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Articoli di Ruralpini su "Cibo locale"

La dieta alpina nasce nel campo e sul pascolo 
(13.05.18) La dieta alpina, cui è dedicato un volume pubblicato in questi giorni, rappresenta un'occasione importante.  Attraverso la rivalutazione degli alimenti "poveri" tradizionali, si può promuovere una rinascita agricola per la salute del corpo e delle comunità locali alpine

La  conservazione delfurmentun di Teglio: una sfida difficile ma importante
(28.06.17) Teglio è la capitale italiana del grano saraceno, un ruolo conquistato in forza della mai cessata coltivazione, rafforzato dal legame con un piatto famoso, citato tra le varie modalità utilizzate nel mondo per consumarne la farina.  A dare valore al ruolo di Teglio è anche dalla presenza di una varietà autoctona, selezionata nei secoli per le sue proprietà sensoriali. Però ci sono dei problemi. Scopriamo quali e come uscirne.

Esino e Perledo. Territori del cibo crescono 
(02.11.16)  Il 26 novembre a Esino si è svolto l’evento “Esino e Perledo incontrano I territori del cibo. Uniamo le nostre esperienze di rinascita locale attraverso la conoscenza reciproca”.

Il pan gialt da Nöa al traguardo De.co
(22.11.16) Dopo anni di sperimentazione l'antico pane di mistura di Nova milanese è diventato una realtà. Quest'anno viene ottenuto a partire anche da segale coltivata a Nova e la Deco è al traguardo. Un risultato importante nelle condizioni della Brianza sud-occidentale cementificata, frutto dell'impegno e del lavoro di anni dell'Ecomuseo e del convinto sostegno al progetto da parte dell'amministrazione comunale


L'Oglio e la transumanza    
(14.11.16) La transumanza ovina bergamasca tutt'oggi è un fattore connettivo per le quattro provincie della regione lungo quella "autostrada della transumanza" rappresentata dall'asta del fiume Oglio. Inserita nella vivace offerta di turismo enogastronomico del corso del basso Oglio, con le sue osterie, le (buone) piste ciclabili, le osterie, i castelli  e i ristoranti pluristellati può rappresentare una carta in più per consolidare la vocazione turistica di un territorio che rappresenta una delle più belle espressione del volto della pianura lombarda

Cucinare = atto agricolo e sociale
(12.11.16) Il 2017 vede la Lombardia orientale proclamata regione europea della gastronomia. Un'occasione da non sprecare. Magari ripensando anche in chiave critica EXPO. Il focus qui comunque non è il mondo ma una regione con le sue differenze. Occasione per pensare la gastronomia come fatto sociale, culturale, politico. 

Un progetto per far incontrare i territori (cibo e cultura
(08.11.16) Sono già due gli incontri realizzati a Cà Berizzi, a Corna Imagna nell'ambito di un itinerario attraverso le  culture contadine e pastorali e le loro espressioni culinarie

Un sogno si avvera: si torna a mietere in Valseriana

(22.07.16) Con  il progetto  "Cereali dell'asta del Serio" sostenuto dall'omonima 
associazione diventa realtà il ritorno in valseriana di vari cereali: grano, segale, orzo, farro, mais oltre a grano saraceno e patate.

I magnifici sette (ieri a Gandino)
 (12.01.16) L'incontro di rappresentanti di sette località lombarde con in comune un prodotto agroalimentare ricco di storia, emblema e orgoglio della comunità ma anche stimolo di progettualità locale e veicolo di relazioni. Primo evento pubblico 6 marzo,  festa di San Giuseppe,  sempre a Gandino 

Asparago rosa di Mezzago 
(09.01.16) Mezzago, con l'asparago,  rappresenta un'esperienza trainante nel movimento dei "cibi di comunità". Lanciato come DeCo da Luigi Veronelli è assurto a elemento di  una continuità  dalla società contadina a quella post-industriale è divenuto un riferimento identitario per una comunità che non vuole essere fagogitata dalla conurbazione milanese. 

