(02.11.13) Dalla critica al capitalismo dell'ecologia politica all'affarismo della green economy. L'ambientalismo, nel solco del progressismo illuminista, come supporto ideologico e cosmetico al biocapitalismo dello sfruttamento integrale
L'imbroglio ecologico
ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali
di
Michele
Corti
(Terza
parte)
In nome di un "ambiente" astratto le organizzazioni ambientaliste istituzionalizzate hanno da tempo perso ogni carattere di movimento sociale con capacità critica rispetto al sistema capitalistico, e svolgono un ruolo di legittimazione del potere e di depistaggio ideologico. Dietro l'enfasi sulla green economy (che grazie alla vernice verde è in grado di spuntare sovraprofitti speculativi) si nasconde il volto aggressivo di un biocapitalismo che sta assogettando ogni ambito dlela sociosfera e della biosfera a uno sfruttamento integrale, comsumando le vite e avvelenando ogni più intimo ambito del vivente. In larga misura l'ambientalismo prosegue e integra il ruolo della sinistra di agenzia ideologica del capitalismo, tanto più efficace quanto più giocato sui legami mitici con un passato di opposizione (peraltro mai scevra da ambiguità) al capitalismo stesso
Dalla
classe operaia all' "ambiente"
La sinistra è sopravvissuta benissimo alla "fine della classe operaia" (almeno come soggetto politico. Fuori luogo parlare di "tradimento della classe operaia" per il semplice fatto che la "classe operaia" è sempre stata, da Marx in poi, poco più che un pretesto. Lo dimostra la stessa rivoluzione russa: una rivoluzione borghese sui generis, in presenza di una classe operaia e di una borghesia quasi inesistenti (la rivoluzione l'hanno fatta i contadini-soldati abilmente manovrati dalla minoranza bolscevica). Dalla rivoluzione è uscita una nomenklatura che ha imposto una forma di capitalismo (di stato) rivelatasi una brutta copia dlel'originale. Così il capitalismo e la rivoluzione borghese hanno potuto affermarsi anche nell' "arretrata" Russia. Per il tramite di un dispotismo crudele d icui fece le spese anche la classe operaia ma soprattutto i contadini. Molto eterodosso dal punto di vista marxiamo, molto comunista, però.
Se è stato possibile fare una rivoluzione in nome della classe operaia in un paese dove essa quasi non esisteva non sarà molto più difficile continuare a fare del riformismo a supporto del capitalismo trionfante dove la classe operaia è "scomparsa". In realtà, con il vanificarsi del ruolo politico e sociale della classe operaia, con la dissoluzione dei sistemi di produzione di massa e delle demarcazioni tra spazi e tempi di lavoro e non lavoro, di quelle tra produzione e consumo (29)sono emerse nuove, nel caleindoscopio dei ruoli sociali multipli, forme di sfruttamento nuove che vanno ben al di là del "rapporto con i mezzi di produzione", ma che possono anche essere anche più feroci o subdole. Basti pensare alle biotecnologie e dell'affermazione del potere bioeconomico (non certo nel senso di Nicholas Georgescu-Roegen!) quale tecnologia politica (30). Un nuovo "biocapitalismo" che raggiunge lo stato puro nella commercializzazione del materiale genetico e dei tessuti viventi (31) ma che si esprime anche nelle moltiplicazione di rischi. Il riferimento d'obbligo è a Ulrich Beck, teorico della 'società del rischio', che a proposito dei livelli 'ammissibili' di contaminazione, ha osservato che:
Abbiamo a che fare con l'etica biologica di risulta della civiltà industriale avanzata, un'etica che rimane caratterizzata da una sua peculiare negatività. Essa esprime il principio, un tempo del tutto ovvio, di non avvelenare il prossimo. Per essere più precisi si dovrebbe dire: il principio di non avvelenare completamente. Infatti essa, per ironia della sorte, consente proprio quel famoso e controverso 'un pò'. [...] In questo senso i valori massimi non sono altro che linee di ritirata di una civiltà intenta a rifornirsi in abbondanza di sostanze inquinanti e tossiche. L'esigenza di per sè ovvia di non essere avvelenati viene respinta come utopistica. Nello stesso tempo, con i valori massimi consentiti quel 'pò' di avvelenamento diventa normalità, scompare dietro essi (32)
Lungi dal limitarsi alla costrizione, alla disciplina, alla nocività subite in quel “luogo istituzionale dello sfruttamento” che era la fabbrica, di essere limitato alla metafisica dell' “estrazione del plusvalore”, lo sfruttamento è oggi dilatato, “spalmato”, capillare, esteso e generalizzato ad una dimensione di lavoro, consumo, tempo libero che non conosce più demarcazioni.
Laddove c'è costrizione, angoscia, malattia, sofferenza psichica e fisica, esposizione al rischio legata ad un meccanismo che - come corrispettivo di queste condizioni per una parte della società consente la generazione del profitto da parte di un'altra (non importa se fatta di anonimi investitori e manager)- lì c'è sfruttamento. Uno sfruttamento che comporta deliberata distruzione della salute delle persone e degli ecosistemi, "caricati" sino ai livelli "massimi consentiti per legge" delle scorie di un sistema che continua a fare profitto solo grazie alla esternalizzazione dei costi. Che significano riduzione della speranza di vita (sana), nell'aumento della mortalità per cancro e altre patologie (con limitazione alla sociosfera). C'è peggior sfruttamento che rubare la vita e la salute e farne oggetto di business? Il restringere il profitto ad una sola dimensione, che coincide con la produzione di beni economici, è un anacronismo che rende un grosso favore al capitalismo neoliberista, al biocapitalismo.
