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Ambientalismo, neocolonialismo,
capitalismo:
violenza contro gli ultimi,
diritti calpestati, ecoingiustizia


di Michele Corti

Due guardie forestali sono arrivate ​​a casa mia con i fucili intorno alle 9 del mattino. Mio marito non era nel villaggio. Stavo cucinando ed ero pronta per andare a prendere l'acqua dal fiume [Ntungwe]. Dicono "smetti di cucinare e non andare a prendere l'acqua: fai le valigie perché te ne vai adesso". C'erano altre guardie forestali vicine che fanno la stessa cosa nelle case vicine e, da come potevo osservare, ancora più in là, oltre il fiume, vicino a Nyamushasha.

L'assistente del guardiano del parco, Bisungwa, stava parlando in una radio e c'era un aereo che volava a bassa quota sopra di noi. Il capo delle guardie forestali di Rwenshama, Hammadah Dungu, diede ordine ai suoi gli uomini di bruciare tutte le case. Più tardi mi è stato detto che il capo delle guardie del parco, Ssali, dall'aereo dava ordini a tutti gli uomini di radunarsi intorno alla radio.

Non c'era tempo. Ho preso tutto ciò che potevo da casa, ma in meno di un'ora i guardiparco mi hanno ordinato di seguirli. C'era molta confusione. Ho ritrovato uno dei miei bambini lungo il tragitto, ma non potevo vedere l'altro. L'ho trovato solo più tardi. Ci hanno detto di prendere la strada dalla stazione di lavoro a Kikarara, 6 miglia lungo la strada attraverso il parco, e di radunarci lì. Hanno poi dato fuoco al villaggio. Potevo vedere dal fumo che stava succedendo la stessa cosa a Nuamushasha. È stata l'ultima volta che ho visto la mia casa

        Harriet Maguru racconta il giorno dell'espulsione dal villaggio durante un'intervista nel febbraio 1999 1


(23.02.19) Nel mondo milioni di persone hanno vissuto esperienze simili a quella della donna della testimonianza di apertura, appartenente al popolo Batwa, della famiglia dei "pigmei" dell'Africa centrale . Altri milioni (molti) hanno comunque sofferto perdita di reddito, sradicamento, separazione dalla propria cultura, oppressione senza che i loro lamenti potessero raggiungere il pubblico occidentale ignaro di finanziare, attraverso il "benemerito" WWF e le altre grandi organizzazioni conservazioniste, tante ingiustizie a danno dei più poveri e dei più deboli.

Il 20 febbraio 2019 (questo saggio era già stato scritto ma non ancora pubblicato) la Corte suprema Indiana ha dichiarato l'invalidità del Forest rights act del 2006 (vai al sito del FRA) che aveva bloccato le espulsioni e i trasferimenti forzati di chi, risiedendo all'interno di foreste dichiarate aree protette poteva dimostrare di essere discendente di chi abitava lì da generazioni. In India vi sono ancora popoli "aborigeni" di cacciatori-raccoglitori, in parte dedicatisi all'agricoltura, che vivono in forma tribalenelle foreste che sono state le loro sedi ancestrali da migliaia di anni.

Il governo indiano non ha, palesemente, difeso il Forest rights act, neppure il ministro per i popoli tribali. Il perché è facile da capire: le pressioni delle potenti lobby ambientaliste internazionali. Così entro luglio di quest'anno 1,1 milioni di famiglie (5-7 milioni di persone) saranno sfrattate dalle loro case e trasferite a forza in baraccopoli da rifugiati. Per questi profughi, vittime del conservazionismo occidentale, che ha deciso che le aree protette vanno "pulite" dalla presenza dell'uomo, anche quando essa ha garantito la tutela della biodiversità, non ci saranno manifestazioni; le soliti reti clerico-progressiste buoniste, così pronte a farsi paladine di chi si fa passare per profugo senza averne i titoli, così pronte a proclamare diritti per tutti (facendone pagare le spese agli strati sociali popolari) non si mobiliteranno.

Taceranno perché, in questo caso, i diritti degli ultimi sono aggrediti dalla componente ambientalista del medesimo fronte ideologico progressista e buonista nel quale essi militano.  Sollevare il coperchio della pentola sul nuovo colonialismo, esercitato in nome dell'ambiente e della sostenibilità non conviene. I buonisti sono convinti di poter correggere il sistema capitalistico neoliberale e non intendono schierarsi contro di esso, non vogliono ammettere il ritorno a forme di sfruttamento e di contrapposizione di classe di tipo ottocentesco (anche nel cuore dell'occidente) né la natura predatoria e coloniale del sistema neoliberale su scala globale.  Preferiscono distogliere l'attenzione sui termini reali del conflitto sociale esorcizzando i fantasmi dei totalitarismi del passato, nonostante essi siano stati sconfitti per sempre. Preferiscono esorcizzare e demonizzare il sovranismo e il populismo, ovvero le forme di resistenza alla globalizzazione neoliberale.  Vogliono essere puntelli e complicidell'elite transnazionale e di tutti i suoi misfatti. E sia.

Quali e quanti questi misfatti! L'occidente, il capitalismo neoliberale -  restando sempre al nostro tema  -  non intende cacciare dalle sempre più estese "aree protette" le popolazioni tribali per uno sfizio conservazionista. Vuole sfruttare l'enorme ricchezza della biodiversità per tradurla in soldoni. Le sue case farmaceutiche vogliono ottenere super profitti facili non pagando alcuna royalties.  Il capitalismo neoliberale vuole barattare il diritto a inquinare e a devastare ancora l'ambiente comprando titoli di compensazione basati sulle "aree protette" dell'Africa, dell'Asia del Sud America, Vuole gestire il business del turismo, mettere le mani su diamanti, uranio, metalli rari. Non vuole comunità insediate per i piedi che possano intralciare i suoi business, che possano rivendicare diritti.  


Tutto ciò viene assicurato grazie alla foglia di fico della "conservazione della natura". Solo che le finalità non sono quelle dichiarate, solo che i vantaggi e gli svantaggi non sono ripartiti in modo equo. Le popolazioni tribali sono scacciate, sradicate dal loro modo di vivere, condannate a marginalizzazione e a divenire forza lavoro a bassissimo prezzo. L'occidente e le élite locali corrotte ottengono grandi vantaggi in un quadro globale in cui i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.

Pochissime sono le voci che denunciano questo aspetto della globalizzazione e del neoliberalismo perché è salda l'egemonia ideologica neoliberale.  Mentre i riflettori dei media si accendono sulla “tragedia del mediterraneo”, dove altre Ong occidentali giocano un ruolo ambiguo nella “migrazione africana”, i crimini del land grabbing, dell'espropriazione di terre attuata in nome dello sviluppo (dighe, piantagioni bioenergetiche) o - gli effetti sono gli stessi - della creazione di sempre nuove aree protette, si consumano silenziosamente nelle foreste africane, nelle zone “cuscinetto” attorno ai parchi, nelle savane. Storie di infinita oppressione e alienazione, di migrazioni forzate, di sradicamento, di guerre tra poveri. Ma anche storie di aperta violenza: villaggi bruciati, torture, uccisioni, stupri. L'occidente non sa e certo non gradisce sapere che in nome dell'ambiente,  dello sviluppo sostenibile in Africa (ma non solo) il neocolonialismo non ha mai spesso di assumere un volto feroce. Non vuole vedere. Vuole credere alle favole ambientaliste. Vuole l'oppio ambientalista che placa le coscienze.