 Cibi di comunità in rete
(04.12.15) Quali sono le realtà che costituiscono la rete partita dal progetto  "Cibo e identità locale" e quali altre realtà possono candidarsi a partecipare. In attesa che la rete si formalizzi presentiamo alcune indicazioni emerse dalla ricerca e dal volume che ha dato il via a questa iniziativa 

 La nuova frontiera del cibo locale
(03.12.15)  Dopo l'uscita del libro "Cibo e identità locale" , ricerca partecipata con soggetto sei cibi di comunità, in occasione degli incontri di presentazione del libro, ma anchedel tutto spontaneamente, si sono infittite le relazione tra la rete. A Gandino l'11 gennaio si farà il punto di questi sviluppi aprendo una fase nuova di questa storia di ricerca-azione 

Inaugurazione della Biblioteca Costantino Locatelli
(02.07.15) Sabato 4 luglio in comune di  Corna Imagna, a Cà Berizzi (contrada Regorda), si inaugura una biblioteca che vuole essere in senso pieno "biblioteca di montagna" offrendo oltre ai servizi librari quelli di animazione culturale e di accoglienza nello spazio rurale ("bibliosteria"). Questa nuova e innovativa biblioteca è dedicata ad un personaggio che è stato voce e memoria della valle



(26.05.12)  Il lato buono della Valtellina: Mulino Menaglio a Teglio (So)
L'Antico Mulino Menaglio in frazione San Rocco a Teglio è la chiave di volta del progetto di rilancio della coltura del grano saraceno e dei cerali alpini. Un progetto che ha consentito di recuperare la varietà locale della fagopiracea. Completato il recupero del mulino e del complesso di edifici accessori (pila) - e in fase di ultimamento l'allestimento museale - il mulino sarà inaugurato ufficilmente il 14 giugno.



Coltivazioni rurali - Cibo territoriale

Il rilancio del cibo locale

Intervento all' Incontro del gruppo di lavoro Agricoltura degli ecomusei lombardi con la rete dei Territori del cibo, Canneto sull'Oglio (Mn) Sabato 13 maggio 2017.



di Michele Corti


Il mio contributo intende raccordare il piano del paesaggio (trattato da Bettini) a quello della comunità (trattato da De la Pierre). Tra questi due piani si colloca quello del “paesaggio alimentare”, ovvero quell'insieme di relazioni sottese al paesaggio “fotografato” in un determinato momento. Il “paesaggio alimentare” comprende, al di là del piano visibile, l'insieme delle relazioni sedimentate nel tempo tra la comunità insediata e il suo ambito spaziale finalizzate alla produzione di alimenti e di altre utilità ricavabili dall'attività agricola.  Esso è quindi espressione di fenomeni di lungo periodo, di pratiche, saperi, istituzioni. Rappresenta espressione di cultura e civiltà non meno che di elementi biologici, in un rapporto dialogico che ci spinge a definire una specifica dimensione bioculturale.
La produzione alimentare plasma il paesaggio dei campi, dei boschi, dei prati, dei pascoli, degli incolti ma è anche elemento che plasma i rapporti sociali, che condizione le formazioni sociali e politiche, che determina la forma dell'insediamento, la forma della città, il rapporto tra la città e il territorio circostante, la natura del sistema politico. Rappresenta quindi un fattore chiave di civilizzazione caratterizzando le diverse culture. Il cibo stesso rappresenta qualcosa che va molto al di là della soddisfazione dei bisogni fisiologici: è elemento culturale primario, fattore di identità, elemento al tempo stesso di differenziazione e di coesione sociali, diventa simbolo, oggetto di precetti e pratiche religiose
Nella storia delle società umane a certi modelli di coltivazioni agricola hanno corrisposto sistemi decentrati, basati sull'autogoverno locale o, al contrario sistemi accentrati basati su forte gerarchizzazione e creazione di apparati di comando e controllo. I sistemi agricoli e alimentari hanno condizionato la natura delle istituzioni di villaggio ma anche la forma di famiglia, la sua estensione, la distribuzione del potere al suo interno, i rapporti tra i sessi. Le istituzioni agrarie di villaggio, basate sulla gestione comunitaria di beni collettivi (pascoli, acque, boschi) hanno conservato una loro vitalità fino a tempi relativamente a noi vicini (almeno sino al XVIII secolo). L'autosufficienza alimentare ha rappresentato una condizione di libertà e indipendenza. Emigrazione temporanea e sfruttamento di risorse minerarie, taglio del legname, produzione di carbone di legna, attività di trasporto, consentivano alle comunità, anche delle montagne povere di superfici coltivabili di mantenere un equilibrio tra popolazione e risorse. Poi gli equilibri sono stati rotti con l'aggravio della fiscalità statale, con l'espropriazione delle terre comuni, con l'inserimento nel mercato, prima nazionale, poi globale.