Per non mettere in discussione gli "strapuntini del potere", però, la sinistra ha preferito non imboccare una strada che l'avrebbe portata a mettere in discussione il nuovo capitalismo dell'era globale. Ciò nonostante che esso si sia rimangiato buona parte delle "conquiste sociali" della precedente era keynesiano-fordista e abbia introdotto nuove forne di controllo, oppressione, sfruttamento. Ha preferito limitarsi a rituali esternazioni contro il neoliberismo nonostante che proprio la sinistra abbia proseguito e approfondito (basti pensare ad Amato o a Blair) le politiche thatcheriane. Ha avallato le prospettive di un "nuovo riformismo", di una "nuova razionalizzazione capitalistica" allineandosi a quei paradigmi della sostenibiltà e della modernizzazione ecologica che sanno tanto di cortine fumogene utili a distrarre dalla cruda realtà di un capitalismo finanziarizzato sempre più aggressivo. Sfruttando la sua lunga esperienza la sinistra ha lasciato semmai che alcune frange (debitamente controllate a distanza) recitassero le liturgie di un alternativismo verboso e rituale in funzione di "messa a terra" e di depistaggio.
Non che manchino le analisi, anche lucide, delle nuove condizioni sociali, delle nuove forme di sfruttamento. Il difficile è superare - anche per la sinistra più radicale - i tabù che tutta la sinistra si è imposta quale "codice genetico": l'orrore della decrescita, l'orrore del "populismo", il terrore della messa tra parentesi della modernità e dell'industrialismo tecnoscientifico, lo spettro dell'oscurantismo. Ma la crisi, il declino (accentuato in Italia), la perdita di ammortizzatori e di certezze finiscono per intaccare quel benessere che da ormai parecchi decenni assicura la pace sociale e potrebbero fare si che le Colonne di Ercole della sinistra (che hanno sin qui efficacemente ingabbiato anche i movimenti sociali), possano divenire superabili. La crisi, da questo punto di vista, può cambiare le cose perché difronte alle esigenze della sopravvivenza svanisce l'incantesimo interiorizzato che spinge a ritenere che non sia possibile costruire spazi fuori del sistema e che, concretamente, l'autorganizzazione sociale è possibile (come insegna la capacità di reazione collettiva alla condizione di miseria della Grecia). Forse è possibile (e necessatio) forzare le colonne d'Ercole e i tabù della modernità e della sinistra, forse è possibile (e necessario) andare oltre la gabbia della sinistra.
L'ambientalismo fornisce alla sinistra (non importa se ne diventa una componente politicamente influente o se si limita a "rinverdirla") un formidabile strumento per supplire al venir meno non solo del ruolo di surroga della rappresentanza (sia pure presunta) della classe operaia, ma anche - più in generale - al declino delle istanze di "giustizia sociale" di cui palesemente il capitalismo neoliberista si fa beffe mettendo in discussione la legittimazione stessa del ruolo della sinistra ("il rapporto tra retribuzione lorda di un lavoratore dipendente e compenso medio di un top manager è attualmente di 1 a 163 mentre era nel 1970 di 1 a 20)(33). L'appellarsi ad altre forme di "giustizia" che fanno riferimento ad altre forme viventi, a sistemi non viventi rappresenta un'istanza giusta per contrastare gli eccessi antropocentrici della modernità ma non può essere poco più che uno slogan, un vezzo fuori dal contesto della radicale revisione dei paradigmi della modernità di cui l'antrocentrismo è solo un aspetto. Altrimenti è mistificazione, allontanamento dalle determinanti sociali dei problemi, dai conflitti di classe. Oppio del popolo.
L'ambiente presenta anche un vantaggio non trascurabile. In quanto (abile) costruzione sociale, esso non è in grado di indicare da sè i responsabili del proprio sfruttamento, lasciando che siano i suoi autoproclamati "aruspici" a trarre indicazioni circa le soluzioni per risolvere i problemi ambientali. Mettere in secondo piano le relazioni sociali e in primo piano l'ambiente presenta indiscutibili vantaggi. Quanto più ci si focalizza sull'ambiente e i suoi malanni come ambito artificiosamente separato dalla società e quanto più risulterà arduo sostenere che gli apparati economici, tecnoscientifici, industriali sono i responsabili di nocività, inquinamento, consumo non sostenibiledi risorse, distruzione di habitat e biodiversità. Effetti perseguiti non per follia o per noncuranza, ma per ciniche strategie di profitto e di potere. E a maggior ragione sarà difficile contestare che essi siano i soggetti meglio titolati per risparmiare ulteriori compromissioni a quello che è un unico sistema ecosociale che non si "aggiusta" con "correzioni" ingenieristiche. Ma su questo punto i miti scientisti e le suggestioni tecnocratiche sono dure a morire (specie se comportano soluzioni che riempiono le sacoccie).
L'ambiente, l'ideologia ecologica, hanno anche fornito alla sinistra la straordinaria occasione per riproporsi quale soggetto in grado di rappresentare e tutelare i "beni collettivi" o "pubblici". Il mitico, ineffabile "ambiente" è l'archetipo perfetto di questi beni, di questa astrazione. Ad essi, alla loro tutela e amministrazione, provvede l'illuministica preoccupazione dei saggi ottimati (in prima fila i novelli sacerdoti della Scienza) cui deve essere affidata una fiduciosa delega da parte del vulgo. Le implicazioni autoritarie di questo illuminismo si rendono palesi quando si assume che debbano essere in primis le "istituzioni democratiche", lo Stato a vigilare sui beni pubblici, sia pure ispirati dalla saggia influenza della sinistra che, nella sua identificazione con le istituzioni della "democrazia rappresentativa", cerca di rintuzzare gli assalti dei "barbari"populisti che cercano di introdurre forme di democrazia diretta.
