in
proprio di uova e carni di qualità da consumare in famiglia, bensì
orientata anche alla vendita; la sua composizione un tempo era limitata
a pochi bipedi: cinque o sei galline ovaiole, due o tre polli e il
gallo.
Non tutti i pollai potevano vantare di avere anche uno o due pulì (tacchini), che venivano
uccisi e cucinati per le grandi occasioni, onorando così le feste
principali della famiglia. Gli alimenti di origine animale della
famiglia contadina di queste parti sono presto detti: la mucca con d’ü mansolèt e la pìgora (il
vitello e la pecora) nella stalla, le galline en dol polèr (nel pollaio). Non
c’erano altri animali, fatta eccezione per qualche coniglio. Su questa
base alimentare gli abitanti della montagna ià sémpre mangiàt (non erano mai
stati senza cibo). Magari ci si accontentava di un piatto di minestra
di riso o di latte la sera, di pult la mattina, prima di andare a
scuola, o a pascolare le mucche, oppure a lavorare nel bosco. Nei
momenti migliori c’erano le castagne e, l’inverno, il maiale. E s’mangiàa chèl che s’gh’ìa. A mesdé ‘mpó
de polénta, ü öv, ü ciarighì o póch d’ótro. Quande a Nedàl la regiùra
la fàa bói ü polastrèl, l’ìa fèsta granda (si mangia quello che
di cui si dispone. A mezzogiorno un po' di polenta, un uovo al burro o
poco altro. A Natale la massaia fa cuocere un pollastello e allora era
una gran festa).
Di fronte a contingenze particolari, in diverse famiglie le uova non si
mangiavano, ma si vendevano, per ciapà dò palanche, e la carne
compariva sulla tavola solo a Natale e a Pasqua. A mezzogiorno, a la malparàda, e s’mangiàa polénta e
ciarighì, con ciàra e burlìna còcie ensèma (alla peggio si
mangia polenta e uovo al burro con l'albume e il tuorlo cotti insieme),
oppure una semplice frittura di làrd
pestàt (lardo pestato), nel cui tegamino si intingevano pezzetti
di polenta e… come erano gustosi!... In realtà, ancora oggi, ü ciarighì o öna fretàda (uovo al burro e
frittata) sono un piatto
nutriente subito pronto, a qualsiasi ora, ma anche ü öv còcc consàt dó con l’ensalàda -
capelìne o secòrgne - la primaìra, (l'insalata - di cappelline e
primizia di cicoria condita con uovo appena cotto) oppure ü öv scoldàt da bìv dó (l'uovo
ancora caldo da bere). Ai segadùr,
fò en dol pràt, en tép dol fé (ai falciatori, al lavoro sul
prato al tempo della fienagione) già provati dalla fatica, a metà
mattina si portava en dol tulì öna
bèla rösömàda (in un recipiente di tolla una bella rusumada)(1)
che li avrebbe almeno in parte ritemprati, assimilando così le
ulteriori energie necessarie per portare a compimento il grave lavoro.
Patrizio
Mazzoleni di Saiàcom (Selino
alto, fraz. di Sant'Omobonmo terme) mi raccontava che le figlie di suo
zio le ‘ndàa dó en dol serài a tastà
i galìne (andavano nel recinto per tastare le galline) per
riferire poi alla nonna: “Ià facc dis
öv, quande che le gh’ìa da fàn dùdes!…” (hanno fatto dieci uova,
quando invece stavano per farne dodici) . Sua mamma, infatti, ogni
tanto sottraeva di nascosto un uovo o due dal serài, per pagare una medicina,
oppure per acquistare un etto di zucchero, quale ricostituente per i
figli più piccoli e delicati. L’anziana madòna della famiglia, invece,
voleva conoscere e amministrare personalmente il quantitativo esatto di
uova prodotto nel suo polèr e
le spuse de la cà (le
nuore)(2) dovevano rivolgersi direttamente a lei per qualsiasi
richiesta o necessità.
Nelle contrade dell’Alta Valle Imagna, ma non solo, passavano, casa per
casa, con regolarità, ol loaröl o la
loaröla (il venditore e la venditrice di uova) a raccogliere le
uova nelle varie famiglie. A San
Simù (Corna Imagna), sino a tutti gli anni Sessanta, gh’ìa ol Ragiùna, che l’vàa a sercà sö i öv col so dèrel sö i
spale: ritirava dondéne de öv
(dozzine di uova), il cui prezzo era da contrattare e scambiare con i
suoi articoli per la casa: con tate
dondéne de öv te tülìet taci méter de stòfa, per fà dét öna o dò bràghe.
(con tot dozzine di uova potevi acquistare tot metri di stoffa per
confezionare uno o due paia di pantaloni). Prima ancora, da Föppia (Fuipiano) e Alsèca (Valsecca), da San Simù (Corna Imagna) e Locadèl (Locatello), da Röda (Rota Imagna) e Brömà (Brumano), diverse loaröle (ovarole), col derelì sö i spale (con il gerlo in
spalla) , oppure col caagnöl en de mà
(cestino in mano), svalicavano fò en
Seràda, oltre il Pertüs
e la Passàda (3), per recarsi
nel lecchese a vendere la preziosa merce, dove le ciapà ergót de piö (riesce a
spuntare qualcosina in più). Il lunedì di Pasquetta, invece, in valle
si potevano sacrificare alcune uova sode perché i giovanotti potessero
gareggiare sui prati di San Piro (Berbenno), facendole rotolare
lontano, senza romperle. Oppure, per le grandi occasioni, le uova erano
materia prima per fare lo zabaglione con il marsala, una leccornia
senza tempo...
Se, un tempo, dalla vendita delle poche dondéne de öv (dozzine di uova)
come anche de ü galèt o de öna
galìna dol serài (un galletto e di una gallina del
pollaio), amministrata dalla regiùra
o da altre donne della casa, si riusciva a far fronte ad alcune
necessità domestiche spicciole, al giorno d’oggi dall’allevamento delle
galline ovaiole anche in montagna possono svilupparsi nuove forme di
economia rurale, come quella messa in atto fò ‘n val Piàzza (in località val
Piazza) , nel villaggio di San Simù
(Corna Imagna), da Dario, loaröl
(venditore di uova, "ovaiolo") dei tempi moderni, che con le sue
duecentocinquanta galline libere e ruspanti produce e vende oltre
cinquemila uova biologiche al mese…
Note
(1) La rüsumada (da rüsumm, tuorlo dell'uovo)è una bevanda
energetica tipicamente lombarda (conosciuta anche a Milano). Si dice
originaria della Valsassina. Preparata con tuorlo d'uovo, vino rosso e
zucchero.
(2) Nella famiglia patriarcale contadina
era frequente la convivenza di più famiglie nucleari sotto lo stesso
tetto "a mangiare la stessa polenta". Le figlie erano indotte a
sposarsi presto per non creare troppi motivi di rivalità tra cognate e,
sotto il ferreo comando della regiùra
venivano a dipendere una o più nuore (la famiglia multipla era la
regola nei mezzadri dell'alta pianura e nei bergamini transumanti).
(3) La Serrada è il Monte Resegone,
i l Pertüs e la Passada sono due
valichi che collegano la val Imagna ai dintorni di Lecco.
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Cultura
ruralpina (in valle Imagna)
In
morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) La
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(08.01.19) La
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(23.12.18)
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