Dal cibo locale al cibo "che viene da non si sa dove"

Fino a pochi decenni fa, almeno in montagna, ma spesso anche altrove, era normale consumare ancora in larga misura cibo locale. Era normale produrre ancora buona parte delle derrate alimentari (uova, pollame, ortaggi, frutta, carne di maiale, ma spesso anche latte fornito da 1-2 vacche da latte o qualche capra).

Attraverso passaggi successivi si è arrivati alla delocalizzazione della produzione e del consumo alimentari, all'omologazione, semplificazione, del paesaggio e dell'agricoltura. Le campagne, ricche di elementi di specificità che consentivano di riconoscere il paesaggio di ogni regione agraria (unità molto più piccole delle province) sono scomparse. In montagna c'è il deserto verde che ha inghiottito campi e prati. In pianura la landa desolata dell'agroindustria, dei campi perfettamente livellati ed enormi, senza alberi, senza siepi, senza fossi, senza argini. Molte cascine sono diventate depositi disabitati di macchine agricole o sono lasciate scoperchiate. Il paesaggio si è brutalmente semplificato: la montagna coperta di boscaglie (ben diverse dai boschi curati, dai castagneti, dai cedui di un tempo), le città si sono dilatate a macchia d'olio fondendosi senza soluzione di continuità (almeno nell'alta pianura) con quelli che erano i borghi e i paesi della pianura, la pianura ad agricoltura specializzata, ancorché ridimensionata nella sua superficie (erosa dalle aree industriali, dall'urbanizzazione disordinata, dalle infrastrutture) è divenuta la landa desolata di cui sopra.




Oggi solo l'1% della popolazione si dedica all'agricoltura: una volta produrre riguardava buona parte della popolazione. Per ottenere questo risultato, che è tutto tranne un “progresso”, si è concentrata la produzione agricola in alcune aree “vocate”, dove è possibile l'applicazione massiccia della meccanica e della chimica. Il prezzo dell'esonero della stragrande maggioranza della popolazione dal lavoro dei campi è però elevato: nelle acque dei nostri fiumi e nelle acque sotterranee da cui attingiamo l'acqua potabile vi è un cocktail di veleni che spesso sono presenti in concentrazioni che superano i limiti di legge (limiti che, peraltro, non hanno alcun fondamento scientifico perché le sostanza con attività cancerogena e genotossica sono nocive anche a concentrazioni bassissime). I grandi allevamenti intensivi stanno uccidendo per eutrofizzazione le acque costiere nel Golfo del Messico, in Cina, nel Baltico. La stessa pianura padana vede altissime concentrazioni di insediamenti zootecnici intensivi con eccesso di produzione di reflui zootecnici rispetto ai terreni disponibili. Le istituzioni consentono all'industria di aggirare la direttiva nitrati (i digestati del biogas non sono trattati “contati” i liquami e le grandi aziende di pianura che affittano pascoli in montagna oltre a incassare centinaia di migliaia di euro per di premi possono fingere di ampliare sulla carta le loro superfici aziendali in modo da rientrare surrettiziamente nei limiti imposti dalla direttiva nitrati). Nel mondo l'agricoltura intensiva, le monocolture provocano la diminuzione della fertilità di lungo periodo, aumentano la suscettibilità all'erosione (perdita per ruscellamento o vento dello strato di terreno fertile). I pesanti mezzi meccanici compattano il terreno peggiorandone le caratteristiche di penetrazione dell'acqua e di circolazione dell'aria. La percentuale di humus nel terreno, a causa delle lavorazioni meccaniche profonde e ripetute e della minor disponibilità di concime organico. Dove vi sono troppi animali si utilizzano persino tecniche per eliminare nell'atmosfera l'azoto contenuto nei reflui (sprecando energia) mentre si perde comunque una grande quantità di azoto “naturalmente” (sia in atmosfera che nelle acque). Dove si praticano le monocolture vegetali gli animali non sono più allevati e vi è forte carenza di concime organico. Si utilizzano enormi quantità di acqua (vedi maiscoltura) e di energia fossile (per sintetizzare i concimi chimici, per i trasporti, per far marciare le macchine).
La localizzazione della produzione di alimenti segue la pura logica del mercato. Di conseguenza si concentra dove vi sono grandi estensioni di terreni pianeggianti (non importa se ottenuti distruggendo le foreste come in Brasile) e dove la manodopera costa ancora poco. In tutto il mondo l'agricoltura industriale tende ad essere praticata con le medesime tecniche. Così si fa piazza pulita di tutto quello che era il risultato di secoli e millenni di adattamento (diversità biologica e culturale, conoscenze contestu
ali). Il consumatore non vede questi costi ma solo il prezzo. Un prezzo che mette spesso fuori mercato il cibo buono, pulito e giusto. Tutto quello che non ha un prezzo, che non è stato mercificato non ha valore nella società di mercato, così quei valori che le società tradizionali ritenevano preziosi non contano più: l'integrità dei sistemi ecologici, i valori sociali e umani non entrano nel prezzo, non si traducono in valore di scambio, quindi sono svalutati e messi in soffitta. Per lavarsi la coscienza il mercato si inventa forme di certificazione (ecolabel e simili) che sono più facilmente accessibili alle grandi aziende, che ne padroneggiano i meccanismi formali (e pagano gli enti certificatori
), rispetto alle piccole.