Non è facile dover riconoscere che i valori e le organizzazioni che in occidente godono in questa fase storica di più alto credito, ovvero la "difesa della natura", la “biodioversità” , le “aree protette”, le ONG conservazioniste, sono gli attori di uno dei più cinici business neoliberali. Un business che non si limita a trasformare la natura in merce e a coprire i crimini ecologici con il green washing, ma che usa normalmente, quotidianamente, sistematicamente, la violenza contro i più deboli, i senza voce, i senza rappresentaza politica, provocando povertà e marginalizzazione sociale, perdita irreversibile di intere culture umane, in perfetta continuità con la storia di violenza dell'accumulazione del capitale (non solo “primitiva”).

La forza di questo business consiste nella capacità di  mantenere intatta, in barba alla realtà, l'immagine di un ambientalismo senza fini di lucro, anzi generoso, disinteressato, quasi eroico a dispetto della realtà di una piena integrazione nelle strutture e nelle strategie del capitalismo predatorio globale.

It has been part of the genius of neoliberal theory to provide a benevolent mask full of wonderful-sounding words like freedom, liberty, choice and rights to hide the grim realities of the restoration or reconstitution of naked class power [Uno degli aspetti geniali della teoria neoliberale è consistito nel fornire una maschera accattivante, piena di parole che suonano in modo meraviglioso come libertà, facoltà di scegliere, diritti, al fine di celare la torva realtà della ristrutturazione e della definizione dei nuovi fondamentali del nudo potere di classe]2.

In occidente qualcuno sospetta e non pochi denunciano che la moltiplicazione delle tante "belle parole" (diritti umani, diritti dei popoli indigeni, biodiversità, sostenibilità, contrasto del riscaldamento globale, riduzione delle emissioni)  nasconda business e speculazioni ma quasi nessuno sospetta e pochissimi denunciano come dietro le "belle parole" ambientaliste chi sia anche brutalità del vecchio colonialismo. Invece occorre chiarire che esproprio di terre appartenenti ai popoli indigeni, le espulsioni e i trasferimenti forzati, la riduzione in povertà e in condizioni degradanti sino alla schiavitù, la violenza fisica sono un elemento sistematico del  biocapitalismo, del capitalismo predatorio ammantato di ambientalismo e conservazionismo, del conservazionismo neoliberale.

Al colonialismo è subentrato il green grabbing (l'accaparramento espropriativo in nome dell'ambientalismo) ovvero un mascheramento sofisticato che con il presupposto di ridurre le emissioni di carbonio e tutelare la biodiversità si traduce in esproprio di beni comuni, privatizzazioni, nuove disuguaglianze sociali, marginalizzazione, sradicamento di comunità e spinta all'emigrazione interna e intercontinentale. In questo quadro le "aree protette" non solo, molto spesso, non mettono al riparo da forme convenzionali di estrazione neocolonialistica delle risorse (leggasi petrolio, legname pregiato, uranio, diamanti, minerali rari) ma diventano anche lo strumento di forme più subdole di sfruttamento come il bioprospecting: si tutela la biodiversità per commercializzarla, non solo vendendo titoli e derivati  finanziari sui mercati delle "compensazioni ecologiche" ma anche sfruttandola direttamente sotto forma di brevetti di molecole estratte da piante rare, presenti solo in certi ambienti3.


Come è possibile questo  sofisticato, "imbroglio ecologico"?

Cerchiamo di capirlo dopo aver chiarito alcune premesse. Caduto il muro di Berlino e con la crisi dello stato sociale il neoliberalismo si è accreditato come l'unico sistema sociale in grado di continuare a garantire lo stile di vita consumistico acquisito e, al tempo stesso, di fronteggiare i problemi ambientali.  Se, in passato, il capitalismo industriale cercava di minimizzare la gravità dei problemi ecologici, oggi al contrario - concentrando l'attenzione sul riscaldamento globale a scapito di altri forse più gravi problemi che ha meno interesse a sollevare - sostiene che la soluzione è interna al sistema, che i disastri ecologici sono le conseguenze di un funzionamento difettoso del mercato piuttosto che del risultato delle pratiche e delle relazioni basate sull'ideologia mercatista in sé.  I problemi ambientali attuali del pianeta possono essere fronteggiati, secondo l'idea neoliberale, se alla natura viene attribuito un valore di mercato, se essa viene mercificata e si pone quindi nella condizione di pagare in moneta sonante per essere preservata4 .

Detto in modo meno brutale, il mercato dovrebbe internalizzare i costi derivati dalla scarsità delle risorse e dalla perdita di biodiversità, in modo da rendere profittevole la sua tutela. Il neoliberalismo, lungi dal ridurre i profitti trae vantaggio dai danni inferti dal capitalismo industriale trasformando in nuove merci le risorse divenute scarse e proponendosi per la "riparazione" dei danni ecologici.  Spostarsi sul fronte green, specie mentre molti settori tradizionali dell'economia stagnano o comunque vedono i tassi di profitto ridotti, diventa così strategico, non solo sul piano della legittimazione ideologica ma anche dell'economia. La mercificazione della natura significa nuove opportunità di accumulazione del capitale e di autoespansione del sistema di mercato5.

Attraverso la conoscenza, la quantificazione, il controllo delle risorse naturali e della biodiversità queste risorse sono trasformate in beni e servizi oggetto di scambi e di finanziarizzazione 6 . Invece di ridurre la presa del mercato sulla società che determina la pressione sull'ambiente si ingloba nel mercato anche la natura. Questa via, contestata dall'ecologia sociale, che però non ha megafoni, è benedetta dal conservazionismo egemonico neoliberale che ha potenti megafoni.

La strategia biocapitalista (fare della conservazione delle risorse e della biodiversità un business) si è estrinsecata attraverso il noto meccanismo del mercato dei crediti di carbonio e dei connessi progetti Redd+ (Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation). Dello stesso genere sono i titoli e i derivati finanziari basati sulla biodiversità e i PES (pagamenti per i servizi ambientali).  

Sull'efficacia di questi meccanismi c'è poco da dire: servono egregiamente a produrre profitti speculativi e volatilità dei mercati, ma non ai fini per i quali sono stati pensati e millantati. Valga l'esempio, meglio conosciuto, dei crediti di carbonio che racconta di un clamoroso insuccesso, con il valore dei titoli sceso da 20 a 3 $ a causa della crisi del 2008 e la fuga degli investitori alla ricerca disperata di altri strumenti speculativi.

