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Cultura
ruralpina
Il
parto della vacca: lieto evento per la famiglia contadina
Quande la àca la gh'à de fà
di
Antonio Carminati
(14.05.19) Nelle famiglie
tradizionali delle nostre valli, la nascita di un vitellino, o meglio
di una femmina, era motivo di gioia e segno beneaugurale. La stalla era
in “fioritura” e su quel bucì
(vitello) si proiettavano nuovi progetti per la bergamina (1) in
sviluppo. Quasi come avveniva per la nascita di un figlio, tutto il
gruppo parentale ne usciva rafforzato. Finalmente venivano fugate per
sempre tutte le preoccupazioni del Tata (2) che qualcosa potesse andare
storto. Questa sensazione di rinascita complessiva si vive ancora oggi
nei piccoli allevamenti di montagna, dove le vacche fanno parte, con la
famiglia, di un’unica dimensione umana e ambientale. Ogni vacca ha un
nome e quando una di esse partorisce, è quasi come se partorisse una
donna della famiglia. Ripeto il “quasi” perché sono consapevole delle
differenze e, a questo proposito, mia moglie, rinforza i molteplici
distinguo. Le vacche continuano a rappresentare le speranze del gruppo
parentale e sono al centro di tanti interessi, non solo economici. Ieri
Bella, una grigio-alpina dal pelo chiaro, che tende al bianco, ha
partorito una vivace vitellina: Fiore sarà il suo nome e Francesco
pensa di allevarla, per ricavarne, tra meno di due anni, un’altra vacca
da latte per la sua stalla. Di norma si selezionano solo i capi
migliori, mentre gli altri sono destinati alla vendita e al macello, in
relazione alle varie opportunità che di volta in volta si presentano.
In montagna gli spazi sono limitati e la selezione è una necessità.
Il
parto della vacca segna la conclusione di una lunga attesa: nove mesi
dal concepimento, come avviene per la donna. Bella era stata inseminata
con metodo artificiale, utilizzando una fialetta di sperma congelato e
conservato in un apposito contenitore di azoto liquido che possiede
Daniele, un altro allevatore del villaggio, proprietario di una mandria
consistente: il seme proviene da un toro, sempre di razza
grigio-alpina, selezionato sulla linea latte. Tra allevatori ci si
aiuta sempre. Ormai sono poche le stalle che, desiderose di mantenere
un certo distacco dalle opportunità offerte dalla moderna tecnologia,
allevano il proprio toro. La grande maggioranza degli allevatori è
ormai orientata all’inseminazione artificiale, la quale, di volta in
volta, consente di scegliere il tipo di seme, anche di razze diverse,
in relazione agli obiettivi da perseguire. Quando, ad esempio,
l’intenzione è quella di ottenere un bovino da carne da vendere al
commerciante nelle prime settimane di vita, si utilizza il seme del
toro di razza Blu belga, la cui carne è oggi molto richiesta sul
mercato. Allo stesso modo in cui attualmente, per una piccola azienda
di una decina di capi, non è facile sostenere i costi per provvedere in
proprio all’inseminazione artificiale (che presuppone l’acquisizione di
un patentino e l’acquisto dell’apposito contenitore delle fiale
contenenti il seme), così un tempo, sino ad alcuni decenni or sono, il
toro lo possedevano solamente le "bergamine" più importanti. Per i
piccoli allevamenti non era conveniente e questi si avvalevano, a
pagamento, della monta taurina. Ovviamente nei nostri villaggi di
montagna non c’era molta scelta: si trattava sempre di un toro di razza
bruno-alpina allevato da un bergamino di professione, che dichiarava di
metterlo a disposizione anche per i piccoli allevamenti locali, che ne
erano sprovvisti. Francesco sta allevando un toro di razza
grigio-alpina (Marchino il suo nome) che incomincerà a “saltare” dalla
prossima estate.