In realtà il nesso tra l'interesse della sinistra per l'ecologia quale "bene collettivo" risale ai
primordi dell' "ecologia politica" degli anni '70.
“Pensavamo allora, e lo pensiamo ancora, che l'ecologia è rossa non nel senso massimalista del termine, ma nel complesso di un approccio culturale che valuti la risorsa ambiente come bene collettivo. Solo un taglio politico dell'analisi poteva, a nostro avviso, evidenziare la complessità delle problematiche ambientali” (34)
La distinzione tra "beni comuni" (concreti, riferiti a una comunità concreta, che se ne cura ma che li rivendica anche con puntiglio) e il più astratto "bene collettivo" o "pubblico", affidato ad un entità (apparentemente) al di sopra della società e ancor di più delle comunità non è forse da tutti colta per le sue fondamentali mimplicazioni. Eppure è alla base della distinzione tra ambientalismo (fatto proprio dalla sinistra) e ecologia sociale e nuovi movimenti. È intorno alla difesa dei "beni comuni" (concreti) che si mobilita oggi un movimento spontaneo, un movimento sociale che non perde o recupera la connessione con le radici territoriali. Il "bene collettivo/pubblico" (come categoria) presuppone la delega agli esperti, ai saggi, allo Stato, alle agenzie che attraverso leggi, apparati tecnoburocratici dicontrollo, sanzioni, dovrebbero tutelarlo.
Le commistioni tra le due visioni sono facilitate dalla forza del "richiamo della foresta" che la subalternità ideologica e sociale alla "cultura della sinistra" continua ad esercitare anche su espressione spontanee di lotte (troppo facilmente reiglobate e neutralizzate in calderoni ambigui su quali si esercita senza fatica linfluenza della sinistra di potere). Così si ricade nella delega. Al contrario la presa di coscienza che i "beni comuni" sono stati storicamente e sono oggi con forze moltiplicate, aggrediti ed espropriati da un capitalismo aggressivo, spinge le comunità ad assumersi in prima persona la loro tutela stimolando processi di aggregazione e riterritorializzazione.
Questa spinta alla formazione di movimenti di resistenza sociale all'esproprio di beni comuni è tanto più forte quanto più si diffonde la consapevolezza che le istituzioni pubbliche (della democrazia rappresentativa e delegata in bianco) stiano seguendo una parabola discendente, incapaci di un bilanciamento, sia pure asimmetrico e parziale, degli interessi sociali. Una consapevolezza che pone l'attualità di quella crescita di istituzioni dal basso che inizia ad affermarsi attraverso le iniziative di surroga dell'azione istituzionale quando sopraggiunge la consapevolezza della loro parzialità e l'inefficacia. Primi segnali di questa spinta a forme di autotutela è rappresentata dal superamento della dimensione della protesta in favore di azioni di monitoraggio ambientale e di azione legale coordinata e di massa mentre sul piano della costruzione di reti di relazioni che bypassano il mercato si sviluppano i gruppi di banca del tempo, di baratto, di acquisti collettivo, di condivisione di beni, di abitazione parziamente in comune, le forme di community supported agriculture.
In realtà le istituzioni pubbliche rappresentative e gli apparati para-istituzionali di contorno (partiti, ma anche sindacati) hanno perso enormemente di importanza rispetto alle nuove forme di governance, alle "strutture" tecnoburocratiche, ai veri centri decisionali. Strutture che nessuno elegge. Questa tecnostruttura (anche in versione "verde") è in relazione osmotica con le lobby e i terminali "nazionali" (ma a questo punto suona un ossimoro) dei poteri reali. I politici (e i partiti) si prestano ad una funzione poco più che decorativa in cambio di una quota di minoranza . Oggi tutto il sistema politico sta seguendo la stessa parabola che - ci sono vouti secoli - ha portato le teste coronate dal potere politico reale a una lussuosa funzione teatrale (che prescinde dal loro potere economico reale).
Origini (in sordina) del movimento ambientalista in Italia
La comprensione della storia del movimento ambientalista, in modo particoare in Italia, richiede la sua contestualizzazione nel periodo di trasformazioni sociali (e di trasformazione della sinistra) alla fine degli anni '70. Di un vero e proprio movimento ambientalista - fatti salvi i fenomeni di protoambientalismo - si può parlare solo a partire da questo periodo.
Pro Natura vanta di essere la prima associazioneambientalista italiana, nata nel lontano 1948 quando viene fondato in Valle d'Aosta per opera dell'allora direttore del Parco del Gran Paradiso il Movimento Italiano per la Protezione della Natura (poi Pro Natura, poi ancora Federazione Itaiana Pro Natura). In realtà, per lungo tempo esso rappresentò solo, sulla carta, il referente italiano dell'IUCN che - come abbiamo visto - è stata fontata nello stesso 1948. Pro Natura, sino all'affermazione del movimento ambientalista degli anni '80 (quando si conformò al generale orientamento progressista, pacifista limitandosi a presidiare la propria "nicchia di mercato") non aveva una connotazionepolitica.
