I fratelli Aldo, Césco Roso e Lino
Carminati (da sinistra a destra), boscaioli emigranti in Svizzera,
nella ferme di Pontenet (Vallée de Tavannes - Bienne). Anni Settanta
del Novecento..
di
Antonio Carminati
(25.03.19) Marzo era il
mese della partenza per migliaia di emigranti stagionali delle nostre
valli: carbonai e boscaioli, muratori o anche semplici contadini e
braccianti agricoli, a gruppi si dirigevano sugli Appennini, oppure in
Francia o in Svizzera, per fà campàgna, ossia a lavorare un’intera
“stagione” nelle foreste, sui cantieri e presso le fèrme (fattorie)
d’Oltralpe. È stata, quella stagionale, soprattutto un’emigrazione
maschile, di giovanotti e padri di famiglia, in cerca di un lavoro
sufficientemente remunerato, che in Italia si faceva fatica a trovare,
dalla prima metà del Novecento sino ai lustri immediatamente successivi
al secondo dopoguerra. Durava da marzo a novembre e i lavoratori non
potevano rimanere oltre nella Confederazione elvetica, senza il
possesso di un contratto di lavoro annuale, difficile da ottenere;
quello stagionale, invece, imponeva il rimpatrio per almeno tre mesi
durante l’anno. Questo tipo di emigrazione è durato quassù sino ai
primi anni Ottanta del secolo scorso, a conclusione del ciclo
lavorativo della generazione nata tra il 1930 e il 1940, che ha
costruito all’estero il suo modello e scenario di lavoro. Non partivano
mai da soli, ma in squadre composte da almeno due e sino a quattro o
cinque componenti e costruite su base familiare e professionale. Da San
Simù (Corna Imagna) si formavano regolarmente gruppi di
boscaioli e muratori e
l’emigrazione era di casa in quasi tutte le famiglie del villaggio, un
fatto naturale.
Boscaioli
di Canito delle famiglie Carminati e Manzinali, emigranti nei boschi
della Svizzera. Alpe di Reconvelier, 1950, in prossimità della baracca
dove hanno alloggiato per molti anni i fratelli Carminati di Canito,
prima di trasferirsi nella fattoria di Pontenet. La fotografia
documenta l'incontro domenicale di due squadre di boscaioli, quella dei
fratelli Giacomo e Luigi Carminati (in piedi da sinistra a destra), con
i primi due figli Piero e Césco (il secondo e il terzo seduti, da
sinistra a destra), e l'altra di Giuseppe Manzinali (il primo in piedi
a destra) con i primi due figli Nino e Giuseppe (seduti, il primo a
sinistra e il primo a destra)
Per
emigrare in Svizzera occorrevano almeno tre requisiti: e càrte (il
contratto di lavoro), ol passapòrt
e… buona salute con altrettanta
voglia di lavorare! La Svizzera, in modo particolare, aveva bisogno di
molte braccia da lavoro e non vedeva di buon occhio l’ingresso delle
famiglie. I ricongiungimenti familiari rappresentarono, negli anni
successivi, una conquista sociale e hanno costituito il presupposto per
il trasferimento definitivo all’estero di interi gruppi parentali,
molti dei quali poi non fecero più ritorno, determinando lo
spopolamento di diverse contrade nella valle. Donna è sempre stato
sinonimo di famiglia e dove c’era l’una stava anche l’altra. La
trasformazione del contratto di lavoro da stagionale ad annuale e
l’emigrazione estesa alle donne, le quali, oltre a ricomporre la
famiglia all’estero, hanno incominciato anche a lavorare nelle
fabbriche di orologi e del settore del terziario, presso ristoranti,
alberghi, ospedali,… hanno determinato un cambiamento radicale del
fenomeno migratorio, che da temporaneo è diventato definitivo e ha
investito tutto il gruppo parentale.
