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cultura
ruralpina in valle Imagna
Quel
prato al centro del mondo
Luglio
è il mese della riconquista degli spazi rurali, che al termine della
fienagione ritornano ad essere fruibili, con gioia soprattutto per
bambini e ragazzi, che finalmente possono correre un po’ dovunque e
dare spazio alla fantasia. Il prato era anche
una palestra di vita, un prezioso ambito per avviare i fanciulli ai
doveri e agli impegni degli adulti.
Il
prato dopo la fienagione, spazio-gioco dei bambini. Archivi della
memoria e dell'identità del Centro Studi Valle Imagna. Fotografia di
Santino Calegari
di Antonio Carminati
(15.07.19) Luglio
è il mese della riconquista degli spazi rurali, che al termine della
fienagione ritornano ad essere fruibili, con gioia soprattutto per
bambini e ragazzi, che finalmente possono correre un po’ dovunque e
dare spazio alla fantasia. Carne che
crès, no s’près !... (carne che cresce non si comprime)
- dicevano i vecchi.
Da marzo a giugno, invece, i prati erano intoccabili: i confini delle
proprietà costituivano limiti invalicabili, per chiunque. Guai a pestà dó (calpestare) l’èrba! Ol Tata (il patriarca) ne seguiva
la crescita tutti i giorni e li difendeva strenuamente. Già in
primavera li aveva ben rastrellati e ripuliti, dopo aver disfatto i muntù de tópe (i mucchietti di
terra scavata dalle talpe) che, soprattutto in certi anni, mettevano
sottosopra il terreno. Per disfarsene, cercava di catturarle
utilizzando micidiali trappole di ferro a scatto, inserite e ben
mascherate all’ingresso del cunicolo. La vacca del vicino che
oltrepassava la staccionata di delimitazione del pascolo, dove magari
era costretta a pelà (brucare
raso terra), e accedeva nel prato confinante, attirata dall’erba alta e
verdeggiante, costituiva un motivo più che sufficiente per innescare
accese discussioni, che spesso generavano discordie vere e proprie tra
le famiglie e magari si protraevano negli anni successivi. Solamente
per öna bràca de èrba (una
bracciata di erba), diremmo al giorno d’oggi, ma un tempo non era così,
poiché dal raccolto del fieno dipendeva la tenuta della stalla con le
due vaccherelle, il vitello e la pecora, su cui fondava la povera
economia della famiglia. Il prato, quassù, è sempre stato il principale
pilastro dell’economia familiare.
Ancora oggi i prati si presentano quali spazi delimitati, circoscritti
e definiti entro un perimetro ben preciso: ai margini c’è il bosco,
oppure il sentiero, ma anche una semplice staccionata costruita con pài e pèrteghe, öna sìsa de cornàl o de
nesöle (pali e pertiche, una siepe di corniolo e nocciolo), in
alcuni casi anche un muretto realizzato con pietre a secco. Il prato
era difeso ad ogni costo, non così il pascolo. Dopo la fienagione,
però, anche i prati, che si presentano ben ordinati, ancora oggi
tornano ad essere spazi aperti e accessibili, meno che ai bovini, per i
quali la prima fresca erbetta della rinascita – ol roböt (il ricaccio) – può
costituire un pericolo.
Il prato era lo spazio gioco dei bambini, i quali, dopo il primo anno
di vita e durante tutta l’infanzia, da una posizione di rigida
compostezza, determinata dalla stretta fasciatura, entravano in una
fase caratterizzata da ampia libertà di movimento, dapprima nel
praticello fuori casa, poi anche in luoghi più distanti, in prossimità
della stalla, infine nel bosco. Bambini e ragazzi si apprestavano alla
conoscenza personale della loro realtà, per esperienza diretta,
confrontandosi, ogni giorno, con l'ambiente e la gente della contrada.