Nel 1965, in lieve anticipo sul WWF, nasce la Lena cdu(Lega nazionale contro la distruzione degli uccelli) poi LIPU (Lega italiana per la protezione degli uccelli). Associazione "specializzata" ma ispirata alla ben più importante RSPB (Royal Society for the protectin of birds) che rappresenta l'associazione ambientalista con più soci del Regno Unito. La Lipu bruciò sul tempo il WWF Italia nato da una costola dissidente di Italia Nostra (a sua volta fondata nel 1955). Col tempo, a sottolineare la crescente influenza dell'ambientalismo (ma anche il suo ruolo di ideologia dal consenso plebiscitario, in funzione di stabilizzazione piuttosto che di critica sociale), anche Italia Nostra è entrata a far parte del movimento ambientalista insieme al Club Alpino Italiano (per citare solo le organizzazioni piùimportanti).
Il WWF italiano, che insieme a Legambiente costituisceil mainstream dell'ambientalismo italiano nasce nel 1966 e, subito, grazie alle risorse economiche mobilitate dai potenti patroni (35) nascono le cosiddette “oasi”, luoghi considerati a rischio caratterizzati da particolare fauna o flora, posti sotto la tutela (e la gestione) del Wwf: l'oasi di Bolgheri, nei pressi di Livorno, o quella del Lago di Burano, sono veri e propri terreni inaugurali dell'azione del WWF. Ed è proprio l'oasi di Burano che di recente ha messo a nudo la natura dell'ecologismo alla WWF (36). Grazie all'appoggio del Corrierone, che con Giulia Maria Crespi operò una netta sterzata a sinistra e filoambientalista, il WWF raggiunse presto decine di migliaia di soci.
Anche se con una base in forte espansione (almeno nel caso del WWF), la strategia dalle associazioni conservazioniste costituitesi negli anni '60 ha continuato ad ispirarsi al modello anglosassone della 'lobby': un gruppo di pressione fonte dell'appoggio di personaggi influenti e di una capacità di orientare un (sia pur potenziale) consenso elettorale canalizzato verso alcuni parlamentari e ministri dei partiti del vecchio centro-sinistra disponibili a sostenere quei provvedimenti legislativi ritenuti idonei alla salvaguardia del patrimonio artistico e naturali. Pur con la contaminazione "movimentista" e la svolta del 1978 quando un'assemblea “autoconvocata” a Bologna dai soci del WWF contestò la scelta di "impoliticità" dei vertici (e la vicinanza di fatto con i partiti "laici")(37). La successiva scelta antinuclearista portò all'uscita dal WWF di Susanna Agnelli e aprì la strada anche alla partecipazione alle, ancora più caratterizzate politicamente, manifestazioni pacifiste. Passata la stagione "movimentista" il WWF è tornato largamente al tradizionale modello di lobby mentre, come vedremo, Legambiente si è avventurata verso percorsi molto più spregiudicati. Nonostante il limite dell'approccio politico "debole" del WWF la constatazione che esso, ovvero un movimento non riconducibile alla sinistra, stesse guadagnando un peso determinante nel nascente movimento ambientalista contribuì a spingere il PCI a varare l'operazione Lega per l'ambiente nel 1979.
Prima di considerare le circostanze della nascita di Legambiente è però necessario fare un passo indietro di qualche anno e analizzare cosa si agitava negli anni '70 all'interno della sinistra (che allora era chiaramente distinta in un'ala riformista, qualla maggioritaria ancora all'inerno dell'ortodossia marxista, e quella "nuova" (e velleitariamente "rivoluzionaria"). Nel 1971 l'Istituto Gramsi presso la sede delle Frattocchie (la scuola del partito) organizzò un'importante convegno su "Uomo natura società: ecologia e rapporti sociali (38) Nell'occasione venne ribadita l'ortodossia marxista ma era chiara la preoccupazione di non farsi trovare spiazzati su un tema che si intuiva potesse diventare nel giro di pochi anni al centro della politica. Nel centrosinistra (quello dei tempi, senza PCI) non mancava chi già cavalcava la nuova "moda".
Giovanni Berlinguer tenne la relazione iniziale e tirò le conclusioni dei lavori ai quali partecipò anche Paccino. L'analisi di Berlinguer è molto significativa alla luce di quanto avvenuto nei decenni successivi. Contiene una lucida e per certi versi anticipatrice visione dello sviluppo del capitalismo "che universalizza lo sfruttamento e lo proietta alle basi della vita" ma la minaccia al pianeta e alle future generazioni non è legata al tramonto della borghesia quanto al suo trionfo.
"[…] non solo va esaurendosi la funzione civilizzatrice del capitale nel dominio della natura da parte degli uomini, ma il tramonto della borghesia pesa sull’intero pianeta, rischia di trascinare nel crollo la biosfera [...] il capitale universalizza lo sfruttamento, lo proietta alle basi naturali della vita, minaccia l’esistenza delle future generazioni" (39).
Il PCI fu però molto prudente nell'accogliere l'ecologia all'interno del proprio programa politico. Fu solo con il Congresso Nazionale del 1979, non casualmente anno di fondazione della Lega per l'ambiente (che vide tra gli ispiratori e i fondatori lo stesso Giovanni Berlinguer), che i problemi ambientali entrarono in un documento ufficiale del partito.