La mela di Biancaneve costa poco ma...

Così il cibo viaggia da un continente all'altro (anche per assecondare i capricci di un consumatore viziato e ignorante che pretende la frutta e la verdura fuori stagione). Il cibo che viene da “non si sa dove”, che è offerto sui banchi dei super e ipermercati tutti i mesi dell'anno, è sempre più irriconoscibile. L'industria alimentare mondiale controllata da poche multinazionali è diventata abilissima nel ricombinare in mille modi apparentemente accattivanti un cibo impoverito. Pochi alimenti base (mais, soia, frumento, latte) prodotti su grande scala a costi irrisori vengono utilizzati, insieme ai sottoprodotti dei processi di lavorazione, per ricavarne molti derivati che sono inseriti in ogni alimento. Così nelle bibite c'è il mais (la componente zuccherina) e il latte è quasi ovunque (a partire dalle carni conservate).
Tutti continuiamo a mangiare. Pochi consapevoli, la massa orientata dalla mistificante propaganda commerciale. Che si consumi al fast food, che si consumi una preparazione pronta per il micro-onde in cui non sappiamo neppure cosa sia contenuto, si compie comunque un “atto agricolo” Il cibo che consumiamo trasforma il mondo, trasforma i territori, contribuisce a distribuire ricchezza e potere, a perpetrare la povertà, la dipendenza, lo sfruttamento. Dal momento che un cibo industriale è l'assemblaggio (come nel caso delle automobili) di componenti provenienti da vari angoli del pianeta non ci rendiamo conto da dove proviene, anche se qualche iniziativa per consentire una tracciabilità anche per il consumatore è andata in porto (oggi in etichetta sappiamo in quale paese estero è munto il latte di formaggi made in Italy). Così per la pasta. Ma per molti altri alimenti, tanti più sono gli ingredienti che li compongono non è facile per il consumatore risalire all'origine.
Il cibo che costa poco (in termini di valori che transitano per il mercato) ha fatto piazza pulita di risorse importanti come la biodiversità agricola naturale, come i legami sociali, i saperi, le reti di conoscenze.