Coelho and Gilbertson, nell'analizzare i vari aspetti di questi mercati, hanno osservato a proposito dei titoli legati alla biodiversità (anch'essi alla base di prodotti finanziari derivati)7, che le supposte compensazioni connesse al mercato dei titoli stessi sono  discutibili perché basate sulle sommarie valutazioni della superficie interessata alla compensazione e al "grado di biodiversità"8. Si baratta la conservazione di tot ha di foresta qui con l'impatto devastante di mega infrastrutture là. Come con i diritti di inquinare.

Dietro queste fittizie equivalenze, applicate ai programmi di "sviluppo" della Banca mondiale,  basate sui soliti presupposti riduzionistici dell'approccio scientifico conservazionista, vi sono realtà di habitat unici difficilmente "pesati" in termini di superfici, sia pure corrette per un abbastanza arbitrario coefficiente di biodiversità che tiene conto dell'abbondanza di specie e della loro rarità ma non può tenere conto di complesse relazioni ecologiche. L'ideologia conservazionista, con la separazione concettuale tra uomo e natura e la creazione di una natura protetta che, al di là delle differenze ecologiche concrete è valorizzata per questa qualificazione astratta che accomuna la "natura protetta"  ha reso possibile questa quantificazione del suo valore universale come premessa di mercificazione e scambiabilità, in stretta analogia con il valore universale delle merci che, nonostante le loro diverse caratteristiche fisiche e d'uso sono tutte raffrontabili attraverso il prezzo. Un processo reso possibile grazie al "feticismo della merce" di marxiana memoria che trova corrispondenza nel nuovo "feticismo della natutura protetta", prodotto dell'ideologia conservazionista 9.

Mantenere "sotto una campana di vetro" o dietro i bastioni di una fortezza un territorio per mercanteggiarerne il valore di biodiversità delle specie animali e vegetali rare presenti, il valore delle piante in piedi quale deposito di carbonio ecc. e consentire la devastazione di habitat da qualche altra parte (a volte a fianco dei perimetri dei parchi dove si realizzano nuove piantagioni abbattendo la foresta), non si traduce in una efficace difesa della biodiversità. Anzi. Vantaggi e svantaggi di questi scambi speculativi, infatti, sono ingiustamente distribuiti tra gli attori in relazione al loro potere e forza economica e non in base alla loro capacità di contribuire a mantenere la biodiversità e questo squilibrio non può che nuocere alla sua tutela 10.  In questo trade-off si crea nuova povertà, nuova marginalizzazione che, a dispetto dell'insensibilità sociale (al di là delle dichiarazioni ufficiali) ambientalista, rappresenta un pessimo viatico per la conservazione delle aree protette e della biodiversità. La pressione degli espulsi, immiseriti, sulle stesse aree protette dove erano insediati o su altre superfici forestali e di valore naturalisticoè inevitabile .


Le devastazioni ambientali nel Nord del mondo sono "compensate" con i parchi militarizzati del Sud del mondo.  Doppio business. Così si puntella il saggio di profitto capitalistico

L'ingiustizia socio-ecologica di questa mercificazione delle natura a vantaggio dei ricchi e a svantaggio dei poveri è  evidente nel caso del Reed+, il programma delle Nazioni Unite per ridurre le emissioni di carbonio attraverso il contrasto alla deforestazione e degradazione delle foreste nei paesi "in via di sviluppo" . Esso riguarda le compensazioni offerte in cambio del mancato taglio o incendio delle foreste, calcolate in base alle mancate emissioni di carbonio. Queste compensazioni vengono erogate attraverso programmi che, secondo diversi studi sul tema, beneficiano gli attori locali più forti che si intestano i diritti di proprietà. Per i membri politicamente ed economicamente più deboli delle comunità locali che erano gli utilizzatori consuetudinari di quelle superfici anche in assenza di formali diritti di proprietà, vi è  la perdita secca del mancato utilizzo delle foreste che offrivano loro servizi indispensabili in un contesto di generale aggravamento delle ingiustizie sociali11.

Ci sono autori che hanno giustamente messo in connessione il mercato dei crediti di carbonio con quanto comporta in termini di trasferimento (esproprio) a vantaggio di enti pubblici o privati di diritti di uso collettivo (raccolte, pascolo, caccia, coltivazione contadina) con il famoso movimento delle enclosures che si verificò in Inghilterra tra l'inizio dell'età moderna e il XIX secolo12. Tale movimento consentì, attraverso l'espropriazione delle popolazioni rurali di creare le condizioni per l'accumulazione capitalistica. Grazie alla sostituzione dell'agricoltura di sussistenza (a campi coltivati a cereali) in pascoli per le greggi dei grandi proprietari terrieri usurpatori dei diritti comunitari, la nascente industria capitalistica ebbe a una preziosa materia prima (la lana)  ma anche la necessaria manodopera a basso costo scacciata dalle campagne e costretta a vivere in condizioni disumane in assenza di altre opportunità di reddito, senza poter più disporre di beni alimentari autoprodotti e in condizioni igieniche spaventose, negli slums delle fuliginose città industriali. Le analogie con quanto accade oggi in Africa, ma anche in altre parti del mondo, sono impressionanti. Il capitalismo neoliberale è ancora cattivo, l'ambientalismo, che ne è una componente organica, partecipa  alle peggiori  infamie del capitalismo globale.



Le enclosures inglesi hanno rappresentato il modello di un movimento che, inesorabile, ha raggiunto, prima il continente europeo - dove ancora resistevano forme di gestione collettiva dei beni comuni (vedi, per la nostra realtà alpina, le iniziative napoleoniche e poi lombardo-venete e sabaude della prima metà dell'Ottocento) - poi i paesi colonizzati di tutti i continenti. Quella che è in atto nel mondo oggi è la fase terminale  (la "soluzione finale") a danno dei diritti delle comunità rurali e indigene, una fase che consiste non solo nell'immissione forzata nel sistema di accumulazione capitalistica delle aree più remote del pianeta, ma anche in una controllo ancora più forte delle aree interne dei paesi sviluppati dove favorire uno spopolamento funzionale a forme predatorie di estrazione delle risorese e del passaggio di proprietà di enormi superfici a parchi e altri enti quali percettori e gestori dei titoli derivanti dai "servizi ecologici" (mancate emissioni, mantenimento di specie animali e vegetali, acqua pulita). Su questo aspetto, sulla fondamentale concordanza in un mondo globalizzato tra quanto avviene in aree remote del mondo e sulle Alpi, sull'effetto di schiacciamento e polarizzazione della mondializzazione, che tende a rendere sempre più simili le condizioni di oppressione, trasversalmente alle vecchie suddivisioni tra paesi sviluppati e sottosviluppati, torneremo in un prossimo contributo.


La polizia indiana demolisce capanne di aborigeni tornati abusivamente a stabilirsi nei parchi della tigre

Quello che gli studiosi esprimono in forma più paludata nel linguaggio accademico, Tom Goldtooth, direttore dell' Indigenous Environmental Network lo ha espresso senza perifrasi:  Most of the forests of the world are found in Indigenous Peoples’ land. REDD-type projects have already caused land grabs, killings, violente victions and forced displacement, violations of human rights, threats to cultural survival, militarization and servitude   [La maggior parte delle foreste mondiali è all'interno di territori di popoli indigeni. I programmi tipo REED hanno già causato, appropriazione di terre, omicidi, espulsioni violente, deportazioni, violazioni dei diritti umani e minacce alla sopravvivenza culturale, militarizzazione e schiavitù]13.