Nello stesso anno del convegno dell'Istituto Gramsci nacque a Milano "Ecologia", diretta da Virginio Bettini, essa si presentava come una rivista scientifica volta a divugare fuori dell'Università la novella ecologica. Si occupava prevalentemente di tematiche concernenti l'inquinamento delle acque e l'inquinamento atmosferico, ma a queste si affiancavano contributi di taglio politico radicale. Era formata da un gruppo di redattori estremamente eterogeneo quanto a formazione e ideali ma unito dalla matrice accademica. Tra loro ambientalisti quali lo stesso Bettini e Giorgio Nebbia, entrambi provenienti da Italia Nostra, il botanico Valerio Giacomini, che era presidente della federazione Pro Natura, Fulco Pratesi, vicepresidente del Wwf, gli idrobiologi Giorgio Marcuzzi e Menico Torchio. La rivista si reggeva in parte sulla pubblicità ma le inserzioni delle società degli impianti di depurazione (legate a grossi gruppi capitalistici che si vedevano bastonati negli editoriali della rivista) non bastavano a tenerla a galla. Non erano i tempi della green economy . La rivista, però, non cessò, solo per i problemi economici. Furono le divergenze insanabili nel gruppo dei redattori circa il rapporto tra ecologia e modello di sviluppo che portarono alla fine dell'esperienza nel 1973. Le circostanze appaiono di grande interesse in prospettiva della ricostruzione del movimento ambientalista perché mettono in evidenza come prima degli anni '80 e dell'amalgama delle diverse anime (favorito dall'abbandono da parte del PCI delle precedenti posizioni "di classe") vi fossero aspre divergenze tra l'ala di sinistra ispirata all'ecologo marxista statunitense Barry Commoner (40) e quella borghese dei "conservazionisti". Esse divennero incomponibili in seguito alla pubblicazione del famoso rapporto commissionato al MIT dal Club di Roma di Aurelio Peccei su "I limiti dello sviluppo" (41).
All'interno della leadership ambientalista borghese i rapporto del Club di Roma e, in particolare, la teoria della necessità della crescita zero demografica venneno totalmente condivisi (ci sarebbe stato da meravigliarsi del contrario considerato che il WWF aveva l'imprinting di Hukley e ... del Principe Filippo"). In realtà le divergenze erano più ampie, sottendevano due visioni, due paradigmi inconciliabili. Nel 1973 l'Ecologia chiude dopo che Fulco Pratesi, il guru del WWF, se ne era andato sbattendo la porta, ovvero con una lettera indignata di dimissioni rassegnate al comitato di redazione dopo la pubblicazione - vero casus belli - di un saggio di Bettini "Ipotesi di Parco Nazionale nel Monte Pollino: contro una riserva indiana chiamata Parco Nazionale" che osava demolire uno dei cardini della politica del WWF Italia di allora.
Il fatto che, dopo qualche anno, i giovani collaboratori di Bettini, transitati a Legambiente, si trovassero ad osannare la politica dei Parchi e delle "oasi" sostenuta con convinzione da Legambiente (anche in chiave di concorrenza con il WWF)(42) la dice lunga su quale anima dell'ambientalismo abbia prevalso. La conferma viene anche da altri aspetti altrettanto se non più cruciale della questione "natura sotto campana di vetro" (ovvero i parchi e le oasi). Uno, probabilmente decisivo è quello che riguarda il ruolo della tecnologia, la neutralità della scienza, la dialettica tecnocrazia-democrazia. Bettini ricondusse la frattura con l'ala del WWF e dei "riformisti" alla fede nella tecnologia quale capace di risolvere, garantendo anche buoni profitti, qualsiasi problema ecologico: "Il problema, la grossa questione, è nata dal fatto che sembrava […] che la tecnologia avrebbe risolto tutto. Io non ci credevo sostanzialmente" (43) “Ecologia" ebbe un seguito con la "Nuova Ecologia". Bettini, con alcuni studenti, fece sopravvivere un inserto e poi, nel 1978, fece uscire la nuova rivista che raggiunse buone tirature anche se era diffusa solo nell'area milanese. Ta quegli studenti vi erano Andrea Poggio e Carlo Monguzzi, Poggio è attualmente vice-direttore di Legambiente. Monguzzi, proveniente dal Manifesto passò a Legambiente e venne eletto nel 1990 consigliere regionale della Lombardia per la Federazione dei Verdi. Dopo 20 anni di consiglio regionale (i "culi di pietra" di Paccino) ha lasciato i Verdi per passare all'ovile del PD con il quale è consigliere comunale a Milano. Ma ancora più significativa ed emblematica è la carriera Mario Zambrini amministratore delegato di Ambiente Italia. Ambiente Italia ha fondato con Legambiente e Kyoto Club le società AzzeroCO2 e Ambiente Italia Progetti srl. che sono (vedi oltre) fortemente implicate nelle peggiori speculazioni sulle energie "rinnovabili".
La linea della "Nuova Ecologia", era dichiaratamente di sinistra e i giovani che la redigevano erano assertori della no oggettività della scienza, dell'impossibilità che la tecnologia potesse risolvere i problemi ambientali provocati dal modello di sviluppo capitalistico. Poi, però, alla fatidica svolta degli anni '80 la rivista di dotò di un formale Comitato scientifico in cui entrarono Giorgio Nebbia e Laura Conti, entrambi iscritti al PCI. Era la premessa di una "normalizzazione". La breve stagione dell' "ecologia politica", sintetizzata dalle vicende della rivista stava per terminare. Il PCI non poteva consentire che attraverso la critica ecologica si forzassero le Colonne d'Ercole. C'è anche da dubitare che i giovani ecologisti avessero il coraggio di entrare nel mare incognito, non eano forse nemmeno maturi i tempi (come oggi).
Il sistema capitalistico era (ancora) brutto e cattivo ma la Scienza era per il PCI una verginella che non doveva essere messa in discussione. Laura Conti, allora consigliere regionale in Lombardia, stava operando per la formazione di Legambiente di cui divenne presidente del Comitato scientifico. Il rientro nei ranghi della "Nuova Ecologia", premessa al suo assorbimento in Legambiente, fu segnato dal primo appuntamento elettorale amministrativo delle liste Verdi in occasione delle quali la rivista si schierò contro "per non indebolire i lavoratori"(44). Nel 1982 alla direzione all'idealista Bettini, che continuò a fare il docente universitario (salvo la parentesi dell'elezione al parlamento europeo con i Verdi arcobaleno nel 1989), subentrò il giovane rampante Poggi che fu il componente della redazione che più fece carriera in Legambiente.