Di norma le vacche venivano fecondate nel periodo tardo autunnale e
invernale, programmando quindi il parto tra la fine dell’estate e il
primo autunno, quando la piccola mandria era ancora al pascolo, o da
poco rientrata in stalla, quindi sciolta e allenata ai movimenti, e le
condizioni climatiche favorevoli. Il nuovo fieno era ormai raccolto sul
fienile e ci si poteva dedicare di più alla gestione delle vacche, che
nel periodo invernale entravano nella fase della piena lattazione. La
giovane manza, ü primaröl
(una primipara), veniva inseminata di norma intorno ai ventiquattro
mesi di vita, in modo da prevedere il primo parto poco prima del
compimento dei tre anni di età. Ma poteva essere portàda al tòr anche prima, intorno
ai diciotto mesi, in relazione al grado di sviluppo del quadrupede e
all’esigenza della famiglia di disporre presto di nuovo latte.
Quando la vacca o la manza la ‘gnìa
al tòr (veniva al toro), ossia muggiva ed era agitata, saltava
addosso alle altre e produceva la tipica secrezione, significava che
era in “calore” e, di conseguenza, bisognava provvedere quanto prima a portàla al tòr. Non era
un’operazione semplice perché capitava di dover percorrere anche
diversi chilometri per raggiungere la stalla dove c’era il toro, magari
anche in un altro villaggio: quando il papà era all’estero per lavoro,
questo compito veniva svolto dalla mamma, la quale, dopo ìga fàcc sö ol mösal con d’öna còrda
(le faceva una cavezza con una corda), sempre con la gambìsa (collare di legno) al collo
per ogni evenienza, la conduceva verso la meta. La mamma davanti, la
mucca dietro, legata alla corda. Bisognava armarsi di una buona dose di
energia e di coraggio per portare a termine l’incombenza. Il coraggio
non le mancava, sostenuto dalla necessità di far fronte a situazioni
improrogabili, se solamente pensiamo che, già nei primi anni Ottanta,
la robusta massaia guidava il trattore. Giunta a destinazione, poi, di
solito la vacca si legava con la corda corta a una pianta, in
prossimità della stalla dove c’era il toro (che un tempo si teneva
sempre in stalla, legato alla catena). Si cercava di tenere ferma il
più possibile la vacca, lasciando invece il toro più o meno libero di
provvedere a fare il suo dovere. So
l’fàa saltà almeno dò o trè ölte (lo si faceva saltare almeno
due o tre volte). Non sempre la monta andava a buon fine, anche a causa
dell’irrequietezza o della resistenza della vacca: in tal caso la monta
si sarebbe ripetuta più volte, attendendo sempre le manifestazioni di
calore dell’animale. La mamma ogni volta si doveva rimettere in cammino
con la sua vacca da portà al tòr.
Quando proprio la vacca la restàa öda
(restava vuota), ossia la tüìa sö
mia de fà (ossia non restava gravida), nonostante i ripetuti
tentativi di inseminazione, significava che l’ìa stèrla (era sterile) e, di
conseguenza, andava venduta il più presto possibile. Nella tradizione
locale, tanto l’inseminazione naturale della vacca, quanto il parto,
venivano tenuti lontani dagli occhi dei bambini, ai quali non era dato
sapere cosa stava avvenendo e tanto meno assistere a tali eventi, che
per loro rimanevano avvolti nel mistero.
Dall’inseminazione sino al parto, la vita della vacca viene
costantemente monitorata dal piccolo allevatore. Soprattutto in primi
mesi bisogna fare attenzione che la
bàte mia fò (che non abortisca): il proprietario se ne accorge
al momento della spassàda
(pulizia), quando en de la cöneta
dol rüt (nella cunetta del letame) trova il feto espulso. Se la
vacca è al pascolo, invece, non è così facile comprendere quanto sta
accadendo. In tal caso, bisogna ricominciare da capo, attendendo la
successiva fase di calore della vacca per ritentare l’inseminazione.
Poi, man mano che la gravidanza procede, aumentano le preoccupazioni.