Il nesso tra comunità e cibo


Non conoscendo dove e come sono stati prodotti certi alimenti il consumatore è all'oscuro di quei problemi (deforestazione, inquinamento, sfruttamento del lavoro, distruzione di comunità contadine) che sono connessi alla loro produzione. Anche se sappiamo che il nostro cibo arriva dal Perù (per fare un esempio non casuale) difficilmente possiamo sapere come esso contribuisca a cambiare il paesaggio e il tessuto sociale dei paesi si provenienza, ma anche se lo sapessimo la lontananza fa si che continueremmo a sentirci poco coinvolti. Diverso è quando certi effetti negativi sulla società e l'ambiente si producono a casa nostra. L'idea che la sollecitudine ambientale e sociale sia un sentimento “globale”, ovvero che le persone reagiscano a situazioni ingiuste e pericolose in qualche angolo del pianeta con la stessa forza con la quale reagiscono a minacce che possono concretizzarsi nell'ambito della loro esperienza e delle proprie concrete relazioni è un'idea illuminista. Quando singoli e comunità subiscono esse stesse le conseguenze di scelte ecologiche negative la capacità della società di reagire, di apportare dei correttivi, di cambiare rotta è più concreta.
Questo è l'effetto negativo principale della delocalizzazione: con la delocalizzazione della produzione si delocalizzano anche le responsabilità, si perde il potere di controllo (trasferito ad apparati sempre più invisibili ma potenti). Se si torna a parlare di cibo locale è perché ci si è resi conto dei molti aspetti negativi, sul piano locale e globale, sociale ed ambientale che sono conseguenza del sistema globale del cibo industriale. Lo sconvolgimento di abitudini e paesaggio, l'impoverimento dell'economia circolare locale, la desertificazione delle relazioni sociali calde legate al cibo sostituite dagli shopping malls e da Amazon, induce, però, delle reazioni. Negli spazi che sfuggono al controllo (o alla possibilità di profitto) delle grandi organizzazioni si infilano nuove iniziative microlocali - più o meno informali o capaci di sviluppare una nuova dimensione istituzionale dal basso - che, operando su un piano totalmente altro, non soffrono la concorrenza dei sistemi industriali e tecnologici.



Insieme al cibo si uniformano anche i luoghi e si annulla la comunità

La tendenza all'omologazione dei luoghi (ovunque le forme locali di produzione, trasformazione, consumo di alimenti sono sostituite da modalità industrializzate, massificate) li ha trasformati in non luoghi. Ci si sposta ma ci si trova sempre nello stesso paesaggio (parchi divertimento, resort, centri commerciali). Questa uniformità rende facile il nomadismo, lo sradicamento che impone a chi vuole lavorare di essere disposto al continuo movimento. Se spostarsi è facile e anche vero che è divenuto difficile trovare qualcosa di differente che vale la pena conoscere, che consente nuove esperienze e arricchimenti. Il turista si sposta ma è come se non si spostasse: trova le stesse cose ovunque. Ma il non luogo, il paesaggio urbano uguale a sé stesso, il cibo industriale sempre uguale, la mobilità e lo sradicamento annullano le diversità, quegli elementi che consentono alle persone di riconoscersi parte di una comunità con le sue specificità e le relazioni che la legano e la costruiscono. Il nomadismo coatto, l'omologazione di stile di vita, gusti, la mancanza di relazioni localizzate che si definiscono tanto nella prossimità fisica che nella comunanza di valori ed interessi , vengono meno. Il capitale sociale di fiducia, civismo, responsabilità viene meno. Il mercato e gli apparati burocratici lo sostituiscono, al cittadino si sostituisce il consumatore chiuso nel suo individualismo e amministrato dalle burocrazie (educative, sanitarie ecc.).



