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Cultura
ruralpina
Ecologia
popolare
Il rito primaverile della definitiva
cacciata della cattiva stagione (pecà
fò mars)
di
Antonio Carminati
(31.03.19) Marzo è un
mese di passaggio. Qui la “cattiva” stagione si incontra con la nuova,
portatrice di rinnovate speranze, dando luogo a diverse situazioni
conflittuali. Freddo e caldo cercano di convivere, spartendosi la
giornata, buio e luce, riposo e lavoro, passato e futuro. Nel
frattempo, nelle famiglie contadine, incominciano a prendere vigore i
programmi per la nuova stagione produttiva, mentre gli anziani
dispensano previsioni circa l’andamento delle varie colture e attività
rurali, in relazione all’evolversi del tempo meteorologico e ad altri
“segnali” tratti dalla natura e della vita quotidiana. Sino a pochi
decenni or sono, partivano gli emigranti stagionali e le famiglie, con
quanti rimanevano a casa (donne, anziani e bambini), si riorganizzavano
nella distribuzione dei diversi lavori. La pulizia dei prati è ultimata
e il bosco è stato confinato entro i suoi limiti, impedendone quindi
l’avanzamento incontrollato; anche il letame è ormai ben distribuito un
po’ dovunque. Orti e campi, un tempo molto più diffusi, hanno cambiato
colore, con le zolle di terriccio ribaltato a vanga e di colore nero,
bene ingrassato e pronto per le prime semine. La società rurale è
continuamente sollecitata da attività e adempimenti connessi alle
diverse stagioni.
A marzo le
giornate si
sono vistosamente allungate e tra pochi giorni si passerà all’ora
legale. L’invito al lavoro è più che manifesto e i primi caldi raggi di
sole invitano contadini e piccoli allevatori a caà fò la giüba e a terà
sö i màneghe de la camìsa (a togliersi la giacca e a rivoltarsi le maniche della camicia). Si pensa già alla prossima stagione agraria
e dell’alpeggio, mentre le vacche nelle stalle le scoménsa a pestà,
desiderose di uscire all’aria aperta per tornare e muoversi in libertà
nei prati. Si odono muggire di frequente, passando vicino alle stalle.
I fienili si stanno svuotando e le scorte di foraggio sono ormai agli
sgoccioli. Manca sempre un po’ di fieno: così succede quasi tutti gli
anni. Si temono le code, improvvise e repentine, dell’inverno, che
cerca di resistere alla sua cacciata definitiva, mentre la neve, sulla
cima del Resegone e sulle alture circostanti, costituisce ancora un
monito, un serio motivo di attenzione. In questo periodo, però, lo
sguardo è attratto soprattutto dai peschi in fiore, dalle bianche
fronde dei ciliegi selvatici che disegnano macchie di speranza nel
bosco che sta indossando il nuovo vestito di primavera. Nei prati
incomincia a spuntare la prima fresca e tenera erbetta. La natura si
sta svegliando, dopo il lungo riposo invernale. Ma l’inverno, seppure
ormai in ginocchio, non è ancora sconfitto del tutto. Non gli è ancora
stato inflitto il colpo ferale, tale da porlo definitivamente fuori
scena. Non sono evidentemente bastati gli schiamazzi e le feste del
carnevale per richiamare la primavera e anche la Quaresima pare
rappresentare l’ultimo capitolo della grande narrazione dell’inverno.
La Pasqua è alle porte e tra poche settimane porterà una forte ventata
di ritorno alla vita, che è anche resurrezione della natura.
Ancora una volta, per
cacciare la brutta stagione, soprattutto la sua pazza coda di marzo,
occorre produrre altro rumore, diffondere suoni anche strani nell’aria,
insomma fare chiasso e… tanto baccano. Rumori e frastuoni sono
provocati, nella tradizione locale, pressoché durante tutti i
principali riti di passaggio, come quello della cacciata delle Tenebre
il Sabato Santo, ma anche nei momenti di giubilo e di festa della
comunità, mediante chiamazzi, voci di cori spontanei, l’intervento
della banda musicale, lo sparo di mortai,… Il rumore è vita, il
silenzio è morte. La funzione è sempre stata duplice: da un lato
allontanare gli spiriti del male e le forze contrarie allo sviluppo
della natura, dall’altro richiamare ad alta voce la bella stagione,
facilitando così il risveglio della natura. È molto di più di
un’invocazione, anzi quasi una forzatura, un ordine, in posizione di
comando. Una similitudine: come quando, con il rastrello, non si
pulisce solo il prato da bachècc e fòia (1), forzando i denti del lungo
pettine nella terra, viene quasi graffiata la cotica erbosa, provocando
solchi e linee nel terriccio così smosso, quasi ad aprire nuovi varchi
per lo spuntare repentino della prima erbetta.