Per i quattro fratelli
Carminati, invece, Cèsco
(Francesco, mio padre), Aldo, Rósso e Lino, la Svizzera ha
continuato a rappresentare lo spazio privilegiato dove esprimere
abilità e attitudini professionali di prim’ordine e, non meno
importante, guadegnà dò palànche
(quattro soldi). Cresciuti alla scuola del nonno Luigi
- anch’egli carbonaio e boscaiolo dapprima sui monti dell’Appennino
genovese, quindi, tra le due guerre del Novecento, nelle foreste
francesi di Digione, infine in Svizzera - i quattro bûcheron (fr., boscaioli) hanno
sempre mantenuto le rispettive famiglie nel villaggio di San Simù, che
ha continuato a rimanere al centro dei loro interessi, dove facevano
regolare ritorno a fine novembre. Durante i tre mesi invernali, dopo il
matrimonio, vivevano nelle proprie case, ormai separate da quella
originaria del nonno, anche se, ancora una volta insieme, provvedevano
a tagliare boschi e a lavorare il legname, sia per il fabbisogno delle
rispettive famiglie, che destinato alla vendita, mettendo così a
frutto, anche nel villaggio, l’inarrestabile propensione al lavoro.
Persone davvero instancabili, dal fisico forgiato sulla fatica, pronte
al sacrificio.
Boscaioli
di Canito delle famiglie Carminati e Manzinali, emigranti nei boschi
della Svizzera. Alpe di Reconvelier, 1950, in prossimità della baracca
dove hanno alloggiato per molti anni i fratelli Carminati di Canito,
prima di trasferirsi nella fattoria di Pontenet. La fotografia
documenta l'incontro domenicale di due squadre di boscaioli. Da
sinistra: Nino Manzinali, Piero Carminati, Césco Carminati, Giuseppe
Manzinali, Luigi Carminati, Giacomo Carminati, Giuseppino Manzinali.
I tre
mesi invernali erano dedicati alla famiglia e alla casa, dove i lavori
non mancavano di certo: c’erano da riordinare i terreni, qualche
muretto delle sée andava rifatto; inoltre besognàa ‘ndà a fà la fòia e
bàt dó ol rüt en di pràcc (raccogliere la foglia secca nei
boschi e letamare i prati) andava rifatto un tratto di selciato della
caalìra
(mulattiera),... Era anche il periodo nel quale occorreva saldare il
conto
accumulatosi da diversi mesi söl
lebrèt de la spésa dol Balèta, o dó
dal Consòrsio (sul libretto della spesa dell'emporio locale e
già al consorzio), ma nel
contempo acquistare anche un altro pezzo di
prato, o incominciare gli scavi, con badìl
e sapù badile e piccone), per
la costruzione
della nuova stalla. Quei novanta giorni circa finivano sempre presto e…
ol mis de màrs l’ìa söbet
sà, (il mese di marzo arriva subito), con le sue giornate di
luce che si
allungano a vista d’occhio, sottraendo il tempo al buio. Il caldo
tepore del primo sole primaverile costituiva il richiamo alla nuova
partenza. L’ìa ùra de fà sö la alìs
(era ora di preparare la valigia) e il canto del cuculo nel bosco
costituiva l’invito della natura al lavoro. In famiglia si respirava
l’imminente partenza del papà e la mamma, quando il caffè era salito
nella caffettiera sulla stufa e incominciava a sbrottare, ricordava ai
presenti: “Sènt ol café, cóme che
l’tròta! L’è ol tréno che l’và en
Svìssera!” (senti il caffè come borbotta, è il treno che va in
Svizzera). Il suono onomatopeico richiamava la similitudine con le
tradotte dei soldati. Sì, proprio così: lavoratori emigranti, come
tanti soldati in partenza per il fronte. Quelle valigie, colme di
indumenti da lavoro, ma anche di sighür
e corlàss, seghöròcc e scursì (asce, falciotto, segoni e
accette),
alcuni stracchini e altrettanti salami, la curùna dol rosàre e ol santì
de la Madóna de la Cornabüsa (corona del rosario e il santino
della madonna della Cornabusa [un importante santuario scavato nella
roccia], preparate con cura
dalle donne della
casa, erano un concentrato di affetti familiari e abilità
professionali. Si aggiungeva anche lo zaino in spalla. Erano sempre
molto gonfie, quelle valigie, e per sicurezza venivano legate anche con
due robuste cinture. Giunto il momento del rimpatrio, poi, custoditi lì
dentro, come in cassaforte, avrebbero trovato posto pacchetti di
sigarette, caffè e cioccolato. Per noi bambini, la Svizzera era il
paese del cioccolato, quindi dell’abbondanza, della ricchezza, ma la
mamma pensava bene di requisire immediatamente quelle tavolette, per
dispensarle nei mesi successivi con moderazione, ü quadritì a la ölta,
per fàle dörà (un quadratino alla volta per farle durare).