Oggi la "Nuova Ecologia" è la rivista di Legambiente. Chi la prendesse in mano distrattamente potrebbe scambiarla per una rivista di viaggi e turismo, una delle tante che si rivolge a chi ha disponibilità economiche e di tempo libero.
Molto
più massiccio (e non mediato dalla sia pur breve esperienza dell'
"ecologia politica") fu il travaso diretto dai gruppi
dell'estrema sinistra in dissoluzione. Come a osservato Zarelli
questo innesto ha di certo fatto si che il movimento Verde (sia nelle
sue espressioni politico-elettorali che in quelle associative)
subisse l'egemonia della sinistra ma non certo per riprendere e
ampliare i temi dell'ecologia politica radicale (che anzi vennero
lasciati vadere). Il movimento ambientalista si è adagiato in una
sorta di "pensiero unico":
"un
indistinto progressismo filantropico-naturalistico del tutto
funzionale alla civilizzazione industriale". Semmai l'analisi di
Zarelli, richiama un po' quella di Paccino, che sottovalutava le
"eccentricità" dei conservazionisti aristocratici e pecca
nel considerare la "lodevole attività di tutela della natura"
quale priva di valenze sociali e politiche e semmai
"strumentalizzata" dai militanti provenienti dalla
sinistra.
"In
realtà, in particolar modo in Italia, l'ecologismo è
"ambientalismo", strumentalizzato dai partiti politici, in
primis quello "Verde", che manifesta un indistinto
progressismo filantropico-naturalistico del tutto funzionale alla
civilizzazione industriale. Gli aderenti ai movimenti verdi sono
generalmente di due tipi. Alcuni provengono dal radicalismo di
sinistra, collettivista o libertario, comunque utilitaristico, di cui
rinnegano la carica rivoluzionaria mantenendo l'abilità e
l'opportunismo politico, guidando quindi gli "altri" che
sono legati al mondo dell'associazionismo naturalistico,
conservativo, impegnati lodevolmente da molto tempo in attività di
difesa dell'ambiente, di protezione delle specie animali, etc. Sotto
l'influenza dei primi, i verdi sono posizionati genericamente a
sinistra, alleati dei partiti democratici o socialdemocratici"
(45).
In realtà la "lodevole attività di tutela della natura" (non a caso generosamente sponsorizzata dalle industrie, compreso quelle più inquinanti), oltre a fungere da alibi sociale rispetto all'ulteriore consumo di suolo, frammentazione ecologica e contaminazione ambientale e distogliere le anime belle da ben più incisive forme di salvaguardia del territorio è servita a creare una rete di centri di potere e di spesa utili anche a foraggiare e invischiare in reti clientelari gruppi, associazioni, singole personalità distogliendole da attività oppositive. Più di recente l'attività di "protezione della natura" ha assunto un carattere sociale più netto e incisivo con la macchina dei milionari progetti LIFE e, lungi dal corrispondere a romantiche concezioni di una natura spiritualizzata, la "parchizzazione" e la "santuarizzazione" del territorio esprime sempre più una lucida volonta di controllo, sfruttamento, esproprio.
Non
siamo più di fronte solo ad una generica programma di esproprio dei
poteri locali condizionati dalle tecnostrutture dei parchi (con gli
amministratori locali, ovvero i rappresentanti eletti, a fare da
tapezzeria, paghi di modesti ritorni clientelari) ma anche precisi
progetti come i Parchi per Kyoto (per la quale è stata costituira
un'apposita onlus da parte di Legambiente e Federparchi) finalizzati
alla cessione di crediti di carbonio (con il supporto di AzzeroCO2
(Amministratore delegato Mario Gamberale, vicepresidente Antonio
Ferro, consiglieri Duccio Bianchi, Andrea Poggio, Edoardo Zanchini)
e, verosimilmente, di Giga una società dell'Ing De Benedetti che
già, opera sul mercato internazionale dei carbon
credits).
L'indistinto"progressismo filantropico-naturalistico" che carattizzò il movimento ambientalista corrisponde nei fatti alla valutazione che anche altri studiosi ortodossi del novimento. Biorcio ha osservato come il movimento ambientalista degli anni '80 fosse caratterizzato da: "la disponibilità a muoversi con spregiudicatezza e pragmatismo nei confronti delle istituzioni" e da "limitata elaborazione ideologica, lasciando così in secondo piano le diversità di cultura politica e di esperienze delle diverse componenti dell'arcipelago” (46).
Alla disponibilità a muoversi nei confronti delle istituzioni è corrisposta una precoce istituzionalizzazione del movimento Verde che ha precocemente abbandonato la dimensione di protesta. La più generale dimensione oppositiva è rimasta sempre marginale (almeno rispetto a movimenti come quelli dei Verdi tedeschi)(47)
(3 - continua)