Sviluppi recenti o connessione organica tra conservazionismo e capitalismo 

Non conoscendo la storia del conservazionismo si potrebbe pensare che in questi sviluppi della green economy, nella mercificazione della natura, il conservazionismo giochi un ruolo ancillare, che si limita al green washing, a fornire patenti di sostenibilità, ad avallare le iniziative delle grandi corporation in cambio di generosi finanziamenti. Non è così. Non è affatto così.  Il ruolo delle Ong è di protagoniste, di motore di processi, non di assecondatore. Il conservazionismo neoliberale del resto non è che l'ultimo capitolo di una lunga e fruttifera relazione simbiotica tra conservazionismo e capitalismo14 che risale alla formazione dei primi parchi nazionali negli Usa e alle prime associazioni conservazioniste (Sierra Club).


L'azione di John Muir, il padre dei parchi, ricordato per il suo romanticismo, non avrebbe avuto successo senza il supporto lobbystico delle compagnie ferroviarie15 e di influenti ambienti dell' élite sociale di Manhattan16. Quello  che è certo è che il conservazionismo esprimeva gli interessi e bisogni delle grandi città industriali e (già allora) finanziarie e introduceva il concetto di una natura da mettere "sotto vetro", salvo favorirne la "valorizzazione" turistica e "per ritemprare lo spirito", stressato dai ritmi della vita urbana, a contatto con la natura sublime. La collaborazione, all'insegna della creazione dei parchi nazionali, tra i primi conservazionisti e i capitalisti-filantropi (promotori di quello stesso sviluppo capitalistico che comportava pesanti impatti ambientali), ha fatto da modello alle connessioni che tutt'ora caratterizzano il rapporto tra  capitalismo e ambientalismo istituzionalizzato o mainstream che dir si voglia 17.                
Dopo un periodo (anni '60-'70 del secolo scorso) in cui l'ambientalismo era sembrato porsi in modo critico nei confronti del capitalismo, arrivava la "terza ondata" ambientalista con la quale le grandi organizzazioni conservazioniste si sono collocate, dopo gli anni '80, su una linea di completa collaborazione con il capitalismo in nome della green economy18.

Nel mentre l'ambientalismo guadagnava, guarda caso, il pieno supporto dei grandi media  19 e diveniva un elemento di quella "società dello spettacolo" in cui le celebrità del mondo del cinema, dello sport, della politica svolgono il ruolo di testimonial delle campagne ambientaliste 20. Le Ong conservazioniste si fanno imprenditrici della mercificazione e spettacolarizzazione della natura, a tutto vantaggio della nuova classe capitalistica transnazionale (ben diversa da quella a cui pensa chi è fermo alla concezione: capitalista = padrone delle ferriere) alla quale appartiene il loro management, fattore di connessione delle Ong tra loro e delle Ong e le big corp transnazionali21 .

L'azione conservazionista presunta disinteressata, l'aureola di santità che meritano, di default, parole o azioni che hanno a che fare con "specie a rischio", "biodiversità",  il disinteresse e la generosità (sempre supposte) delle Ong a favore dell'ambiente e dell'umanità diventano elemento di auto-evidenza, non più contestabile. Così l'ambientalismo e i suoi sacerdoti,  circonfusi del riverbero della sacralità della  (pura) natura alla quale rendono culto, si sostituiscono al ruolo tradizionale delle religioni. A loro tocca rimettere i peccati ambientali (gli unici peccati veramente gravi ancora contemplati, insieme alla mancata accoglienza indiscriminata dei "migranti", dalle stesse chiese cristiane). A loro tocca vendere le (eco)indulgenze e impartire le (eco)benedizioni. Il tutto in vista di un "nuovo ordine religioso mondiale" in cui le vecchie religioni sono arruolate in blocco a svolgere un ruolo propagandistico subalterno sui temi ambientali presso le masse "arretrate", ma pur anche vaste, ancora sotto la loro influenza22.


Immagine emblematica: il WWF, cinica ed efficiente macchina da soldi capitalista, si assimila, in posizione egemonica, alle religioni storiche dell'umanità.  Ci si chiede perché tanta compiacenza da parte delle religioni


Assisi 1986: il WWF raccoglie le religioni sotto le sue ali

Sintomatica di questi sviluppi è stata la creazione, nel 1986, da parte dell'allora presidente internazionale del WWF, il principe Filippo, di una nuova Ong, l'Alliance of Religions and Conservation (ARC) costituitasi  a seguito di un incontro ad Assisi dei leader di cinque delle principali fedi cui seguì, nel 1995, il coinvolgimento di ulteriori quattro religioni. La ARC opera con il sostegno della Banca mondiale23.

Ciò avviene in un contesto in cui è del tutto venuta meno l'aura di superiore moralità che promanava da una sinistra che ha continuato, anche dopo l'adesione al sistema neoliberale, a fingersi erede dei movimenti che avevano interpretato le speranze di riscatto sociale delle classi lavoratrici (spesso caricate di contenuti palingenetici di ispirazione para-religiosa). Alla "secolarizzazione" della sinistra (l'adesione al PCI aveva i connotati dell'adesione a una chiesa) è corrisposta una fase estrema dei processi di secolarizzazione che hanno investito, anche dall'interno, la chiesa post-conciliare, sino al ludibrio a cui oggi è esposta degli scandali omosessuali; nel trattempo i luterani mettono in vendita le chiese per mancanza di fedeli (e la chiesa cattolica ci sta pensando).  Le uniche grandi organizzazioni sociali che non sono chiamate a rendere conto della congruenza tra i fini dichiarati e il reale modus operandi (e che quindi è oggetto di una “fede” che prescinde da verifiche razionali), è l'ambientalismo conservazionista (alla WWF, perché Legambiente è percepita più "laica" e compromessa con la sinistra).


Un contributo molto significativo verso questi esiti l'ha offerto, grazie alle posizioni assunte in materia ambientale, lo stesso papa Bergoglio che - oltre a contribuire in tante occasione a delegittimare dall'interno la chiesa - in materia ecologica ha marcato una chiara differenza con i suoi predecessori, attenti a non confondere l'ecologia sociale (ispirata alla tradizionale dottrina sociale della chiesa), con l'ambientalismo tout court di matrice liberal-progressista-darwiniana. Bergoglio ha fatto propri in modo piuttosto acritico i temi dell'ambientalismo, conferendo ad esso sempre più autorità morale.