Abbandonate le caratteristiche fasce, i fanciulli, maschi e femmine
indistintamente, indossavano semplici vestitini che facilitavano i loro
movimenti: camisì (camicine) estìne (vestine) lunghe sino alle
ginocchia venivano utilizzati per vestire e tosài (i bambini) della famiglia,
senza alcuna differenziazione personale, essendo l’indumento un bene di
tutti. Ol corpetì de lana (la
camiciola di lana) si indossava nei periodi più freddi, come pure e mödandìne de lana (mutande di
lana), che le sponciàa da töte i
bànde (venivano fuori da tutte le parti). Appena il bambino
incominciava a camminare, libero per i prati, ol Tata e l’gà fàa sö i galòse: ol scarpulì, poi, e
l’ga mitìa la söla sóta la toméra (gli confezionava delle
babbucce: le scarpettine e poi applicava una suola alla tomaia) e le
dotava di robusti lacci, rendendo franco il cammino anche lungo
sentieri e mulattiere. Nei cortili di casa normalmente si camminava a pì biócc (piedi nudi), o tutt'al
più protetti da scarpenòcc
(calzari), formati da stracci saldamente cuciti con la gaèta (spago) e ricoperti
all’esterno da tila (tela).
La fienagione sulle
Orobie. Archivi della memoria e dell'identità del Centro Studi Valle
Imagna. Fotografia di Emilio Moreschi.
Il prato era anche una palestra di vita, un prezioso ambito per avviare
i fanciulli ai doveri e agli impegni degli adulti. L’infanzia e la
fanciullezza costituivano un’età di passaggio, quindi senza specifici
diritti. Il bambino era considerato un piccolo uomo. I principi
educativi prevalenti che guidavano la sua crescita e ne seguivano lo
sviluppo della personalità erano fortemente ancorati ai valori della
famiglia, esprimevano lo stato di necessità del gruppo e riflettevano
le condizioni economiche prevalenti. Si favoriva nel bambino una sempre
maggior interazione con le esperienze, i comportamenti e le conoscenze
degli adulti, che avrebbe presto aiutato e sostituito nelle occupazioni
familiari. Quando ancora i lavori si trasmettevano in via subordinata
da parte in figlio. Sin dai primissimi anni di vita chi tosalì, chè ì vansàa fò gnà d’la tèra,
ì vàa ‘nsèma al Tata drì ai vàche, a legà sö la ìt, a fà ol fé, a fà la
fòia, a fà la lègna (quei bimbetti che quasi non sono più alti
della terra, vanno insieme al patriarca dietro alle vacche, a legare le
viti, a fare il fieno, a raccogliere la foglia, a far legna), ...
acquisendo nel tempo un bagaglio di esperienze tale da conformare le
specifiche capacità e qualità di ciascuno ai bisogni e alle aspettative
di tutti. Ol Tata non mancava
di esaltare il regolare svolgimento di tutte le funzioni e dei compiti
riferiti alla lavorazione della terra o all’esercizio di una
professione, costruendo appositamente per il bambino rastelì, derlì, gabbine, sdirnìne, poiatì, (rastrellini, gerlini,
gerlini con le bacchette distanziate, telai per il trasporto del fieno,
piccole carbonaie)… in modo tale da iniziarlo, in parte sotto forma di
gioco imitativo, a sperimentare le diverse tecniche del lavoro
contadino e a trarne le relative gratificazioni.
Come non ricordare quel piccolo pegassì
(1) che il nonno mi aveva
portato, un giovedì, di ritorno dal mercato de la Felìsa (di Selino basso)(2) Sant'Omobono. L’aveva acquistato
apposta per me e mi aveva fatto sentire grande. Ol pegassì era un’arma da taglio
personale e il nonno portava il suo sempre con sé, nella grande gaiòfa (tasca) delle sue bràghe de föstàgn (pantaloni di
fustagno) tappezzate di rammendi. Quando si sedeva a tavola, il manico
rosso di anilina sbucava dalla tasca e io cercavo di sfilarglielo.
Utilizzare, anche solo per pochi momenti, ol pegassì dol Tata era l’evento della
giornata. Il nonno era dotato di una particolare sensibilità e di una
straordinaria larghezza di vedute, che non ho più ritrovato in seguito,
e, quando ha capito che mi stavo indirizzando verso gli studi e le
lettere, anziché seguire la tradizione professionale di famiglia, nei
primi anni Settanta mi acquistò, nonostante le giuste esitazioni dei
genitori, una chitarra, che allora tanto desideravo. Un ricordo davvero
commovente. Il prato, in quel periodo, aveva improvvisamente perso la
sua centralità, frutto di un’alleanza plurisecolare con l’uomo, e la
nuova frontiera si era spostata verso l’industria della fabbrica e
della scuola, dove si sono poi sviluppati ingenti processi di
massificazione e di omologazione.