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Note
18. K. Marx (19754) Il Manifesto del partito comunista, p 114 Einaudi, Torino 1974.
19. Il mito dell'egemonia, però, ha rappresentato (e rappresenta)l'ossessione della sinistra doc, un vero mito fondante. Ne è un esempioun peraltro bell'articolo del Manifesto del 18 luglio (InsertoL'Italia che va, p. 1 Un nuovo immaginario per il dopo-crisi). A conclusione del pezzo è riportata un'analisi del tutto condivisibilecirca il nuovo ruolo dei piccoli centri, dei "borghi addormentati". C'è da rallegrarsi che proprio il Manifesto,simbolo di una sinistra particolarmente urbanocentrica ed intellettualistica, si accorga che l'era dell'idiotismo ruralemarxiano è finita. Come non essere d'accordo poi quando si sostiene che: "... mostrare che il tracollo culturale dei partiti nonesaurisce non trascina con sé la dimensione dell'agire politico costituisce oggi una pedagogia preziosa, antidoto indispensabile alladelusione, al disimpegno, alla disperazione di milioni di persone." Poi, però, arriva un richiamo stonato e appiccicato al "patriottismo di sinistra" che non può fare a meno del mito dell'egemoniacome "cifra" della sinistra italiana che, pur diraggiungere il potere ha messo tra parentesi il marxismo ("la sovrastruttura ideologica è determinata dalla sottostantestruttura economica e dai rapporti di produzione"). Dopoun'altro spunto un po' vago ma ancora condivisibile spunta ancora fuori la mitica "egemonia": "... attraverso la ricognizione su tanti casi dispersi si alimentano nuova cultura della possibilità di cui abbiamo bisogno, si può indicare, per frammenti, l'alternativa possibile, il mondo che vogliamo nel suofarsi immateriale quotidiano. È una delle strade per mostrare di quali nuove parole singoli narrazioni, e fatto l'immaginario dellasinistra. Un immaginario che oggi, di fronte allo scacco del capitale, può pretendere di diventare egemonico".Come si vede un ulteriore "salto di qualità". Dall'egemonia acquisita attraverso l'influenza sulla sovrastruttura (apparati culturali, educativi, mediatici, produzione artistica) ora èl'immaginario che diventa egemonico. Dall'idealismo gramsciano al surrealismo. Pensare che sia "l'immaginario della sinistra"ampiamente e consensualmente saccheggiato dal postmodernismo capitalista a costituire un'alternativa allo "smacco del capitale" è francamente ridicolo.
20. S. Tosi (2006) Dai consumi alla politica in: Consumi e partecipazione politica. Tra azione invividuale e mobilitazione collettiva, Franco Angeli, Milano, 15-53.
21.“L’individualismo spinge, infatti, i giovani a preferire forme di impegno politico in cui possano conservare il controllo e l’autonomia della propria azione e, di conseguenza, a tenersi alla larga dalle gerarchie e dalle logiche burocratiche tipiche degli apparati di partito. Le preferenze giovanili vanno verso una modalità di impegno nei movimenti oppure legate al mondo dell’associazionismo civico. Agli occhi dei giovani, che sono poi la parte più consistente della loro membership, i movimenti permettono una maggiore spontaneità ed una più significativa autonomia nel coinvolgimento politico”. (E. Caniglia - Impegno politico giovanile: verso una definizione concettuale, Il Dubbio, rivista di critica sociale, Anno III, Numero 1, 2002 (http://spazioinwind.libero.it/ildubbio/numero1_02/caniglia.html
22. Pizzorno, A. (1978): Political exchange and collective identity in industrial conflict. En C. Crouch y A. Pizzorno (eds.): The resurgence of class conflict in Western Europe, vol 2. Macmilan: Londra.
23. A.D. Smith, Il revival etnico, Bologna , Il Mulino, 1984
24. M. Corti. Autonomismo come esigenza ecologica Estratto da: Forum padano‐alpino (Bollettino dellʹAss. culturale padano‐alpina) n 4 Ottobre 1998, pp.7‐9. http://www.ruralpini.it/file/Ruralismo/Materiali%20ruralisti/Bioregionalismo.pdf
25. http://retebioregionale.ilcannocchiale.it/http://retebioregionale.ilcannocchiale.it/
26. F. Kirkpatrik Sale, Le regioni della natura, Elèuthera, Milano, 1991.
27. Arianna ha pubblicato nel 1998 una raccolta di scritti di ispirazione bioregionalista di autori italiani (AA.VV. Verso casa. Una prospettiva bioregionalista, Arianna, Colecchio di Reno (BO), 1998. Da segnalare anche l'interesse della Macro Edizioni di Cesena (nella quele Arianna è oggi confluita) per il tema che nel 1994 ha pubblicato una raccolta bioregionalista (AA.VV. Macroregione. Nuova dimensione per l'umanità).
28. M. Bookchin (1986) L'ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, Elèuthera, Milano; M. Bookchin (1989) Per una società ecologica, Eleuthera, Milano.
29. V. Codeluppi (2008) Il biocapitalismo, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 29 ssg.
30. L. Bazzicalupo (2006) Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari.
31. C. Walby, R. Mitchell (2006) Tissue Economics: Bllod, Organs, and CellLkines in Late Capitalism, Duke University Press, Durham-London.
32. U. Beck. (2000) La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, p. 85.
33.http://www.repubblica.it/economia/2013/05/18/news/salari_cresce_disuguaglianza_47_della_
ricchezza_a_10_famiglie-59098062/
34. V. Bettini, La primavera dell’ecologia, Nuova Ecologia, aprile 1981, p. 5.
35. Oltre a Giulia Maria Crespi nel Comitato d'onore del WWF alla sua fondazione era ben rappresentata l'aristocrazia ibridata all'industria: c'erano Carlo de Angeli, Vittorio Marzotto,, Piero Dentice di Frasso, Giovanni Prevedin di San Martino, Carlo de Ferraris Salzano, Emilio Pucci, Lanfranco di Campello, Luigi Barzini, Luigi Medici del Vascello, Paolo Rossi.