Non è solo la capacità di egemonia ideologica24 a conferire al mainstream ambientalista la sua forza ma anche quella di sostituirsi alle religioni come autorità morale e di giocare abilmente su piani in  contraddizione tra loro: tra richiami emotivi, appelli ad una superiore etica ambientale dall'afflato spiritualista, razionalismo scientifico positivista e spietato spirito commerciale, il tutto senza dover "pagare dazio". Significativa la capacità di far convivere (e di usare come registri più convenienti in base all'occasione), lo scientismo di matrice positivista darwiniana e una versione soft e allusiva di quella religiosità della Madre terra, cosmica e panteistica alla quale l'ecologismo "profondo" dichiara espressamente di aderire.   Questa è la forza del potere: la capacità egemonica, frutto di abile e ambigua capacità di conciliare eterogenee ispirazioni ma anche di penetrazione nei meccanismi di formazione del consenso e dell'immaginario grazie al sostegno di schiere di intellettuali ideologici operanti nel mondo dello spettacolo, dell'editoria, dell'istruzione.  Dietro a questa capacità egemonica, come insegnava Gramsci, non c'è il caso, la fortuna, l'abilità ma un blocco storico, nel nostro caso la nuova classe capitalista transnazionale.

La spettacolarizzazione della natura selvaggia come strumento di consenso e di mercato

Nel capitalismo neoliberale non c'è differenza tra intrattenimento, propaganda, informazione. Tutto si paga, tutto è merce, anche gli strumenti di creazione e mantenimento del consenso peraltro inglobati dentro le merci stesse. Paghi anche le catene dorate del consumismo.  Le "aree protette" sono il principale prodotto  del conservazionismo.  Abbiamo già visto come esse, attraverso il controllo centralizzato di vaste aree e un sistema mondiale ben monitorato si prestino ottimamente a garantire l'offerta di mercato aggregata dei titoli di carbonio, biodiversità, PES ecc.

Le aree protette sono, però,  occasione di altri business tutt'altro che trascurabili. La prima forma storica di commercializzazione della “natura protetta” dai tempi di Yosemite, il turismo, continua ad essere la più importante tra grazie al passaggio dal turismo di elite all'ecoturismo accessibile a strati intermedi (mentre il turismo d'avventura continua ad alimentare l'offerta di nicchia)25. Non importa poi se il turismo è la principale forma di "disturbo antropico" nelle aree protette.

Il turismo è trainato dalle produzioni multimediali. È dalla nascita delle televisione che al telespettatore occidentale sono somministrate dosi massive di documentari naturalistici. Queste produzioni hanno creato i presupposti per l'ulteriore spettacolarizzazione e commodificazione della natura ma hanno avuto anche un ruolo strategico nella veicolazione dell'ideologia della "natura incontaminata", a partire dal film incoronato da Hollywood nel 1957: No place for wild animals di Michael Gzimek figlio di Bernhard autore di un omonimo libro dove, senza fondamento scientifico, il direttore dello zoo di Amburgo attribuiva ai pastori Masaai (a seguito di ciò cacciati dalle loro terre) la responsabilità di una presenta drammatica riduzione della fauna.

L'oppio del popolo viene somministrato grazie a forme di spettacolo e comunicazione capaci di suscitare emozioni. Sul clichè dei primi documentari per il cinema, la televisione ha poi riproposto per decenni i documentari di Sir David Attemborough e dei suoi cloni (ce ne sono stati anche in Italia) sino ad arrivare alle trasmissioni di intrattenimento ambiental-conservazionista alla Licia Colò. Il consumo più di massa (cinema, tv) di "natura selvaggia" trascina a sua volta l'editoria specializzata (National Geographic e i suoi cloni come Airone) genera un indotto di pubblicità per le Ong (donazioni, affiliazioni), ma anche di destinazioni turistiche, abbigliamento outdoor, attrezzature da campeggio, auto fuoristrada. Un non piccolo consumismo "verde". C'è poi quel mercato che gli addetti ai lavori non amano ricordare perché riguarda loro stessi: i finanziamenti per i progetti di ricerca, i contratti di consulenza, le opportunità di istruzione, viaggio, riconoscimenti pubblici, avanzamenti di carriera26.

Un prodotto delle "aree protette" è anche il green washing.  Wilfried Huismann, nel suo documentario e libro inchiesta Pandaleaks the dark side of WWF 27 racconta come, con la benedizione del WWF, grandi estensioni di foresta indonesiana sono state trasformate in piantagioni di palma (certificata "sostenibile" dal Panda), lasciando qua e là delle ridotte aree protette. Lo stesso in Argentina dove il Parco Nazionale Pizzarro compre solo 4 mila dei 20 mila ettari sui quali si estendeva in precedenza l'area protetta, ora coltivati a soia ogm. Il parco ha in dotazione solo una bicicletta anche se l'organizzazione argentina Fundación Vida Silvestre, associata al WWF e con questo in stretta collaborazione28, ricevette 167 mila dollari dal Global Environment Fund per realizzare un piano di gestione del parco. Il finanziamento è stato completamente destinato a consulenze (deve succedere spesso).

Esibire materiale filmico e fotografico delle aree protette è utile per coprire operazioni a danno dell'ambiente esercitate (appena fuori dei perimetri dell'area) da potenti gruppi economici29. Attraverso il materiale filmico e fotografico dei paesaggi e della fauna delle aree protette sono stati creati nuovi prodotti come lo Starbucks conservation coffe e il McDonald Endangered Species Happy Meals.


La simbiosi tra consumismo e conservazione contribuisce alla diffusione del messaggio rassicurante che sia sufficiente consumare per salvare il pianeta. Con la postilla che è meglio consumare i prodotti della grande multinazionale (che devolvono alle Ong parte dei ricavi e ne ottengono le indulgenze ecologiche del caso) che quelli dei piccoli produttori. Questi ultimi, se del caso, saranno protetti in qualche riserva indiana del mercato equosolidale grazie alle relative linee di prodotto delle multinazionali. Ovviamente il WWF presenta le cose diversamente30, ma la sostanza non cambia: la protezione della natura passa per la transazione tra qualche regola, facilmente sopportabile dal bussiness, e il viatico del logo del panda o di qualche forum con la partecipazione del WWF impresso ai prodotti.

La maggior competitività dei prodotti benedetti come "sostenibili" rispetto agli altri legata al loro appeal presso il pubblico "consapevole", compenserà il costo dell'uso del logo (la decima al WWF) e i costi aggiuntivi richiesti per dare un ritocco cosmetico ai processi produttivi. Un meccanismo win-win dove tutti ci guadagnano? Non proprio perché tra i produttori non benedetti dai sacerdoti conservazionisti alcuni potrebbero essere effettivamente meno virtuosi, ma altri semplicemente piccoli produttori che utilizzano canali di commercializzione diversi da quelli delle grandi società. I grandi gruppi che hanno ricevuto le green label dal WWF: Monsanto, Coca-Cola, Shell, HSBC, Cargill, BP, Alcoa, Maine Harvest hanno beneficiato in termine di immagine ma il loro business è rimasto pressoché invariato. Solo che mentre qulche anno fa l'immagine delle multinazionali era molto negativa ora è stata grandemente ripulita e le denunce contro il "business as usual" cadono nel vuoto. Benedetto ambientalismo.


La spettacolarizzazione cinica


La spettacolarizzazione cinica,  attenta all'estetica, al messaggio emotivo e ai contenuti rassicuranti, unita al ruolo di testimonial delle celebrità contribuisce alla condizione egemonica del conservazionismo capitalista e riesce a nascondere ingiustizie e conflitti così come i costi del consumismo globale e le contraddizioni sociali e ambientali.