Due mesi prima del parto viene interrotta la lattazione, quindi la
vacca non viene più munta, e nelle settimane successive l’animale è al
centro delle attenzioni dell’allevatore: la osserva ogni volta che
entra nella stalla, cerca spiegazioni circa suoi comportamenti: ne cura
la piena alimentazione, ne interpreta, di volta in volta, ol römià, ol mögià, ol pestà
(rumina, muggisce, battere il piede). Avvicinandosi, poi, la settimana
prevista del parto, l’irrequietezza del quadrupede, lo scalciare,
l’ingrossamento delle mammelle (mitì
dó ol pècc) e soprattutto il rilassamento delle fasce del
bacino, quando cioè la àca la
scoménsa a molà i curdù, (inizia a rilasciare i legamenti)
mettono in allerta il contadino. Töcc
i moméncc iè bù! (Ogni momento è quello buono!) Da questo
momento la vacca è costantemente sotto osservazione: ol nóno e l’passàa de nociàde fò en de la
stàla, cociàt dét en dol paèr, (il nonno passava delle nottate
nella stalla , accucciato nel suo giaciglio di paglia) perchè gli
spostamenti sono sempre stati difficili in montagna; pure la mamma,
dotata di automobile, si alzava anche quattro o cinque volte, durante
la notte, per raggiungere la stalla e assicurarsi del regolare
avanzamento delle doglie preparatorie del parto. Ogni volta si fermava
in stalla, sentàda dó söl madrìl de
la traìs, o söl scàgn (seduta sul bordo della mangiatoia o sullo
sgabello), almeno una mezzoretta ad osservare il comportamento del
quadrupede. Non mancavano le invocazioni a Sant’Antonio Abate, la cui
immaginetta compariva appesa so l’ös
de la pòrta (sulla porta di ingresso), e la richiesta di
intercessione rivolta ai pòer mòrcc
de la cà (ai morti di casa). La fiducia era tanta, il coraggio
pure, ma le preoccupazioni si facevano sentire, soprattutto quando il
parto si protraeva anche oltre quindici giorni dalla data prevista: in
tal caso la mamma la teràa fò da la
gaiòfa dol sò begaröl ü mechèt de pà benedèt, oppure ö scartusì de sal
fàcia benedì apòsta (estraeva dalla tasca del grembiale una
michetta di pane benedetto o un piccolo cartoccio di sale fatto
benedire apposta). Tutta la famiglia viveva la situazione e partecipava
all’attesa.
Durante la nostra infanzia, era di norma la mamma ad assistere al parto
della vaccherella, ma all’occorrenza si faceva aiutare da altri
allevatori del villaggio più esperti, soprattutto si avvaleva della
forza maschile, nell’ottica di dovere “aiutare” la venuta alla luce del
vitellino, come per trascinarlo fuori dal ventre materno. Nella stalla
preparava tutto l’occorrente: olio, disinfettante (allora usava il
mercurio di cromo), corda di canapa e stanghèt
(bastone). Quando la vacca la pirdìa
i aque – ossia, rompendosi le membrane, fuoriusciva il liquido
del sacco amniotico che, come un palloncino, contiene il fluido in cui
è immerso il vitellino - bisognava provvedere senza indugio. Occorreva
la forza nella stalla e gli uomini, preavvisati, accorrevano.