A marzo la partenza
degli uomini era un evento difficile da accettare, ma necessario. Il
commiato dai bambini avveniva la sera precedente, poiché all’indomani
gli emigranti sarebbero partiti di buonora, scarpinando, con zaino in
spalla e valigia in mano, lungo le mulattiere sino alla Felìsa, dove li
attendeva la curidùra
(corriera) diretta a Bergamo, per
ciapà ol treno (prendere il treno). Il
villaggio si “sgonfiava”. Gli uomini se ne andavano, col loro fardello
di speranze e preoccupazioni, per raggiungere terre lontane, dove
combattere con onore e determinazione la battaglia per il lavoro e
l’affermazione propria e della famiglia. Nonna Elvira accompagnava i
suoi quattro figli lungo il primo tratto di mulattiera, sino alla
tribulina (cappelletta) sö la
Còsta de Canìt. Da lì avrebbero proseguito da soli. Non
si poteva più tornare indietro, nemmeno girare la testa. Bisognava
stringere forte i denti e andare avanti, “simulando contentezza” e
tenendo sotto controllo quel forte nodo alla gola, per non arrecare
ulteriori dispiaceri ai propri cari. Si sarebbero rincontrati solamente
dopo circa nove mesi, a fine novembre. In quel lasso di tempo era la
donna della casa, coadiuvata dagli anziani, a prendere in mano le
redini della famiglia, nel governo di tutte le faccende connesse anche
alla gestione della stalla e del prato, del pascolo e del campo, del
bosco.
Con il miglioramento dei servizi di trasporto e le accresciute
capacità economiche, negli anni Settanta gli emigranti ritornavano,
anche solo per pochi giorni, una o due volte durante la stagione
lavorativa, ma separatamente, in tempi diversi, poiché nelle grandi
foreste di abeti il lavoro di taglio non poteva essere interrotto. Si
comunicava solo per corrispondenza, sino a quando giunse anche a Canito
il telefono, nei primi anni Settanta, con cabina del posto pubblico in
una stanza al pian terreno messa a disposizione dalla Udìl (Utile) nella sua
casa. Per poter comunicare, occorrevano sempre almeno due telefonate:
alla prima la Udìl (Utile)
avrebbe mandato sua figlia a casa del nonno,
avvisando che, dopo circa quindici minuti, sarebbe arrivata la seconda
telefonata dalla Svizzera: così, un membro della famiglia si sarebbe
fatto trovare, all’ora stabilita, in prossimità della cabina
telefonica, in attesa del previsto squillo e di avviare la
conversazione.
