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Cultura
ruralpina
Architettura
identitaria
I tetti in piöde, bandiere di identità
valdimagnina
di
Antonio Carminati
(06.03.19) I manufatti, grandi i piccoli
che siano, immersi negli spazi della dimensione rurale, hanno una
propria dignità e sono portatori di qualità e significati unici e
irripetibili. Ciascuno di essi esprime un valore in sé, condizionato
alla sua stessa natura, per la misura (mai invadente), i materiali, le
funzioni, le espressioni che ha rappresentato e la sua collocazione nel
contesto. Identità del singolo bene e identità del luogo in cui esso si
trova. Sì, proprio così, come le persone. Questo principio, della
dignità, vale soprattutto per le infrastrutture agrarie e sociali di
monte, plasmate dal lavoro quotidiano dei montanari, che nel corso dei
secoli, dal Medioevo, ma anche prima, fino ai tempi attuali, hanno
svolto una straordinaria azione umanizzante di ambienti, vissuti e
lavorati in prima persona e con tanta fede. La dignità di un luogo o di
un manufatto non è rinvenibile solamente nelle sue dimensioni fisiche,
oppure nella composizione materica o dalla sua rappresentazione
esteriore, ma soprattutto per i contenuti storico-culturali e sociali
di cui è portatore e dal linguaggio che è in grado di esprimere. Per
cogliere la dignità anche solo di uno dei tanti elementi che compongono
un manufatto, occorre costruire con esso una relazione, aprire un
dialogo interiore, ascoltare il respiro delle pietre di cui è composto,
coglierne l’essenza, risalire all’azione del pecaprìde (scalpellino)
costruttore, col
desiderio di comprendere gli aspetti di vita salienti di quelle persone
che hanno vissuto e utilizzato il bene. In questo modo anche un
semplice oggetto, il particolare di una costruzione, si trasforma in
uno scrigno di memorie, in un contenitore di conoscenza. Quello
straordinario mondo di cose, manufatti, ambienti complessi, che passa
sotto il titolo di “edilizia rurale di tradizione”, in realtà non è
altro che un grande voluminoso “dizionario” concreto di vissuti
individuali e familiari, di esperienze professionali, di conoscenze e
valori.
Quanti beni possediamo,
di cui ignoriamo l’esistenza, o non ne abbiamo ancora ben compreso il
valore! Uno di questi, oggi a rischio di scomparsa, è il tradizionale
tetto in piode delle antiche case e stalle della valle Imagna, che
veniva ancora costruito sino ai primi decenni del Novecento, poi
definitivamente abbandonato. L’edilizia rurale della valle è stata
fortemente caratterizzata dall’utilizzo della pietra, dalle fondamenta
delle costruzioni, grandi e piccine, abitative e produttive, sino alla
copertura. Le antiche contrade appaiono come roccaforti murate, con le
case-torri posizionate sulla cinta esterna, muri di delimitazione delle
corti negli altri ambiti interni, strutturate attorno ad un impianto
urbanistico e difensivo efficace. Diverse fotografie del primo
Novecento documentano l’esistenza di molti insediamenti umani così
organizzati, che se avessimo avuto la forza di conservarli,
costituirebbero oggi una preziosa risorsa e un elemento di identità
assai particolare. Troppi elementi architettonici sono andati perduti
per sempre, primi tra tutti i tetti in piöde (lastre di pietra),
sostituiti da moderne
orditure e coperture in cementegola o, nelle migliori condizioni, in
coppi.