Verificavano innanzitutto la posizione del nascituro, raggiungendo con
il braccio, cosparso di olio, l’interno della vacca, attraverso il
canale uterino. Una volta accertata la posizione corretta di uscita del
vitellino, disposto coi pistì e ol
müsì dal denàcc (con le zampine e il musino davanti), si
cercava di favorire il parto. Attualmente Francesco lascia alla vacca
il tempo necessario per completare l’espulsione, senza intervenire
anzitempo, privilegiando la conclusione del parto nel modo più naturale
possibile. La generazione della mamma, invece, era più determinata e
l’obiettivo prevalente era quello di far nascere prima possibile il
vitellino: si legavano le zampe del vitellino, che sporgevano dal
canale uterino, con una corda di canapa, munita all’estremità de ü stanghèt – un bastone
trasversale – che ne favoriva la presa. Nei parti più difficili, di una
primipera ad esempio, oppure quando il nascituro si presentava
particolarmente grosso, poteva essere necessario l’intervento anche di
due o tre uomini, per “trascinarlo fuori”. Se il nascituro si
presentava in posizione podalica, sorgevano problemi a volte
insormontabili, che un tempo potevano portare anche alla morte
dell’animale. Non mi soffermo ora su alcune tecniche esperienziali,
messe in atto per tentare di girare il feto, che non sempre avevano
successo. Tre settimane or sono, nella stalla di Francesco, Gute, una
giovane grigio alpina, è stata protagonista di un parto gemellare:
mentre la femmina è nata normalmente, il maschio, in posizione
podalica, è stato estratto dai pistì posteriori, rischiando di
provocare la morte del vitellino, ma non c’era alternativa. Oggi vivono
entrambi e stanno bene, ma sono destinati alla vendita: nei parti
gemellari la tradizione vuole che le femmine siano stèrle, quindi non utili da
allevare.
Ogni vacca cerca la sua posizione per il parto: c’è quella che sta in
piedi, mentre l’altra si distende nella lettiera. La cönèta dol rüt, dopo averla ben
ripulita, viene riempita con abbondante fogliame, sino a predisporre un
giaciglio sicuro per il nascituro. Il vitellino, appena nato, infatti,
disteso in quel letto vegetale, viene immediatamente asciugato con
fogliame, strame e fieno, massaggiandolo da capo a piedi, per
sollecitare le funzioni vitali, quindi ripulito anche degli ultimi
residui di liquidi che gli sono rimasti in bocca. Il secondo vitellino
nato recentemente dal parto gemellare di Gute, podalico, faticava a
reagire, non si rialzava e pareva morto. Immediatamente Daniele e
Francesco gli hanno gettato addosso dell’acqua fredda, specialmente sul
muso e nelle orecchie, massaggiandogli contemporaneamente ed
energicamente il torace e stimolandone il movimento delle zampe.
Probabilmente aveva ingerito del liquido, nel ritardo del parto. Ancora
non si riprendeva. Bisognava tentare il tutto per tutto! Dopo averlo
appeso a testa in giù, agganciato con i pistì posteriori a ü rampì de la stala(con
le zampe posteriori a un gancio della stalla), hanno continuato a
massaggiarlo sul torace, per tentare di favorire l’espulsione dei
liquidi che aveva ingerito. Finalmente pian piano il vitellino ha
ripreso le sue funzioni vitali e il giorno dopo saltellava vispo dentro
il suo piccolo recinto. In quei frangenti nella stalla è un susseguirsi
veloce di azioni determinate, coordinate ad alta voce dall'allevatore
che guida e comanda tutti i presenti. Antiche soddisfazioni che si
rinnovano nelle nostre stalle dopo ogni parto felicemente concluso.
Fortunatamente la maggior parte dei parti avviene regolarmente, ma la
mamma ripete sempre che besógna ès
sémpre proéscc al caso. So
l’sà mai! (bisogna stare sempre pronti alla bisogna. Non si sa
mai). Comportamenti, regole non scritte ma imperanti, modi di fare si
trasmettono da una generazione all’altra e ogni volta si confrontano
con le nuove indicazioni.