Ma tutto questo crea, come abbiamo anticipato, reazioni e spazi per iniziative che vanno in direzione opposta. La consapevolezza dell'impoverimento provocato dalla globalizzazione è, di per sé, un fattore fondamentale. Il desiderio di rilocalizzare, di ripristinare relazioni locali, sulla base di queste reazioni riflessive e consapevoli non assume più oggi i caratteri della chiusura, ma segue il percorso di una forma di apertura al mondo in cui si mantenga una capacità di controllare le connessioni, di mantenere la propria specificità, di valorizzarla insieme alle specificità degli altri territori. Alle forme di controllo dall'alto e di omologazione si vuole contrapporre la modalità delle reti e della cooperazione. Il piano del recupero di “microsovranità” alimentare ben si presta a innescare processi di ricostruzione di iniziativa comunitaria (sia sul piano economico che sociale e culturale).
Il cibo, già ridotto all'unidimensionalità di fatto alimentare si presta, all'opposto, a svolgere ruoli molteplici come fattore di attivazione di dinamiche sociali, economiche e culturali. Questo percorso,mette in evidenza le connessioni tra piani che la modernità industriale e capitalistica ha forzatamente separato (aggiungiamo anche la separazione tra economia e natura, tra economia e morale), che ricompone a partire da iniziative di forte concretezza ma al tempo stesso di rilevante valenza sociale e simbolica (il “n
ostro pane”) è intrinsecamente pedagogico, non presuppone astratte e complicate argomentazioni. E' dirompente, contiene enormi implicazioni, ma al tempo stesso semplice e coinvolgente.




La rivoluzione del "nostro pane"


Cosa mangiamo ora? Cosa si mangiava qui, cosa potremmo mangiare se riportassimo a frutto anche i pori tra il cemento, i vecchi terrazzamenti, i terreni invasi dai rovi e dalla boscaglia? Domande che si aprono a un universo di risposte, che possono stimolare tanta iniziativa. Ne è passata di acqua sotto i ponti dell'Oglio da quando ci si limitava alle ricette “della nonna” che spesso ben poco avevano a che fare con la cucina (parola grossa) contadina di un tempo. Oggi abbiamo capito che tutelando un piatto realizzato con farina di grano canadese, pomodori cinesi e via discorrendo, non tuteliamo nulla, mettiamo solo in scena una rappresentazione di comodo e fuorviante della “tradizione locale”. Venendo meno la produzione locale si perde la cultura del cibo che è adattamento alla specificità locale, che vive di relazioni tra contadini, artigiani, cucinieri. La cultura del cibo locale vive quando chi consuma una preparazione, chi la prepara, chi trasforma la materia prima agricola sono inseriti in un circuito in cui ogni elemento è in relazione con altri. Se il piatto è collegato al campo chi coltiva orienterà il suo lavoro a determinati obiettivi di qualità che massimizzano il valore di una preparazione. E' da questi circuiti, che una volta si chiudevano nella stessa famiglia contadina o che, al massimo, coinvolgevano l'osteria, il norcino, il casaro ecc. che nasceva la qualità specifica di un prodotto e di una preparazione che a volte restava totalmente anonima e soddisfaceva solo la fame ma, spesso, diventava una specialità degna di reputazione anche in tempi di forzata sobrietà alimentare assurgendo a elemento di identificazione locale.
Pur nell'ambito di circuiti che per volumi fisici e fatturati posso apparire ridicoli con il metro del business agroalimentare , le esperienze di riattivazione di produzioni agricole tradizionali crea circuito di socialità ma anche economici. Non solo implementano il capitale sociale e territoriale nel lungo periodo ma anche nel breve termine possono risultare economicamente auto sostenibili perché occupano spazi non presidiati e dove gli effetti moltiplicativi dell'economia circolare locale sono pienamente sfruttati. A cascata la rinascita agricola comporta il recupero di valore di elementi di patrimonio (in senso culturale ma anche direttamente economico) inutilizzati. Quello che resta del patrimonio di immobili, infrastrutturazione rurale oggi in abbandono o mal valorizzato in ottica di residenze secondarie può riassumere funzioni produttive (laboratori, spazi culturali, ospitalità rurale in forme innovative). Varie forme di turismo (anche a km 0) o di attività educative possono integrarsi con quelle più direttamente agroalimentari. Anche in contesti urbanizzati dove può essere inventato o reinventato un paesaggio agricolo urbano con potenzialità estetiche, ricreative, socializzanti infinitamente superiori a quelle della forestazione urbana dei tecnocrati verdi.




Le fotografie storiche  che illustrano l'articolo sono del Museo Civico di Canneto sull'Oglio. Ecomuseo delle Valli Oglio-Chiese, Canneto sull'Oglio (MN)





 

 

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