Insomma, il mese di
marzo va cacciato prima possibile e, con esso, definitivamente, anche
la cattiva stagione. Nel villaggio di San
Simù (Corna Imagna), come
anche in altri della Valle Imagna, resiste tutt’ora una tradizione
particolarmente significativa, che coinvolge soprattutto bambini e
ragazzi e si svolge l'ultimo giorno di marzo, la sera, all’imbrunire,
poche ore prima dell’ultimo respiro di marzo. Eccolo il colpo ferale
inferto a Messer Inverno! Un vero e proprio rito di passaggio di
stagione, tanto più necessario e sentito in tutte le comunità rurali
che un tempo fondavano la propria esistenza sullo sfruttamento delle
risorse naturali. La componente giovanile, durante la settimana
precedente, si industriava nei preparativi: ciascun ragazzo si
procurarva uno strumento che facesse il maggior baccano possibile,
mentre i più grandicelli si occupavano dell’organizzazione del percorso
del gruppo festante, di contrada in contrada. Per pecà fò màrs
(cacciare marzo) non occorrevano particolari attrezzature, ma pochi
comuni strumenti ben
congegnati tra loro, di facile reperimento tra gli utensili della casa
e gli attrezzi della campagna, magari opportunamente modificati per
l'occorrenza. Erano ideali - per fà
bordèl e spaént - schèle e ciòche de àche, coèrcc de padèle, bernàs e
moèta, tóle legàde ‘nsèma e teràde drì con d'öna corda, ol penàcc con
legàda dét ona cadéna (per far baccano e spavento - campani e
campanacci delle vacche, coperchi di padelle, molle del caminetto, mole
da taglio, latte legate insieme e trascinate con una corda, la zangola
a pistone con legata dentro una catena) ,... insomma tutto quanto
poteva concorrere allo scopo di fare il più baccano possibile.
L’ultima sera di marzo,
dunque, sull’imbrunire, ancora oggi gruppi di fanciulli si radunano
nelle varie contrade e danno vita a cortei spontanei, provocando ogni
sorta di baccano con latte e tolle, trascinando catene e ferri vecchi;
altri utilizzano i campanacci delle mucche appesi nelle stalle, oppure
vecchie pentole come tamburi. Il corteo schiamazzante è deciso a
cacciare l’inverno, invocando a gran voce l’arrivo della primavera.
Occorreva fare più rumore possibile, perchè - a detta dei vecchi - ol grànd bordèl (il gran baccano)
avrebbe
allontanato, insieme con la cattiva stagione, anche le forze del male.
La cacciata di marzo sottintendeva dunque, in positivo, un aperto
invito all'attività, nella fiducia di una natura favorevole al lavoro
dell'uomo e di una stagione generosa di raccolti. Allo svolgimento di
questo rito, carico di risvolti apotropaici e propiziatori,
partecipavano, a differenza del carnevale e della ràma (2),
anche le ragazze e i fanciulli, i quali, per questa circostanza,
accompagnati dai fratelli maggiori, venivano autorizzati a circolare al brü (buio), senza che strée e folècc (streghe e folletti)
potessero incutere paura o glià
portès vià (li rapissero).
Con il calar della sera, dunque, bambini e ragazzi, guidati dai più
intraprendenti, dopo aver rallegrato con il frastuono prodotto gli
abitanti della propria, raggiungono le vicine contrade del paese,
incontrando e confondendosi con altri analoghi cortei provenienti da
altri abitati. Bene accolti dalla popolazione per il gradito auspicio e
il significato augurale della manifestazione, le donne, sempre
accoglienti, non mancano di riservare ai festanti ü tùnt de frétole o de gàle (un
vassoio di frittelle e di gallette),
mentre qualche giovanotto, soprattutto nel passato, si accomunava agli
schiamazzanti, scaricando in aria la propria doppietta. Al giorno
d’oggi è facile assistere alle corse festanti di motorini e auto che
trascinano dietro file de tóle legàde
‘nsèma (file di latte legate insieme)
che rotolano vorticosamente sull’asfalto, muovendosi senza un ritmo di
qua e di là, travolte da un moto incessante e assai rumoroso.
Quest’anno, in particolare, la primavera chiama acqua, per la mancanza
di precipitazioni piovose che rendono rati e campi aridi e secchi,
impedendo alla natura di germogliare e di prendere vigore sotto i caldi
raggi solari giunti in largo anticipo. Pecà fò màrs (cacciare marzo) per
invocare la pioggia, dunque, e alimentare così il ciclo rigenerativo.
Con l'abbandono
ufficiale e “definitivo” (?) della stagione invernale, anche le forze
giovanili del villaggio riprendono vigore, pronte ad aumentare i ritmi
di lavoro: il risveglio della natura, con la quale essi, soprattutto
nel passato, costituivano un tutt’uno, era anche supportato
dall’acquisizione di una maggior consapevolezza de töcc i laùr che gh’ìa de fà! (di
tutte le operazioni che si dovevano eseguire).