Öna cà sénsa ol sò tècc, l’è compàgn d’ü
óm sénsa ol capèl (una casa senza tetto è come un uomo senza
cappello)(1), verrebbe da dire, osservando antiche case e
stalle di pietra mutilate, col tetto rifatto ex novo con materiali e
forme diverse, in certi casi addirittura irriconoscibili. Immobili cui
è stata negata l’identità, misconosciuta l’esistenza: un tetto in piöde rappresenta una parte
costitutiva di prim’ordine del manufatto, senza la quale viene alterata
la sostanza del bene e la sua riconoscibilità. E nel frattempo, mentre
fingiamo di non vedere lo stillicidio quotidiano cui sono esposti tali
beni, ancora una volta osserviamo meravigliati ed entusiasti quanto è
bella l’erba nel campo dei vicini, come ad esempio i trulli di
Alberobello. Siamo davvero un popolo distratto. Che dimentica
facilmente. Poco prudente. E sì che, da altre parti, nemmeno poi tanto
lontane, l’architettura rurale di tradizione è diventata il traino di
nuove proposte di accoglienza e di rinnovate forme di economia di
territorio, sia in campo produttivo che turistico. Quassù, nelle valli
orobiche, invece, per certi versi pare essere ancora un peso. Come mai?
Lascio a voi la risposta, che io non ho. Certamente il mancato
riconoscimento istituzionale di tali manufatti, o quantomeno dei
principali elementi di pregio che li caratterizzano, ossia il fatto che
non sussista alcuna dichiarazione di pubblico interesse al loro
mantenimento, ha determinato un generale stato di abbandono, che si sta
perpetuando da almeno cinquant’anni. Ma ciò, ovviamente, non basta per
giustificare l’assenza di prospettive positive. Anche le grida di
allarme lanciate da diverse associazioni, come la nostra del Centro
Studi, a quanto pare non sono servite a sensibilizzare la Regione
Lombardia circa la necessità di porre un freno all’attuale disfacimento
di un intero tessuto di infrastrutture rurali a rischio di definitiva
scomparsa sulla montagna orobica. È anche vero che i rappresentanti
delle istituzioni pubbliche sono l’espressione del popolo, il quale,
almeno dalle nostre parti, non ha ancora assimilato l’importanza per il
futuro dell’architettura rurale, che viene invece interpretata
solamente come pura espressione di un passato difficile da sostenere e,
tutto sommato, da dimenticare. La tendenza alla demolizione, o
all’abbandono, purtroppo è ancora presente.
Siamo forse sognatori?
Eccessivamente idealisti? Chissà!... Forse sì. Sta di fatto che, ogni
volta che ci troviamo di fronte a una casa o a una stalla o a un
casello o a una fontana o a un tetto di piöde… rimaniamo affascinati ad
ascoltare il canto, anzi il lamento di quelle pietre… Sono le pietre
calcaree del banco di schisti, presente sul versante orografico
sinistro della valle, che hanno offerto il materiale di generale
impiego in edilizia: le pride, utilizzate nelle murature per la loro
consistenza, e le piöde,
ossia lastre di ardesia ideali per pavimentazioni e coperture di tetti.
Esperte maestranze e famiglie di pecapride
hanno dato vita a una tradizione professionale ancora oggi ricercata
per la qualità del restauro. Sono rimasti attualmente in pochi quelli
in grado di intervenire sui tetti in piöde.
L’unica cava attiva in Valle Imagna è quella di Berbenno e le vistose
difficoltà nel reperimento del materiale lapideo, in aggiunta agli
elevati costi per l’intervento, pregiudicano molte volte le attività di
conservazione di un patrimonio edilizio di pregio a rischio di
scomparsa. Come potete intuire, i problemi non mancano.
Unici nel loro genere in
tutto l’arco alpino, i tetti tradizionali di piöde, solitamente a due
falde molto inclinate nelle abitazioni popolari (come nell’Antica
Locanda Roncaglia), ma anche a quattro nelle costruzioni
signorili
(vedasi la Bibliosteria di Cà Berizzi),
rappresentano un forte elemento
identitario e una componente irrinunciabile del paesaggio. Sostenuti da
robuste capriate in legno, le lastre di pietra, posate per semplice
sovrapposizione dalla gronda sino al colmo, attribuiscono alla
copertura la classica forma del tetto a pagoda. Strutture robuste,
massicce, impenetrabili. Un ingegnoso intreccio di travi e travetti
costituisce l’ossatura portante del tetto. Soluzioni architettoniche e
strutturali che variavano da un edificio all’altro, anche in funzione
delle abilità dei costruttori, che declinavano le loro conoscenze
empiriche di volta in volta nei singoli manufatti.