36. L'oasi di Burano nasce sui terreni della società Sacra, la Sacra, società fondata nel 1922, già proprietaria della maggior parte del territorio di Capalbio dopo gli espropri della riforma agraria, disponeva di solo - si fa per dire - 1500 ettari . Una tenuta al cui centro si trova il lago di Burano, riserva naturale affidata al Wwf dai tempi di Pratesi. La Sacra è società controllata da alcuni esponenti del patriziato lombardo: i marchesi Resta Pallavicino, i Reyneri di Lagnasco, gli Gnecchi Ruscone, i Vimercati Sansovino, Carlo Puri Negri ex ad di Pirelli e...Tronchetti Provera (ora usciti). Dall'altra parte comuni o quasi residenti, agricoltori e i "Vip rossi di Capalbio": Alberto Asor Rosa, Francesco Rutelli, Furio Colombo, Claudio Petruccioli, Franco Bassanini, Chicco Testa, Giancarlo Leone Nicola Caracciolo, Ferdinando Imposimato. L'hanno avuta vinta i capalbiesi. Ed è un bene. Peccato che in Maremma di centrali a biogas ne siano sorte altre tredici. Una strana nemesi quella che si intravede nella vicenda della biogas di Capalbio: l'aristocrazia di sangue trasformata in aristocrazia della finanza che punta ad un business spreguicato senza tema della presenza dell'Oasi di Burano, da "padroni delle ferriere" o "tycoon", dall'altra i VIP "democratici" passati dalla presidenza di Legambiente a quella dell'Enel (che un po' di inquinamento magari lo fa) messi nella condizione di "fare i Nimby" proprio mentre Legambiente si erge a paladina delle centrali a biogas (vedi documento). Una trama sulla quale un commediografo potrebbe sbizzarrirsi anche perché un personaggio muto è il WWF che si è ben guardato dal prendere posizione visto che l'Oasi sorge sui terreni della Sacra. E questo mette in evidenza tutta la miseria dell'ecologismo borghese denunciata da Paccino: un ecologismo che vede nelle Oasi un proprio giocattolo, un giocattolo che non contribuisce certo a ridurre la pressione delle fonti di inquinamento sugli ecosistemi (uno studio recente effettuato in Califormia ha messo in evidenza la presenza di residui di pesticidi nei tressuti corporei delle rane dei mitici Parchi della Sierra Nevada (Yellowstone, il Monumento naturale della Sequoia gigante). Le oasi sono state realizzate spesso grazie a finanziamenti e donazioni di società industriali ed energetiche che con i loro impianti sono responsabili di enormi emissioni inquinanti e che si lavano a buon - grazie alle sponsorizzazioni di Legambiente e WWF - la loro coscienza sporca. Quando, però, un WWF non si oppone all'inquinamento del Lago di Burano (la centrale è stata negata l'autorizzazione anche per questo) pur di rischiare di non perdere la propria oasi. Meglio un oasi inquinata che un oasi incontaminata ma non in gestione del WWF. Uno dei personaggi che potrebbe entrare nella moderna "commedia all'italiana" è anche Fulco Pratesi che si gode la sua residenza all'interno dell'Oasi WWW di Pian Sant'Angelo a qualche decine di km da Capalbio (a qualche cosa servono le Oasi).
37. R. Della Seta (2000) Il movimento antinucleare in Italia, Franco Angeli, Milano, 2000. p. 44, n.9
38. Istituto Gramsci (1972), Uomo natura società: ecologia e rapporti sociali. Atti del convegno, Frattocchie (Roma), 5-7 novembre 1971, Roma, Editori riuniti.
39. G.Berlinguer, Relazione introduttiva in Istituto Gramsci, op. cit., pp. 23-24.
40. L'opera che influenzò maggiormente la sinistra italiana e il nascente movimento ambientalista fu: B. Commoner (1972), Il cerchio da chiudere: la natura, l'uomo e la tecnologia, Milano, Garzanti che era uscita l'anno prima nell'edizione originale.
41. D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens III (1972) The Limits to Growth, traduzione italiana, I limiti dello sviluppo, Mobdadori, Milano, 1972.
42. Legambiente gestisce una rete di “oasi” e riserve sotto l'insegna “Natura e Territorio” “un progetto nato per promuovere e mettere in rete tra loro le numerose esperienze di adozione del territorio da parte delle strutture locali di Legambiente le quali gestiscono direttamente, o in collaborazione con altri soggetti, 47 aree protette nelle quali sono state avviate attività di conservazione, fruizione e divulgazione della natura. La rete di Natura e Territorio interessa aree naturalistiche, siti di importanza comunitaria e aree protette di interesse locale, aree faunistiche e floristiche, rifugi e centri natura, aree geologiche e archeologiche, coinvolgendo un territorio di oltre 10.000 ettari di superficie”. Le vere e proprie riserve naturali e oasi in stile WWF sono circa la metà di queste aree” http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/27_aree_natura_e_territorio.pdf
43. Intervista a V.Bettini in: E. Davigo Le origini del movimento ecologista italiano: la nascita di Nuova Ecologia (http://www.casoesse.org/2012/02/07/movimento-ecologista-italiano-nuova-ecologia/#footnote-9)
44. Ivi.
45. Intervista ad Eduardo Zarelli, 1997 (http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=6010)
46. R. Biorcio (1992) Il movimento verde in Italia, Istituto Superiore di Sociologia di Milano, Working Paper n.46, Barcelona, 1992.http://ddd.uab.cat/pub/worpap/1992/hdl_2072_1436/ICPS46.txt
47. D. Della Porta, M. Diani (2004) Movimenti senza protesta? L'ambientalismo in Italia, Il Mulino, Bologna.