Gli spazi aperti, in un contesto ambientale che stimolava diverse
percezioni sensoriali - pensiamo anche solo al contatto diretto con il
suolo, camminando a piedi nudi nei prati appena rasati, come facevano
normalmente i bambini - e invitava a costruire nuove esperienze dirette
e personali all’aria aperta, erano bilanciati dalla presenza della
famiglia, che indirizzava il fanciullo a finalizzare gli spazi di
libertà. Il prato era la terra, l’economia, il lavoro, l’ambito di
espressione del gruppo parentale, dove concretizzare l’impegno e il
dovere dei singoli membri. L’impotenza di fronte ai fenomeni di una
natura spesso matrigna, in grado di annullare sic et sempliciter tutti
gli sforzi e i lavori dell’uomo, stimolava gli individui a cercare
protezione nella divinità. Ol Tata
bruciava l’ulivo benedetto, in atteggiamento di preghiera, affacciato
alla finestra della sua camera, soprattutto quando, durante il periodo
del raccolto, c’era la tempesta in arrivo, per allontanare il cattivo
tempo, portatore di brutti presagi, e invitare il ritorno del sole.
Così pure, al termine della fienagione, recitava nel prato Paternòster e Requièm di ringraziamento.
Archivi della memoria e
dell'identità del Centro Studi Valle Imagna. Fotografia di Santino
Calegari.
Il riconoscimento di un'autorità soprannaturale e la sottomissione alla
famiglia disciplinavano il comportamento dei fanciulli: “Se te fé mia ol brào, té ‘nderé
al'enfèren, a brösà en mèssa ai fiàme de tò pecàcc!... (Se non
fai il bravo andrai all'inferno in mezzo alle fiamme dei tuoi
peccati). Se te ‘ndé mia a
mèsa, o mòrcc i sé farà sentì e de nòcc e te tirerà e pì!... (Se
non vai a messa i morti si faranno sentire e verranno di notte a
tirarti i piedi). Fàs benedì, perchè
ì t’à streàt ü quàch!... (Fatti benedire poerché ti ha stregato
qualcuno)”. Inoltre la sgiàela (bacchetta
"correzionale")(3) era sempre
in bella evidenza da tutte le parti: sö
la credénsa dol camì, en sagrestéa, a scöla söl tàol de la maèstra (sulla
credenza del camino, in sagrestia, a scuolasul tavolo della maestra).
Ma poi, alla fine, il nonno e la nonna svolgevano una funzione
rassicurante. Attorno ad essi, cemento e linfa della grande famiglia
contadina della montagna orobica, si ricomponevano sicurezza e ordine.
Probabilmente, ancora prima di saper padroneggiare la sequenza dei
movimenti, è stata la nonna a muovermi la piccola mano abituandomi a
tracciare il segno della croce, a portarmi immancabilmente in Chiesa la
domenica per la messa e, in linea generale, ad indirizzarmi alla
pratica della dottrina cristiana e a partecipare alle funzioni
religiose. Nella grande famiglia del Tata,
a Canito, l’autorità della nonna superava in linea gerarchica quella
della mamma. I bambini che si apprestavano ad acquisire il linguaggio,
imparavano ben presto le principali preghiere dagli anziani: Fìga dì sö ol Pàter a chèl tùs!...
(Fategli recitare il Pater a quel ragazzo) - era l’invito rivolto dagli
anziani ai familiari, per infondere nei più piccoli ol respèt e ol timùr de Déo (il
rispetto e il timore di Dio).
Nel lettone dei nonni, prima di coricarsi la sera, besognàa fà ol sègn de la crùs,
(bisognava fare il segno della croce) accompagnato dall’Angelo di Dio,
mentre dopo la sveglia mattutina, apéna
saltàcc dó dal lècc (appena saltati giù dal letto), il segno
della croce era seguito dalla recita del Padrenostro.