Le falde si presentano come un ordinato susseguirsi di lastre di pietra
irregolari, affiancate e sovrapposte le une alle altre, leggermente
inclinate verso l’esterno e dall’effetto cromatico coerente con
l’ambiente circostante. Non c’è una pietra uguale all’altra e ciascuna
di esse è stata presa in mano e sbozzata dal pecapride: eppure
l’insieme di questi pezzi lapidei irregolari e diversi, una volta
posati, trasmette un’idea di perfezione e di completezza. Ol camì, (la piccola feritoria per
l’uscita sul tetto (ol büs dol gat - il
buco del gatto),
e pèrteghe (pertiche)
frangineve sono
gli unici elementi aggiuntivi presenti in falda. Le gronde sono assenti
sulle pareti di timpano e pure lungo tutto il perimetro delle
costruzioni di minore importanza, mentre non mancano, di norma, sulla
facciata principale delle case nelle contrade, poggianti sui travetti
della lòbia (loggiato).
La ricostruzione di un
tetto in piöde è un’attività
esemplare dell’artigianato locale delle costruzioni. Si muovono agili
come gatti, quei pecapride sul tetto, quasi saltellando sui tempièr,
armati di grossi scarponi ai piedi e di martello tra le mani.
Distribuiti qua e là, sulla falda scoperta del tetto, deposte sui
travetti di superficie, mucchi di lastre di pietra, appoggiate l’una
sopra l’altra, attendono di essere collocate. Il pecapride, dopo aver sistemato
dapprima quelle più consistenti in gronda, procede nel lavoro, quasi
sempre in ginocchio, avanzando pian piano, col tetto finito, sino a
raggiungere la colmégna
(trave di colmo). È un
lavoro che dura alcune settimane, in relazione alla dimensione della
copertura. L’artigiano dialoga con ciascuna pietra che si trova tra le
mani, la osserva con cognizione, la batte col martello per ascoltarne
il suono sordo o pieno, la gira e capovolge tra le mani per individuare
il verso migliore d’appoggio, la confronta con le altre, infine la
depone nel suo posto naturale. È come se quella lastra di pietra fosse
sempre stata lì e, assieme a tutte le altre, forma un reticolo lapideo
assai particolare, disegnando geometrie variabili sulla superficie del
tetto.
Niente cemento, né altre tecniche di ancoraggio delle singole pietre:
semplicemente esse vengono sovrapposte l’una sopra l’altra e circa
l’ottanta per cento della pietra sottostante viene ricoperta da quella
soprastante, andando così a formare una orditura massiccia e
auto-strutturata. In questo modo, da almeno mille anni a questa parte,
quassù gli abitanti delle Orobie hanno costruito i propri luoghi della
vita e del lavoro, case e stalle, laboratori e botteghe. Sono stati
capaci di dotarsi di strutture assai particolari, con quel poco che
offriva loro la terra, trovando soluzioni empiriche efficaci a problemi
strutturali non indifferenti, come le pendenze in falda del tetto, che
possono raggiungere anche angoli di ottanta o novanta gradi, oppure il
peso della copertura, che supera anche quattro quintali al metro
quadrato di tetto.
Occorrono, infatti, quattro metri quadrati di piöde distese in piano per coprire
un metro quadrato di tetto, e lo spessore di ciascuna lastra varia dai
due ai quattro centimetri, mentre le dimensioni possono andare dai
venti per trenta sino ai cinquanta per settanta centimetri. Un’impresa
non indifferente, se consideriamo pure il fatto che le singole lastre
di pietra, una volta estratte dal sottosuolo e prima di essere
utilizzate, venivano lasciate esposte agli agenti atmosferici almeno
per tutta una stagione, affinché il caldo estivo e poi il gelido freddo
invernale mettessero in evidenza tutte le eventuali microfratture
interne che ne sconsigliavano l’impiego.