Il ciclo di vita dei contadini e allevatori sulle nostre montagne
rispecchiava fedelmente la successione periodica e naturale delle
stagioni: l'inverno essi riposavano con la natura, godendo dei frutti
raccolti e preparandosi ad affrontare meglio la nuova annata; con il
rinverdire di prati e boschi, anch’essi si "risvegliavano",
industriandosi tra le attività produttive connesse alla prosperità
della terra. In questa prospettiva temporale, in sintonia con la
naturale successione delle cose, vanno collocate e assumono significato
le principali manifestazioni di festa delle comunità rurali, dove i
giovani sono sempre stati protagonisti essenziali, primi attori nel
caratterizzare i principali momenti di vita sociale tra febbraio e
maggio. Sono i giovani a rigenerare la vita nel villaggio e le feste di
primavera colorano la dimensione sociale della comunità, offrendo lo
spunto alle sue componenti migliori e più espansive, desiderose di
esprimersi spontaneamente e in libertà. Anche il comportamento burlesco
dol pès d'avrìl (del
pesce d'aprile),
oggi meno sentito e praticato perché sprovvisto del retroterra
socio-agricolo di un tempo, era molto ricorrente e contribuiva a
rianimare le relazioni sociali con spirito e divertimento, senza
peraltro arrecare danno ad alcuno. Ragazzi, ma anche i meno giovani e
le donne, animati da un rinnovato spirito primaverile, ì se ciamàa da öna cà con l'ótra
(si chiamano da una casa all'altra) per scambiarsi, con allegre
burle, “omaggi” reciproci. Raccontava la nonna: i te mandàa a ciamà e, quande che te
reàet, ì s'enveàa töcc a gregnà e ì te disìa: “Gh’è sà ol pès d'avrìl!” (ti
mandavano a chiamare e quando eri arrivato ti dicevano "C'è qui il
pesce d'aprile").
Dietro ai comportamenti
delle persone si cela un incredibile mondo di credenze, abitudini,
valori,… una straordinaria umanità che, il più delle volte, viene
trascurata o sottovalutata. Oltre ai beni materiali (le risorse
agricole e artigianali, i mestieri, gli oggetti, i manufatti, gli
immobili,...), i nostri villaggi conservano ancora un ricco patrimonio
di risorse immateriali, che si manifesta nello stile di vita delle
persone, nelle credenze, nei riti, nelle tradizioni, tanto nelle feste
quanto nella propensione al lavoro e nelle abitudini dei suoi abitanti.
Ciascuna comunità applica e trasmette una ricchezza formidabile di
relazioni e iniziative sociali ancora ben percepibili dal comportamento
degli anziani e dalla ripetizione, da parte dei giovani, di antiche
pratiche che documentano la storia sociale del gruppo. Sono aspetti
riguardanti la vita di un popolo, dai quali possiamo attingere
informazioni storiche, tecnologiche, artistiche, economiche e riferite
ai costumi. Riconoscere questo insieme di beni e di valori sociali
significa interpretare la tradizione senza pietrificarla, dando nuovo
impulso alle espressioni culturali tradizionali, non solo per
conservarle passivamente, bensì con l’intento di mantenere vivo il
“fuoco” che le ha generate.
Note
(1) bachète
= gli steli lunghi e lignificati delle grandi ombrellifere e di altre
dicotiledoni che non si decompongono; fòia = il residuo non decomposto
della foglia di faggio raccolta nel bosco e utilizzata per la lettiera
del bestiame che, parimenti, rappresenta la componente del letame non
decomposta.
(2) La ràma
è una festa che si celebra il 3 febbraio e prevede la sfilata in
processione di un grosso ramo con rami secondari ai quali vengono
appesi doni da mettere all'incanto.
Sui riti
primaverili di risveglio della natura leggi anche su Ruralpini
Ciamáa l erba
(21.03.09) Da qualche anno c'è una forte ripresa dei
tradizionali rituali propiziatorie primaverili. Rivivere
collettivamente la scansione delle stagioni, dire basta ai
capannoni. Ecco come la ritualità tradizionale torna viva e funzionale
ai bisogni attuali
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Serie
cultura
ruralpina (in valle Imagna)
Omaggio
ai boscaioli emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19)
Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella
dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e
le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso
ricordarla.
La gestione
del letame nell'economia
agropastorale
montana
(20.03.19) Lo spargimento del letame nei
prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel
passato. quale fertilizzante, è forse una delle attività
maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della
conclusione di un ciclo.
La
stalla e gli altri manufatti dell’edilizia tradizionale
(03.03.19)
Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di
accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di
esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che
dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come
tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a
sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie,
presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue
caratteristiche naturali e antropiche.
La
distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19)
Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne
offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce
gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure,
di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene
di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute",
disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal
Cinquecento).
La
caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli
uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una
volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti
all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano
[a caccia] di volpi).
L'economia
delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori
e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa
per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo
alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta
somma di denaro...
In
morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) La
triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna.
Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di
prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a
"uso vacanza".
La méssa dol rüt
(08.01.19) La
méssa dol rüt (la concimaia) era l'elemento chiave di un
paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e
sprecare risorse
Il Natale dei contadini. Un rito che non
scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18)
Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione
del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori. Quella
che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero
possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza
della macellazione con qualche immagine di insaccatura.
contatti: Whatsapp 3282162812
redazione@ruralpini.it
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