La continua partecipazione dei fanciulli al mondo e alle esperienze
degli adulti, sia sotto il profilo dell'educazione religiosa, che del
gioco e del lavoro, determinavano un significativo processo di
identificazione di funzioni e ruoli. Nell'imitazione dei grandi, il
bambino proiettava se stesso in un mondo quasi idealizzato dalla
tradizione, nel quale trovava soddisfatte le proprie esigenze e si
sentiva realizzato. La strada maestra era tracciata. In questo modo il
fanciullo partecipava allo svolgimento delle attività lavorative della
famiglia: già in età prescolare e della scuola elementare, ì vàa a sercà sö nus e castègne, ì teràa
‘nsèma la tràgna dol pràt, i gh’ìa da netà fò ol serài de galìne, ì vàa
en dol bósc a otàga ai sò ècc... (vanno a cercare noci e
castagne, a raccogliere il feltro del prato, devono pulire i pollai,
vanno nel bosco ad aiutare i genitori).
Gruppo di bambini nel prato. Corna Imagna, Contrada
Canito. Primi anni Settanta. Archivi della memoria e dell'identità del
Centro Studi Valle Imagna. Fotografia di Santino Calegari.
Ciascuno di noi ha il suo “prato
dell’infanzia”, dove ha sperimentato le prime autonome relazioni con il
mondo circostante. Il mio è stato quello del Pianèt de l’èra (Pianello
dell'aia): un modesto pianoro situato sulla dorsale che, dalla Valle
del Gandino, sale sino ai Pedesì
(Pedesino)(4) e quindi raggiunge a
Nord ol Sécol (Monte Zucco),
oltre i pratoni dei Càlf
(Calvi)(4). Ol (Il) Pianèt de l’èra è adagiato proprio
sopra ü cornèl (il cornèl)(5), sotto il quale il nonno aveva
costruito la casa per la sua grande famiglia, separandosi così da
quella del fratello Giacomo, altrettanto numerosa. Un sentierino,
scavato nella roccia, consentiva di raggiungere velocemente quel
praticello, oltrepassando ol pòrtec
de la lègna (il
porticato per il deposito della legna), situato dietro l’abitazione. A
dominare il Cornèl, come
un’enorme bandiera svettante sulla valle, c’era una grossa quercia,
dalla quale ogni anno si raccoglievano secchi di ghiande per i maiali.
Quell’albero maestoso ha ricevuto, tra le sue fronde, i pallini dei
miei primi colpi di fucile con la doppietta calibro 16 sottratta al
nonno. Volgendo lo sguardo a monte, al pianoro fanno seguito cinque o
sei balze terrazzate, sostenute da cigli erbosi, sino a raggiungere la Stala sö a l’èra (stalla su
all'aia), dove il nonno allevava con passione le sue poche vaccherelle.
Söl (Su al) Pianèt de l’èra mi sono affacciato
alla vita costruendo esperienze personali. Sopra quel manto erboso
correvo felice rincorrendo ol Mósca,
il cane pastore del nonno, dal pelo brizzolato lungo e a taccole, e ol Muschì, il suo cucciolo, che in
seguito hanno dato vita a una discendenza di cani tutti con lo stesso
nome; ho impugnato il mio primo rastrello e mi sono divertito saltando
i muntù de fé (mucchi di
fieno), sfidando a volte le gravi imprecazioni del nonno che mi
richiamavano all’ordine: - Ghìo
l’òsti!... (6)
Nel prato ho assistito al pascolo delle vacche, mentre il nonno,
appoggiato al suo bastone, le seguiva a vista. Sempre su quel pianoro
mi rifugiavo quando scorgevo la mamma che, minacciosa, veniva a
prendermi, per riportarmi nella casa nuova, fò a la Césa (vicino alla chiesa),
che rifiutavo. Proprio söl Pianèt de
l’èra ho imparato a costruire e posare archècc e architù, (archetti e
archettoni (7) ho raccolto i primi laarì söl bachitù (lucarini sulla
bacchetta)(8) e ho sperimentato la
posa dei ridì (reti) di
cinque metri, catturando peciài e
frànguei, montanèi e cuelùnghe,
(pettirossi e fringuelli, peppole, codibugnoli) anche qualche mèrlo e
altri uccellini che non conoscevo, con i quali, ben stretti nel pugno,
mi fiondavo orgoglioso dal nonno per sapere cosa fossero. Partecipavo
inconsapevolmente e con entusiasmo alla scuola della vita. Nel periodo
autunnale, invece, in attesa della prima neve, sempre guardingo nei
confronti degli estranei, c’era l’attesa dei montanèi di passo, che volavano
alti, in stormo, e si appoggiavano sulla grossa rùer (quercia). Ol Tata era geloso della sua
doppietta, che custodiva nel vestére
(armadio) della sua camera, assieme al
capèl e al vestìt de la fèsta, (al cappello e all'abito della
festa) o meglio si preoccupava di un uso improprio e pericoloso. La
nonna, invece, era più accondiscendente e chiudeva sempre un occhio di
fronte alle mie “scappatelle” col fucile del nonno.