Immagioni di paesaggi sconvolti,  uomini e donne dall'aspetto esotico e animali "carismatici"31 sono tutti soggetti commoventi (specie se cuccioli strappa lacrime) utilizzati per proporre soluzioni immediate a  problemi urgenti e situazioni disperate che solo la determinata Ong è in grado di affrontare32. Vedi le campagne con gli orsi bianchi fanno credere che con i necessari investimenti resi a loro volta possibili da generose donazioni, o dal consumo di prodotti che prevedono la destinazione di una quota al WWF, tutto si risolve o quasi. Queste campagne hanno un altro scopo: far credere al pubblico che il WWF e soci, dipendano dai contributi della gente comune, distrarre dalla realtà dei cospicui, sostanziali finanziamenti dei governi, delle multinazionali (in forma alla luce del sole e mimetizzata), delle fondazioni. 

Grazie ad una immagine inossidabile le denunce, documentate, della truffe sottese al conservazionismo capitalista, delle violenze, delle deportazioni dei crimini commessi a danno delle comuinità contadine e dei popoli tribali vengono facilmente rimosse e dimenticate in forza del potere egemonico (oltre che in azioni specifiche messe in atto dalle ONG e dagli altri soggetti che presiedono all'imbroglio ecologico).


Mentre il WWF proclama di difendere gli oranghi concede alle piantagioni di palma da olio che hanno sostituito la foresta e distrutto l'habita degli oranghi, la patente di sostenibilità accettando che al posto delle immense foreste di un tempo siano lasciati dei fazzoletti di terra (in proporzione) con l'etichetta di area protetta.


Il già citato Pandaleaks, contro la cui uscita il WWF aveva opposto istanze legali, è stato per un po' un best-seller in Germania ma non ha scalfito la sua immagine. Il pubblico, in forza dell'immagine costruita intorno al WWF dagli apparati mediatici e dal sistema di pubbliche relazioni dell'organizzazione, tende a non credere agli scandali e alle denunce che mettono sotto accusa il Panda. I pochi critici sono subissati da un fuoco di accuse mentre nel mondo ambientalista vige l'autocensura e raramente le altre Ong  criticano in pubblico il WWF per timore di ritorsioni
33.

Tra i giornalisti che hanno sperimentato il trattamento riservato dal WWF ai suoi critici vi è il precedente famoso di Kevin Dowing. Nel 1989 Dowing rese pubblici i risultati di un rapporto interno al WWF redatto da  John Phillipson, un professore di Oxford, che sosteneva come le azioni del WWF in Africa e in Cina (panda) fossero risultate del tutto inefficaci. Per di più emergeva come dal 1961, quando il WWF aveva iniziato la campagna di raccolta fondi a favore del rinoceronte nero, al 1973 non un penny era stato speso per questo scopo. Per far fronte alle conseguenze che queste rivelazioni avrebbero potuto avere in termini di ridotte raccolte di fondi  WWF dovette creare una unità di crisi investendo 350 mila sterline34. Dowing aveva anche osato mettere a nudo vicende sensibili che riguardavano i rapporti tra la corona e i servizi inglesi da una parte e il WWF dall'altra. In particolare l'impiego da parte del WWF di mercenari ex appartenenti alla forze speciali inglesi (SAS) per organizzare in Sudafrica unità paramilitari di lotta al bracconaggio a colpi di esecuzioni sommarie. Di per sé inquietanti queste attività risultavano intrecciate a quelle di addestramento delle formazioni dell'UNITA (fazione armata mozambicana in lotta contro il MPLA, quest'ultima di ispirazione comunista) e di antiguerriglia ( sempre sotto le specie della lotta al bracconaggio), contro l'ANC di Mandela (che, accolto tra i potenti del mondo, ricevette anni dopo la più alta onorificenza per meriti conservazionistici: il golden ark, istituita dal principe Bernardo d'Olanda presidente e fondatore del WWF). Dowling fu pesantemente denigrato e finì solo e dimenticato i suoi giorni. Monito per i posteri.

Non diversamente dai giornalisti anche gli studiosi che espongono risultati negativi in termini di efficacia delle politiche conservazioniste del WWF sono subissati di critiche. Il WWF è il committente diretto o indiretto (attraverso finanziamenti alle università e ai centri di ricerca) di una grande quantità di studi; se poi si considerano anche quelli finanziati da partnership con i parchi o altri enti con i quali il WWF collabora e ha influenza, non è difficile comprendere come gli outsider che osano offuscare l'immagine del Panda rischino di diventare dei paria. Paul Jepson, autore nel 2003 di un report indipendente sullo stato dell'elefante asiatico35, riferisce che le sue osservazioni critiche non gli sono valse altro che commenti negativi anche da parte dei suoi stessi colleghi e ne ha tratto l'amara conclusione che It is to no avail. People do have a preference for believing that WWF is good.[Non ne vale la pena. La gente preferisce credere che il WWF sia una cosa buona].

Diventa ancora più arduo sottoporre a critica le "aree protette", il simbolo, la legittimazione stessa delle ONG conservazioniste. Se questa critica diventa accusa nei confronti delle aree protette di operare in aperta violazione dei diritti umani e dei diritti dei popoli indigeni e tradizionali, di essere causa di ingiustizia sociale, povertà e violenza, allora la reazione dei grandi interessi conservazionisti si fa durissima.  Lo testimonia quanto riferito dagli organizzatori di un seminario svoltosi a Washington, presso il Department of Anthropology dell'American University il 16-19 maggio 2008. Il seminario riuniva gli appartenenti a una rete internazionale di studiosi e attivisti preoccupati per i modi in cui la natura viene mercificata e privatizzata in nome della conservazione della biodiversità, e per le modalità con le quali le popolazioni locali vengono allontanate dalle loro case o private dei loro mezzi tradizionali di sostentamento in nome del conservazionismo36.

Le persone appartenenti a questa piccola rete "disobbediente", come essa stessa si definiva, erano - come loro stessi dichiararono - state oggetto di censure, minacce di azioni legali, contatti da parte dell'FBI, minacce di licenziamento o di chiusura di canali di finanziamento della ricerca. Non solo ma diversi partecipanti al workshop riferirono di essere stati vittime di diffamazione, insulti e aggressioni verbali in forme tali da far loro  ritenere che dietro tutto ciò vi fosse un'azione orchestrata con l'obiettivo di isolare e demoralizzare le vittime e indurle a sensi di colpa, ad auto-interrogarsi rispetto alle loro osservazioni sul campo e alle loro dichiarazioni37.  La denuncia assume particolare gravità perché proveniva dall'interno di un mondo (università, Ong, charity) dove raramente "volano gli stracci" in forma pubblica.  Tra i "disobbedienti" vi erano alcuni degli studiosi che avevano partecipato al dibattito scientifico tra la fine degli anni '90 e i primi anni del nuovo secolo aveva riguardato l'impatto delle politiche conservazioniste e, in particolare, della creazione e ampliamento delle aree protette, sulle popolazioni , a partire dal fenomeno dei  "rifugiati del conservazionismo" (si, ci sono anche quelli, anche se sono tenuti nascosti, mentre si sbandierano i rifugiati climatici). 