Césco e i suoi fratelli
hanno sempre lavorato insieme in Svizzera, per circa quattro decenni,
nei boschi della Vallée de Tavannes (Bienne) e dintorni. La prima
sistemazione, quando con loro emigrava ancora il nonno Luigi e suo
fratello, ol Jàcom de Canìt
(Giacomo da Canito), con alcuni dei suoi figli, era costituita
da ü barachì (una baracca),
situato su un’altura pascoliva, ai margini della foresta
di abeti del comune di Reconvilier: realizzata con semplice assito, era
ricoperta di goudron (fr.
catrame) e il giaciglio serale, costituito da stràm dol
paièr e frosche de peghèra, consentiva il recupero delle forze, dopo la
scüdèla de menèstra la sira, o öna
marmèta de polénta e cudighì. (scodella di minestra la sera, una
ciotola di polenta e piccoli cotechini). Ol barachì era il punto
di partenza, tutte le mattine, per raggiungere il posto di lavoro:
laorà de cópa e de stèr
(abbattere e impilare)[ lo stero è l'unità di misura di del legname
pari a un mc vuoto per pieno, per estensione la catasta da un metro
stero] era il loro. Abbattevano piante e ricavavano
bóre (tronchi) ben
scortecciate, quale legname d’opera, oppure tagliavano a
misura di un metro lineare il legname, che andava poi impilato in
cataste alte anch’esse un metro. Boscaioli sì, ma nel contempo anche
grandi camminatori: da quel barachì
essi si spostavano tutti i giorni
regolarmente a piedi, percorrendo anche più di un’ora di strada, che
rifacevano la sera per il ritorno in baracca. I rapporti con i bacà (contadini) del
posto sono sempre stati buoni, ma gli incontri erano rari, poichè si
scendeva in paese solo ogni quattro o cinque giorni per l’acquisto di
generi alimentari. La loro è stata una vita vissuta nel bosco.
Un’emigrazione silenziosa, ma efficace, costruita al margine della
società elvetica. Nonno Lüigì
(Luigino) ha smesso presto di emigrare, alla soglia
dei cinquant’anni, quando, nel 1956, durante la famigerata visita
medica di Briga, gli trovarono öna
smàgia söi pulmù (una macchia sui polmoni) (aveva superato una
polmonite, quell’inverno) e
lo rimandarono a casa. In quel barachì
elvetico vivevano e lavoravano insieme i due fratelli Lüigì e Jàcom (Giacomo),
con i loro figli, cresciuti nella grande famiglia originaria, i quali
ià ‘mparàt prèst a fà sö
la alìs (hanno imparato presto a preparare la valigia). In
seguito, quando i due anziani del
gruppo rimasero per sempre in Italia, nel corso degli anni Sessanta
anche i cugini si divisero: i figli del Lüigì (Cèsco, Rósso, Aldo e
Lino) si trasferirono nel villaggio di Pontenet, mentre quelli del
Jàcom (Piéro,
Cìnto, Graziano e Franco) andarono ad abitare a Sonceboz,
occupando una vecchia casa cantoniera abbandonata. Nessuno di essi ha
portato la propria famiglia in terra elvetica.
Non era ormai più
sostenibile la vita in baracca e il gruppo dei boscaioli aumentava;
inoltre l’introduzione dell’automobile consentiva di risparmiare tempo
e fatiche; fu Aldo, per primo, a prendere la patente, in seguito anche
Lino, e il gruppo di lavoratori acquistò la prima Wolkswagen – il noto
“maggiolone” - che nel corso degli anni successivi cambiarono più
volte. Pure le condizioni alloggiative migliorarono sensibilmente da
quando, verso la metà degli anni Sessanta, il gruppo si trasferì nella
fèrma della
famiglia Morneau di Pontenet, una fattoria collocata
all’estremità di monte del villaggio, oltre la quale c’erano solo
estese praterie montane e foreste di abeti. Con accesso separato e
autonomo, sul retro, essi avevano a disposizione tre locali in tutto:
una piccola cucina con fornello, stufa e laandì (lavandino), per i pasti
frugali
della prima colazione e cena; una stanza più grande con tre brandine
agli angoli e accanto valigie e zaini (dove dormivano Aldo, Cèsco e
Lino); infine ü camerì
(cameretta), occupato dal Rósso.