Il ricorso al veterinario durante il parto è raro. Gli allevatori si
aiutano tra di loro e mettono in atto pratiche di intervento antiche,
che il più delle volte risultano essere efficaci. A seguito del parto,
dopo aver bene disinfettato il cordone ombelicale residuo con tintura
di iodio, il vitellino viene ancora oggi deposto accanto alla madre,
che lo lecca in continuazione, stimolando così la circolazione
sanguigna e riscaldandolo. Nel frattempo gli viene somministrato, a
mezzo del ciùcio, il latte appena munto, ricco di colostro: ne può bere
a volontà la prima volta, anche uno o due litri, mentre dal pasto
successivo (due al giorno: mattina e sera), le razioni seguiranno
indicazioni dietetiche abbastanza restrittive durante le prime
settimana di vita. Il colostro, un latte denso, granuloso e di colore
giallastro, non viene utilizzato per la caseificazione nei cinque o sei
giorni successivi al parto. Dopo circa un mese e mezzo avviene lo
svezzamento: attualmente Francesco non è così restrittivo e lascia che
i vitellini, dentro i loro piccoli recinti, incomincino ad annusare e a
mangiare un po’ di fieno, mentre il nonno, durante il periodo della
lattazione, evitava che il vitellino mangiasse fieno, foglia o
qualsiasi altra cosa che trovasse per terra, e quindi ricorreva all’uso
di un piccolo mösàl
(museruola), il più delle volte costruito da lui stesso, utilizzando un
retino di ferro di riciclo, che gli fissava sul musetto a mezzo di una
cordicella di canapa.
Attualmente i biberon, nell’emulare la forma della mammella, hanno
semplificato la lattazione artificiale, ma un tempo non era sempre
facile abituare il vitellino a bere il latte dal secchio: bisognava
invitare il vitellino a succhiare il dito indice della mano, che
gradualmente veniva immerso nel secchio contenente il latte. Così
facendo, un po’ alla volta, il piccolo bovino è portato a bere da solo.
Dopo poco più di un mese di lattazione, poi, il latte materno viene
gradualmente diluito con acqua, infine sostituito completamente con
latte artificiale, fino ai primi pasti di fieno. Diversi piccoli
allevatori di montagna preferiscono, alla lattazione artificiale,
quella naturale: in tal caso attaccano subito, dopo la nascita, il
vitellino alle mammelle della vacca-madre e così continuerà ad
alimentarsi nei mesi successivi, sino allo svezzamento.
Ogni vacca la gh’à ol sò istìnto
(ha il suo istinto) e alcune di esse, quando si sottraeva loro il
vitellino, muggivano in continuazione, come per richiamarlo, e
soffrivano al punto tale da terà sö
ol làcc (trattenere il latte), ossia per alcuni giorni
limitavano o addirittura interrompevano la produzione di latte. Sino a
pochi lustri addietro, quando il vitellino incominciava ad alzarsi e
riusciva a stare in piedi autonomamente, anche dopo un’ora dalla
nascita, questi veniva legato con una catena alla mangiatoia, accanto
alla madre, mentre attualmente viene immesso nel suo recinto in
ambiente separato.
Subito dopo il parto, quando la vacca è adagiata sulla lettiera, viene
sempre fatta alzare, quindi le si somministra un sostanzioso bierù -
beverone - che serve per ridarle forza e animo. La mamma teneva sempre
pronto ol sò butigliù pié de ì e
zöcher (il suo bottiglione pieno di vino e zucchero). Subito
dopo le dava da bere anche ‘mpó de
aqua culdìna, per ötàla a netàs bé (un po' di acqua tiepida per
aiutarla a pulirsi bene). Nei giorni successivi la bovina andava
sostenuta con una particolare alimentazione e, al fieno o all’erba,
seguivano ‘mpó de pà sèc e de panèl
(un po' di pane secco epannello di lino), che stimolavano anche la
produzione di latte. Oggi si fa uso di mangimi. La fase del parto
termina con l’espulsione della placenta, che di norma avviene nelle
prime ore successive. Seguiva, dunque, un altro periodo di attenta
osservazione della vacca, da parte dell’allevatore, per accertarsi che,
oltre alla placenta la batès mia fò
pò a’ la mare (non espellesse anche l'utero) il che poteva
portare alla perdita della bovina; in questo modo la se defetàa (diventava
difettosa), ossia diventava stèrla
(sterile). Si tentava il tutto per tutto, ossia, in tale evenienza, si
reintroduceva l’utero, dopo averlo disinfettato con acqua e asìt (acqua e aceto), e,
per evitare una seconda espulsione, si impediva la fuoriuscita a mezzo
di robusti teli di canapa, sostenuti da un’imbragatura di cinghie e
corde.