Valsecca (Valle Imagna). Sulla mulattiera che porta
alla contrada Camozzo. Primi anni Settanta. Archivi della memoria e
dell'identità del Centro Studi Valle Imagna. Fotografia di Alfonso
Modonesi
Ol Pianèt de
l’èra, con l’affaccio a balcone sul villaggio sottostante di Saiàcom (Selino alto)(9) e lo sguardo aperto e dall’ampia veduta sul versante
opposto della valle, è stato il mio primo spazio di libertà. Lassù, in
quel praticello, proprio dove il nonno aveva radunato tutta la sua
famiglia perché il fotografo scattasse l’unica importante fotografia di
gruppo (poi incorniciata e appesa nella sua camera da letto), la
fantasia faceva un tutt’uno con la realtà. Söl Pianèt de l’èra tutto era
possibile, cielo e terra erano a portata di mano per un bambino che si
affacciava alla vita. Lassù mi incontravo e giocavo con gli altri amici
della contrada, mi rifugiavo a volte in solitudine, stringevo relazioni
quotidiane con la grossa quercia, il prato, il sentierino scavato nella
roccia, i volatili stanziali e di passo, la stalla e gli animali del
nonno. Quello è stato il mondo della mia infanzia, il banco di prova e
l’orizzonte spensierato tante avventure, col nonno e la nonna sempre
sullo sfondo.
Söl Pianèt de l’èra
è scorso velocemente il tempo della mia prima età, quando ho acquisito
l’uso di gesti e parole, ancora molto presenti nel substrato
dell’esistenza attuale.
Note
(1) piccola
roncolina pieghevole usata soprattutto per la potatura.
(2) Frazione fusa con
altre e costituente il centro di Sant'Omobono.
(3) Bacchetta di
nocciolo molto flessibile, più un frustino che una bacchetta rigida.
(4) Località di cascine
di monte, utilizzate in estate.
(5) Toponimo diffuso
nella montagna lombarda e indicante una cima rocciosa , diminutivo di
Corna da confrontare con il bretone Corn = roccia, gaelico
scozzese Cairn = mucchio di rocce.
(6) Ghio = interiezione
senza significato, osti è comune bestemmia contro il SS sacramento,
appena cammuffata (del genere ostrega, osteria).
(7) Trappole tradizionali
utilizzate per cappurare piccoli uccelli. Gli archettoni, più, grossi,
venivano utilizzati per la cattura dei merli, i classici archetti,
collocati sulle siepi per i pettirossi, codibugnoli e altri piccoli
insettivori.
(8) Bacchette impaniate,
ovvero spalmate del succo delle bacche di vischio per "incollare" le
zampette degli uccelli.
(9) Frazione di
Sant'Omobono, un tempo comune.
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Serie
di cultura
ruralpina (in valle Imagna)
a
cura di Antonio Carminati
Giugno: tra
intenso lavoro campestre e rito
(16.06.19) Nel mese di giugno, non possono essere dimenticati almeno
tre eventi ricorrenti e particolari, assai sentiti e vissuti nel
calendario rituale dei contadini: due di essi celebravano i poteri
magici della notte, solitamente frequentata dagli spiriti che si
volevano propiziare. Queste notti, che cadono nel periodo del solstizio
Il
fienile come granaio (in montagna)
(08.06.19)
Nella civiltà agropastorale alpina il
fieno assume unaforte centralità. Dalla sua raccolta dipende la
possibilità di mantenere più o meno animali durante l'inverno, animali
da vendere oda utilizzare per il latte, animali produttori del prezioso
letame. Dal fieno quindi dipendeva la ricchezza (o la minor povertà,
per meglio dire) della famiglia contadina
Tempo
di preparazione all'alpeggio
(18.05.19) A
Corna Imagna, come in tante realtà delle prealpi, l'alpeggio è
praticato spostandosi su maggenghi siti a diverse quote, sino a
raggiungere i 1.000 m. Si reata, però, sempre a moderata distanza
dal villaggio. Così il contadino saliva e scendeva ogni dai
pascoli e la sua attività principale continuava ad essere la
fienagione. Per le bestie, ma anche per gli uomini, era comunque un
periodo atteso.