Nel locale più grande, per
due estati consecutive, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni
Ottanta, è stata aggiunta una quarta brandina, dove dormivo io: durante
i tre mesi estivi delle vacanze scolastiche, infatti, raggiungevo il
papà e gli zii per lavorare con loro nel bosco. È grazie a
quell’esperienza diretta e personale che oggi sento il dovere di
testimoniare la vita e il sacrificio di questi eroi del bosco e martiri
del lavoro. Veri combattenti, sempre in prima linea. Mai un lamento,
mai un gesto di ribellione. I quattro bûcheron
Carminatì, come altri
quaranta, o quattrocento, o quattromila, o quarantamila… partirono
dalla Valle Imagna e dalle altre aree montane. Lavoro, risparmio, stile
di vita quasi claustrale, dedizione completa alla famiglia, anche a
distanza, e rispetto degli insegnamenti ricevuti sin dall’infanzia
hanno caratterizzato la loro vita. C’era però nell’aria un’ironia
spiritosa e un’allegria di fondo che permettevano di affrontare
situazioni difficili. Risate, battute e spontanee conversazioni
rallegravano comunque le giornate. La giornata di lavoro
iniziava presto, perché alle prime luci dell’alba bisognava essere già
nel bosco. Si saliva in auto ancora al buio, dopo una veloce colazione
a base di latte (procurato direttamente nella stalla dei signori
Morneau, sottostante all’abitazione) e caffè preparato ancora nel
pegnatì. Giornate di lavoro intenso, consumate davvero da stèle a
stèle (dalle stelle alle stelle), ossia dall'aurora sino alle
ultime luci del tramonto. Senza
tregua. A mesdé (mezzogiorno)
bastava un pasto frugale consumato bel bosco, freddo,
con pane, una fetta di stracchino e qualche affettato o insaccato,
tanti servelà (tipo di
salsiccia tipica del milanese). La sera, rientrati alla fèrma, la giornata si chiudeva
con una minestra o anche la polenta, che solo la domenica veniva
accompagnata da un po’ di carne fatta cuocere sulla stufa; stagione
permettendo, c’erano insalata e radicchi coltivati nel piccolo
orticello lì appresso. La giornata era tutta una fatica, abbattendo e
lavorando grossi faggi (per cantieri o riscaldamento), ma soprattutto
monumentali abeti, svettanti nel cielo anche oltre quaranta metri, con
tronsönös (motosega)
che ha sostituito i primitivi rasgù (grossa
sega manovrata da due persone), sighür
(scure) e corlàss (coltellaccio
a lama larga tipo mannaia). Armi
da taglio che hanno reso proverbiale il lavoro dei boscaioli
bergamaschi nelle foreste alpine.
Nel bosco ciascuno aveva
il suo compito prevalente: Aldo e Róso, forte come un leone,
abbattevano le piante, mentre Césco e Lino erano per lo più addetti
alla lavorazione dei grossi tronchi. A rappresentare il gruppo
all’esterno, soprattutto nelle relazioni con ispettori e guardie
forestali, tanto nella fase della martellatura dei grossi tronchi,
quanto nella cubatura del legname prodotto, ma pure nei confronti dei
funzionari della municipalità durante gli appalti, era Aldo, capace di
imporsi con autorevolezza. Lino, il più giovane dei fratelli, era
sempre spiritoso e sorridente, mentre Cèsco,
il più anziano, piuttosto
taciturno, è sempre stato molto concreto e capace di sagge mediazioni. A me, giovane allievo,
affidavano i lavori meno pericolosi: sbransà
fò col seghöròt (sramare con un segotto) le piante
più piccole, già abbattute e distese per terra; pelà i bóre col scursì
(scortecciare i tronchi con l'accetta);
quindi mesörà (misurare) i
tronchi col méter (metro),
indicando con una tacca scolpita
nella bóra il punto esatto
per il taglio; infine ‘mpelà la
lègna e fà
sö i stèr (allestire le cataste di legname da un metro cubo). Un
lavoro costante,
senza sosta, dal lunedì al sabato, ininterrotto. Doveva piovere bene,
per fermarsi, perché la semplice acquerugiola, con la giüba (giaccone) di
ricambio, non costituiva un problema. Il giorno di riposo era la
domenica, quando la mattina si poteva dormire un po’ di più, ma poi
c’erano il bucato da fare e gli attrezzi del mestiere da preparare per
la settimana successiva: molà e
cadéne de tronsönös (rifare il filo alle catene della motosega),
ma anche le lame
de sighür, scursì, corlàss,… Insomma, non c’era mai
requie. A turno si
cucinava, la domenica e uno dei due “autisti”, quando poteva, andava
anche a messa la mattina, nella chiesa cattolica del paese vicino, con
l’intenzione di offrirla anche per töcc
chi ótre (a tutti gli altri) Il pomeriggio, dopo
ol pusì dol mesdé
(il pasto di mezzogiorno), era dedicato all’incontro con gli altri