La stalla di Francesco conta oggi tre vitellini sotto il mese di vita.
Altre tre vacche sono prossime al parto e, se tutto procederà bene,
entro due mesi arriveranno altrettanti piccoli bovini. Ogni parto è
un’avventura e non si sa cosa ci riserva, ma è proprio questo senso
dell’imprevedibile a caratterizzare non solo il momento della nascita,
ma tutta l’esistenza successiva, tanto degli animali quanto degli
uomini. Per ogni vitellino Francesco elaborerà presto un progetto,
destinandoli al macellaio, allo zio, alla nonna, all’amico allevatore,
ad altri acquirenti. Per sé tratterrà una femmina, che alleverà e andrà
a incrementare la sua stalla di grigio-alpine.
Note:
(1) La mandria. La grande importanza storica della transumanza bovina
tra le valli bergamasche e la pianura ha fatto sì che, segnatamente nel
milanese, con "bergamina" si indichi la vacca da latte ma anche la
mandria di vacche da latte.
(2) Capofamiglia, di solito di famiglia multipla patriarcale.
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Serie
cultura
ruralpina (in valle Imagna)
a
cura di Antonio Carminati
Hanno ucciso la montagna (la fine della grande famiglia del nonno)
(15.04.19)
Nel racconto autobiografico di Antonio Carminati la "grande
trasformazione" degli anni '60. L'entrata nella modernità, vista per di
più come limitativa e negativa, attaverso l'esperienza di un bambino
che vive il passaggio dalla vita patriarcale di contrada a quella della
famiglia nucleare e dell'appartamento "stile città", una distanza di un
km o poco più in linea d'aria che segna il passaggio traumatico tra due
mondi.
Architettura
identitaria. I tetti in piöde, bandiere di identità valdimagnina
(06.04.19) In valle Imagna L'arte delle
coperture, della posa delle piöde ha raggiunto particolare
perfezione tanto da assumere i connotati di un emblema identitario. Non
sono poche, però, le difficoltà nel conservare e far rivivere questo
patrimonio di valori culturali (saperi, abilità) ed estetici. Un tema
per un utile dibattito con il coinvolgimento delle comunità locali e
non solo degli addetti ai lavori.
Pecà
fò mars Il rito della definitiva cacciata della cattiva stagione
(31.03.19)
Dopo il carnevale, ancora una volta, per cacciare la brutta stagione,
soprattutto la sua pazza coda di marzo, occorre produrre altro rumore,
diffondere suoni anche strani nell’aria, insomma fare chiasso e… tanto
baccano. La funzione è sempre stata duplice: da un lato
allontanare gli spiriti del male, dall’altro richiamare ad alta voce la
bella stagione, facilitando così il risveglio della natura
Omaggio
ai boscaioli emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19)
Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella
dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e
le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso
ricordarla.
La gestione
del letame nell'economia
agropastorale
montana
(20.03.19) Lo spargimento del letame nei
prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel
passato. quale fertilizzante, è forse una delle attività
maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della
conclusione di un ciclo.
La
stalla e gli altri manufatti dell’edilizia tradizionale
(03.03.19)
Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di
accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di
esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che
dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come
tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a
sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie,
presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue
caratteristiche naturali e antropiche.
La
distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19)
Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne
offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce
gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure,
di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene
di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute",
disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal
Cinquecento).
La
caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli
uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una
volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti
all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano
[a caccia] di volpi).
L'economia
delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori
e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa
per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo
alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta
somma di denaro...
In
morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) La
triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna.
Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di
prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a
"uso vacanza".
La méssa dol rüt
(08.01.19) La
méssa dol rüt (la concimaia) era l'elemento chiave di un
paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e
sprecare risorse
Il Natale dei contadini. Un rito che non
scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18)
Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione
del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori. Quella
che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero
possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza
della macellazione con qualche immagine di insaccatura.
contatti:redazione@ruralpini.it
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