I guardiaparco finanziati e istruiti dalle Ong conservazioniste sono spesso protagoniosti di esecuzioni sommarie a carico dei "bracconieri" e delle espulsioni brutali di comunità già insediate su quelle che vengono decretate nuove aree protette

Il dibattito sui profughi del conservazionismo, che era già iniziato negli anni '90, vide un'accelerazione nel 2003 con il Congresso mondiale sulle aree protette dell'IUCN a Durban in Sud Africa. Qui vennero presentati contributi specifici sul tema dei trasferimenti forzati tra i quali si segnala quello di Michael Cernea National parks and poverty risks: Is population resettlement the solution?38. Dopo anni di intense vicende e di molte pubblicazioni, meetinf, workshop, il dibattito sul tema scottante e politicamente scorretto dei conserservation refugees ebbe termine nel 2009 , quando la rivista Conservation and Society ha dedicato un intero fascicolo al tema dei trasferimenti forzati di popolazioni con il trasparente intento di "chiuderla lì".

Il dibattito ha coinvolto dall'interno il mondo conservazionista scientifico nella sua duplice componente di  matrice biologica tradizionale "pura" e socio-conservazionista, quest'ultima più legata alle iniziative delle agenzie internazionali per lo "sviluppo" (Banca mondiale, USAID), la prima direttamente alle grandi Ong conservazioniste o attaverso gruppi di specialisti IUCN. Non si può notare come ad aprire e a chiudere il dibattito sul fascicolo dedicato da Conservation and Society siano i contributi di due autori 39 di cui uno affiliato alla WCS, una delle Ong, sia pure non tra le principali, che viene messa sotto accusa dai difensori dei diritti dei popoli indigeni. Traspare la volontà di stoppare il dibattito una volta per tutte e il ruolo un po' imbarazzante di difensori d'ufficio delle Ong (e di sé stessi) di alcuni dei partecipanti che si appellano, in mancanza di meglio, alla constatazione che, dopotutto, si dispone di poche centinaia di pubblicazioni (delle quali si mette anche in dubbio la qualità) per migliaia e migliaia di aree protette. Nella loro fredda ragionieristica conservazionistiva l'aspetto “qualitativo” delle violenze contro le più indifese comunità umane del pianeta, comunque documentate in molte circostanze, viene svalutato in assenza di una più cospicua messe di documentazione che mai potrà essere prodotta ma che viene invocata solo come ipocrita al fine di tacitare una coscienza sociale molto rilassata. I conservazionisti fanno finta di non sapere che non ci sono, come per altri argomenti per accattivanti, stuoli di fondazioni, agenzie internazionali e sponsor vari desiderosi di finanziare gli studi su un problema così scabroso come quello dei rifugiati causa dei parchi o degli abusi a danno delle popolazioni indigene a causa della presenza di aree protette.

Raramente su riviste scientifiche si assiste a dibattiti così accesi. Le posizioni, così come presentate dagli opposti schieramenti nel 2009 erano inconciliabili: mentre i difensori d'ufficio delle BINGO, le Big Ong (facilmente reclutabili tra i molti scienziati ad legati direttamente o indirettamente)  si appellavano, da bravi azzeccagarbugli scientifici, alla "mancanza di dati", alla "non sufficiente documentazione". I critici come Kai Schmidt-Soltau rispondevano per le rime sulla base di esperienze dirette. Esemplare il duello tra lo stesso Kai Schmidt-Soltau 40 e Curran e coll.41 Essi sostenevano di non aver potuto verificare un singolo caso di trasferimento forzato nei parchi oggetto dell'indagione di Schmidt-Soltau (che ne contava 54 mila) al che quest'ultimo ribatteva che quanto da lui osservato era stato confermato anche da altri autori e commentava, sbottando: This stark discrepancy suggests that the critique was not produced in scientific recognition and respect of facts by truthseeking researchers and scientists. Rather, it appears to be a belated echo of the old strategy of camoufl aging human rights violations under the guise of the good and necessary cause of biodiversity conservation [Questa netta discrepanza suggerisce che la critica non è stata prodotta sulla base di un riconoscimento scientifico e nel rispetto dei fatti da ricercatori e scienziati in cerca della verità. Piuttosto, sembra essere un'eco tardiva della vecchia strategia di camuffamento delle violazioni dei diritti umani sotto le spoglie della buona e necessaria causa della conservazione della biodiversità] 42 .

Non solo quindi accusava ai conservazionisti "tradizionali" (organici alle Ong) di "falso ideologico" ma anche di conflitto di interessi, ovvero di criticarlo per il timore di perdere i finanziamenti. Una motivazione che traspariva dalla prima pubblicazione di Curran e coll. che era stata affidata all' house organ della stessa WCS (World Conservation Society, la Ong conservazionista patrocinata dallo zoo del Bronx)43.

Merita di essere citata ancora una considerazione di Schmidt-Soltau perché mette a fuoco l'atteggiamento conservazionista:  my critics presume to know better than those affected what is best for those living around protected areas. This is the old sad story of some individuals who assume to have the right and the knowledge to sacrifice other people and/or their livelihood for some greater good. [i miei critici presumono di conoscere meglio dei diretti interessati ciò che corrisponde al loro bene. Si tratta della vecchia storia di quegli individui che presumono di avere il diritto e le conoscenze adeguate per imporre ad altri di sacrificare essi stessi e i loro mezzi di sussistenza in nome di un bene supremo].


Le grandi organizzazioni conservazioniste: WWF, IC, TNC, WCS ( le BINGO) sono sempre più ricche e potenti e continuano a godere di un'ottima immagine pubblica. Esse hanno deciso che le foglie di fico del "coinvolgimento comunitario" e le preoccupazioni per l'impatto sociale e culturale che, solo sulla carta, esse stesse ritengono importanti, sono in realtà solo perdite di tempo, intralci per il vero lavoro di conservazione. Per salvare la biodiversità occorre, secondo le BINGO, tirare dritto sulla base delle incontestabili indicazioni della scienza biologica. Hard conservancy.

Questa, ovviamente, è una posizione di comodo, che consente al conservazionismo mainstream di gestire come "cosa propria", senza interferenze, l'immenso ambito delle aree protette mondiali e le strategie di conservazione come loro feudi. Le ONG conservazioniste sanno bene che le popolazioni scacciate da un parco, sia che si insedino ai suoi confini che altrove, tenderanno a danneggiare la biodiversità, sia per rivalsa che per evitare di essere scacciate di nuovo. Meglio eliminare la fauna a rischio che rischiare altre "riallocazioni" forzate. Le critiche al conservazionismo hard che calpesta i diritti umani individuali e collettivi non vanno contro la difesa della biodiversità, vanno contro gli interessi consolidati delle BINGO.

Biodiversità e sviluppo sostenibile para todos?