Maggio:
natura fiorita e culto
popolare
(10.05.19) Quando
la fede popolare umanizzava e santificava la natura in fiore, i campi,
il territorio. Nel mese di maggio, oltre al culto mariano, erano
importanti le preghiere e i riti di benedizione delle case, dei campi,
dei raccolti ancora incerti. Lo spazio abitato, che andava ben oltre
quello "urbanizzato", era presidiato da contrade e cascine e marcato da
numerose presenze del sacro, prime tra tutte le santelle per le
quali transitavano le processioni delle rogazioni a marcare lo spazio
simbolico della comunità da difendere dal disordine e dalla negatività leggi
tutto
Quando
la vacca deve partorire. Quand che la aca la gh'à de fà
(05.05.29)
Per la famiglia contadina tradizionale, ma anche per il piccolo
allevatore di montagna di oggi, l'attesa del parto della vacca è piena
di trepidazione. Si spera che nasca una femmina ma si temono le
complicazioni del parto. Ancor oggi tutto quello che ruota intorno alla
riproduzione bovina nelle piccole stalle è oggetto di pratiche di
solidarietà orizzontale che tengono insieme la comunità degli
allevatori locali.
Hanno
ucciso la montagna (la fine della grande famiglia del nonno)
(15.04.19)
Nel racconto autobiografico di Antonio Carminati la "grande
trasformazione" degli anni '60. L'entrata nella modernità, vista per di
più come limitativa e negativa, attaverso l'esperienza di un bambino
che vive il passaggio dalla vita patriarcale di contrada a quella della
famiglia nucleare e dell'appartamento "stile città", una distanza di un
km o poco più in linea d'aria che segna il passaggio traumatico tra due
mondi.
Architettura
identitaria. I tetti in piöde, bandiere di identità valdimagnina
(06.04.19) In valle Imagna L'arte delle
coperture, della posa delle piöde ha raggiunto particolare
perfezione tanto da assumere i connotati di un emblema identitario. Non
sono poche, però, le difficoltà nel conservare e far rivivere questo
patrimonio di valori culturali (saperi, abilità) ed estetici. Un tema
per un utile dibattito con il coinvolgimento delle comunità locali e
non solo degli addetti ai lavori.
Pecà
fò mars Il rito della definitiva cacciata della cattiva stagione
(31.03.19)
Dopo il carnevale, ancora una volta, per cacciare la brutta stagione,
soprattutto la sua pazza coda di marzo, occorre produrre altro rumore,
diffondere suoni anche strani nell’aria, insomma fare chiasso e… tanto
baccano. La funzione è sempre stata duplice: da un lato
allontanare gli spiriti del male, dall’altro richiamare ad alta voce la
bella stagione, facilitando così il risveglio della natura
Omaggio
ai boscaioli emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19)
Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella
dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e
le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso
ricordarla.
La gestione
del letame nell'economia
agropastorale
montana
(20.03.19) Lo spargimento del letame nei
prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel
passato. quale fertilizzante, è forse una delle attività
maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della
conclusione di un ciclo.
La
stalla e gli altri manufatti dell’edilizia tradizionale
(03.03.19)
Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di
accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di
esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che
dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come
tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a
sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie,
presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue
caratteristiche naturali e antropiche.
La
distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19)
Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne
offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce
gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure,
di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene
di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute",
disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal
Cinquecento).
La
caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli
uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una
volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti
all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano
[a caccia] di volpi).
L'economia
delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori
e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa
per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo
alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta
somma di denaro...
In
morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) La
triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna.
Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di
prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a
"uso vacanza".
La méssa dol rüt
(08.01.19) La
méssa dol rüt (la concimaia) era l'elemento chiave di un
paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e
sprecare risorse
Il Natale dei contadini. Un rito che non
scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18)
Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione
del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori. Quella
che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero
possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza
della macellazione con qualche immagine di insaccatura.
contatti:redazione@ruralpini.it
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