convalligiani, pure emigrati. Una vita semplice, ma
intensa, è stata quella dei quattro fratelli Carminati, accomunata da
tanto lavoro vissuto e praticato insieme. Ora essi vivono una diversa
età nel villaggio di San Simù,
immersi nell’affetto dei loro cari, e la
Svizzera ormai è solo un lontano ricordo. I postumi di quelle immani
fatiche, però, continuano a farsi sentire, oggi più di ieri, con le
ginocchia e la schiena doloranti; le ferite da armi da taglio ricucite
e le ossa fratturate e poi ricomposte spesso provocano ancora dolore;
artriti, reumatismi e dolori muscolari, con töta l’aqua che ià ciapàt
sö (con tutta l'acqua che hanno preso), accompagnano nel presente la loro
quotidianità; mani tremolanti e
doloranti, per problemi di circolazione del sangue, sono rivelatori del
costante tremito della tronsönös
(motosega) fatta funzionare per giorni,
settimane, mesi, anni, di continuo, incessantemente. Ciononostante sui
loro volti, con l’immancabile sorriso sulle labbra, si leggono la
semplicità, la dignità e il coraggio di vivere, da sempre. Cèsco,
ancora oggi, quando esce di casa, non manca di appendere la felépa (fodero) alla
cintura dei calzoni, anche se ormai è orfana del corlàss, rimasto
piantàt dét en dol sò sòch
(conficcato nel ceppo)…. Per la Svizzera, invece,
resta il grande omaggio reso da un anziano ispettore forestale elvetico
che, a conclusione della sua esperienza professionale, intervistato da
chi scrive, ha dichiarato con fermezza: “L’immigrazione dei boscaioli
bergamaschi? Un' esperienza straordinaria, indimenticabile,
irripetibile!”. Anche lui con un grosso nodo alla gola…
(20.03.19) Lo spargimento del letame nei
prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel
passato. quale fertilizzante, è forse una delle attività
maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della
conclusione di un ciclo.
(03.03.19)
Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di
accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di
esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che
dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come
tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a
sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie,
presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue
caratteristiche naturali e antropiche.leggi
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La
distillazione della grappa (una tradizione di libertà) (23.02.19)
Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne
offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce
gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure,
di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene
di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute",
disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal
Cinquecento).leggi
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La
caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli
uomini avevano tempo a disposizione,öna ölta(una
volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti
all’uso dell’archibugio,i vàa a vulp(andavano
[a caccia] di volpi). leggi
tutto L'economia
delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröieloaröle(venditori
e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa
per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo
alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta
somma di denaro...leggi
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In
morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) La
triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna.
Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di
prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a
"uso vacanza".leggi
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La méssa dol rüt
(08.01.19) La
méssa dol rüt (la concimaia) era l'elemento chiave di un
paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e
sprecare risorse leggi
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Il Natale dei contadini. Un rito che non
scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18)
Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione
del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori. Quella
che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero
possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza
della macellazione con qualche immagine di insaccatura.leggi
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