Quanto lavoro è stato
prodotto con i pochi materiali offerti dalla natura e i semplici
attrezzi realizzati appositamente dai contadini e artigiani costruttori
per soddisfare determinate funzioni! La necessità di ricercare
soluzioni convenienti, per garantire la residenza stabile della
famiglia sul territorio, ha stimolato ingegno, abilità concrete,
capacità creative, anche nel settore dell’edilizia rurale, per la
costruzione di ambienti idonei alla residenza e alle produzioni. I pecapride, con sapù e badìl, massa e lira (piccone, badile, mazza, palo da leva), avviavano lo scavo del nuovo
edificio, mentre per la lavorazione delle pride (pietre) si ricorreva
all’impiego di
strumenti diversi (giandì - giandino-, gógia -ponciotto -,
scalpelli vari); per le piöde,
invece, bastava ol martèl da mür
(martello da muro), che il
muratore utilizzava con maestria nel sagomare la testata di ciascuna
lastra prima di posarla.
Il tetto in piöde, dunque,
non è solo un singolare elemento costruttivo, ma rappresenta molto di
più: è uno dei principali elementi identitari che hanno caratterizzato
e continuano a identificare il volto di luoghi e ambienti familiari,
vissuti e solcati nei secoli da contadini e allevatori, boscaioli e
pecapride, artigiani del legno e della pietra, che lo hanno modellato e
reso attraente. Infine, come nella Creazione, per suggellare una
relazione creativa con l’ambiente, l’uomo ha posto un tetto alla sua
casa, nella quale riposare e trovare protezione. È il completamento di
tante fatiche.
Volti di case come di
persone, nemmeno troppo dissimili nel carattere, schivi e austeri;
tetti in piöde come bandiere,
svettanti in cima alle piccole torri di montagna, a protezione delle
famiglie e di un ambiente umanizzato e… tanto amato.
Note
(1) Va ricordato che il
contadino un tempo si toglieva il cappello solo in chiesa e davanti
alle persone importanti. Teneva il cappello intesta anche in casa,
anche durante a tavola.
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Serie
cultura
ruralpina (in valle Imagna)
a
cura di Antonio Carminati
Pecà
fò mars Il rito della definitiva cacciata della cattiva stagione
(31.03.19)
Dopo il carnevale, ancora una volta, per cacciare la brutta stagione,
soprattutto la sua pazza coda di marzo, occorre produrre altro rumore,
diffondere suoni anche strani nell’aria, insomma fare chiasso e… tanto
baccano. La funzione è sempre stata duplice: da un lato
allontanare gli spiriti del male, dall’altro richiamare ad alta voce la
bella stagione, facilitando così il risveglio della natura
Omaggio
ai boscaioli emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19)
Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella
dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e
le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso
ricordarla.
La gestione
del letame nell'economia
agropastorale
montana
(20.03.19) Lo spargimento del letame nei
prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel
passato. quale fertilizzante, è forse una delle attività
maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della
conclusione di un ciclo.
La
stalla e gli altri manufatti dell’edilizia tradizionale
(03.03.19)
Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di
accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di
esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che
dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come
tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a
sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie,
presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue
caratteristiche naturali e antropiche.
La
distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19)
Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne
offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce
gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure,
di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene
di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute",
disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal
Cinquecento).
La
caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli
uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una
volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti
all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano
[a caccia] di volpi).
L'economia
delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori
e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa
per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo
alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta
somma di denaro...
In
morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19) La
triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna.
Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di
prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a
"uso vacanza".
La méssa dol rüt
(08.01.19) La
méssa dol rüt (la concimaia) era l'elemento chiave di un
paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e
sprecare risorse
Il Natale dei contadini. Un rito che non
scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18)
Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione
del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori. Quella
che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero
possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza
della macellazione con qualche immagine di insaccatura.
contatti:redazione@ruralpini.it
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