Occorre però tornare indietro di qualche anno per capire questa vicenda. Nel 1992, il ruolo delle popolazioni indigene nelle aree protette è stato uno dei temi principali del IV Congresso mondiale di Caracas sui parchi nazionali e le aree protette della IUCN Unione internazionale per la conservazione della natura (la ONG ombrello che raccoglie tutte le organizzazioni ambientaliste ma che è partecipata anche da rappresentanti di agenzie governative)44. In seguito, la IUCN e il WWF hanno iniziato a produrre una serie di documenti che riconoscono il valore della conoscenza tradizionale, la necessità di rispettare le tradizioni indigene e l'importanza della creazione di partnership 45. Nell'ottobre 1996 vennero ufficialmente presentati da parte delle due ONG i Principles and Guidelines on Indigenous and Traditional Peoples and Protected Areas 46. Il documento riconosceva che le popolazioni indigene hanno spesso apportato contributi significativi al mantenimento di molti degli ecosistemi più fragili della terra e che esse dovrebbero essere considerate quali partner legittimi e paritari (sic) nello sviluppo e nell'attuazione di strategie di conservazione che riguardano le loro terre, territori, acque, mari costieri e altre risorse, e in particolare nella creazione e gestione di aree protette. Bontà loro! Anche se il tono era paternalistico, almeno il documento indicava la necessità di cogestione e rispetto per le popolazioni indigene e la loro conoscenza dell'ambiente.

Le ONG conservazioniste parvero inizialmente aderire alla nuova visione e iniziarono a progettare programmi per operare in sintonia con le comunità locali47. Anche gli sponsor,  le fondazioni private e le agenzie internazionali spingevano in tale direzione sinbo al punto di spingersi a un ripensamento del ruolo delle aree protette in grado di contemperare conservazione e utilizzo sostenibile delle risorse 48. Gli schemi che si rifacevano a questa impostazione erano ovviamente influenzati dalla grande eco che in quegli anni stava conoscendo lo slogan dello "sviluppo sostenibile" al quale tutti (o quasi) - anche se su posizioni tra loro inconciliabili - volevano rifarsi. Le iniziative ispirate al nuovo spirito di partenariato e rispetto per la popolazioni locali vennero identificati come “community-based conservation,” “integrated conservation and development programs” (ICDPs) ecc. 49. Tutto questo entusiasmo, in larga parte sostenuto dalla formula magica dello "sviluppo sostenibile" era destinato ad evaporare ben presto.

Nel 199,9 presso il Refugee Study Centre in Oxford si tenne una storica conferenza dal titolo Displacement, Forced Settlement and Conservation50 che raccolse contributi sul tema da tutto il mondo. Nel 2003, al V Congresso dei Parchi Mondiali di Durban, organizzato dall'IUCN, la necessità di tenere conto dei diritti delle popolazioni locali, nel decidere le modalità di gestione delle aree protette, rappresentò uno degli elementi principali delle discussioni e non mancarono aspre proteste contro gli effetti spesso devastanti della conservazione della natura sulla società e la capacità delle popolazioni povere di procurarsi i mezzi di sussistenza51 . I “conservazionisti scientifici”, quantomeno almeno una parte di essi, accolsero con freddezza queste “intromissioni” ed ebbero la sensazione che il meeting fosse stato sequestrato da forze estranee che avevano violato il loro sacro recinto 52

Nel giugno 2003, secondo quanto riferisce Mac Chapin (un antropologo dell'Università del Colorado che si è occupato in profondità del conflitto tra conservazionismo e diritti dei popoli indigeni), i rappresentanti di importanti fondazioni amaericane, preoccupate per la perdita di biodiversità sul pianeta e impegnate in generosi finanziamenti in progetti atti a contrastarla, si riunirono in South Dakota per una sessione del gruppo consultivo sulla biodiversità53. Al secondo giorno diversi dei partecipanti si incontrarono per affrontare un problema che era per loro causa di crescente disagio, ovvero le segnalazioni di veri e propri abusi contro le comunità locali commessi dalle tre maggior ONG conservazioniste (WWF, CI e TNC),  contro le popolazioni tribali e tradizionali e la loro crescente esclusione (altro che “partecipazione”) dai programmi di conservazione. Quello che infastidiva i rappresentanti delle fondazioni era il fatto che le ONG in questione avessero ricevuto da loro stesse stesse milioni e milioni di dollari. CI, Conservancy International, fondata nel 1987 con personale “scissionista” del WWF, era stata lanciata grazie al sostegno delle fondazioni.

Jeff Campbell della Ford Foundation si incaricò di svolgere due studi sulle relazioni tra le ONG conservazioniste e i popoli indigeni, mentre gli altri membri del gruppo di indagare sui bilanci delle stesse. Lo studio della Fondazione Ford (Study on Critical New Conservation Issues in the Global South) conteneva due indicazioni chiave: 1) le ONG in questione erano diventate molto rapidamente più ricche e più grandi; 2) erano implicate in una serie di contenziosi non solo con comunità indigene ma anche con ONG nazionali e gruppi di attivisti per i diritti dei popoli. Due membri del consiglio di amministrazione della fondazione Ford: Yolanda Kakabadse, presidente del IUCN, e Kathryn Fuller, presidente del WWF decisero che lo studio non dovesse essere divulgato. Non doveva neppure essere trasmesso ufficialmente ai funzionari della fondazione stessa che, però, ebbero la possibilità di leggerlo. Il grande pubblico non venne mai a sapere nulla di questo scontro aspro all'interno dei centri di potere. Nell'aprile 2004 si tenne un incontro di quattro giorni tra le ONG e le grandi fondazioni finanziatrici (rappresentate dagli stessi presenti in South Dakota l'anno precedente) . Questa volta oltre ai tre big si aggiunsero WCS e IUCN . Tutte le ONG erano rappresentate al vertice. Dei popoli indigeni neppure l'ombra. Toccò ai rappresentanti delle fondazioni, la facciata umanitaria e altruistica del capitalismo, sostenere la causa dei popoli indigeni. Uno di questi rappresentanti rinfacciò alle ONG di stare dalla parte delle multinazionali, in modo particolare quando sono loro sponsor, mentre i popoli indigeni si oppongono alle loro azioni di estrazione di risorse da ecosistemi fragili. Le ONG ribatterono sdegnate: “non facciamo politica”. Le ONG difesero senza cedimenti la loro posizione accusando le fondazioni di “dare credito agli attivisti”. Pur contenendo l'aggressività verbale entro i limiti della buona educazione le ONG non si dimostrarono affatto compiacenti verso coloro che li finanziavano. Nel frattempo, infatti, erano riuscite ad essere foraggiate in forma più ampia dalle stesse multinazionali. Il meeting si concluse rimandando ogni decisione. Ma la riunione successiva, nel giugno 2004, si risolse in discussioni inconcludenti. Tutto finì in nulla perché anche le fondazioni avevano problemi aperti, dovendo tra l'altro rispondere (Ford) a un comitato parlamentare del congresso americano dell'uso dei fondi per il sostegno di gruppi politici estremisti e per vari conflitti di interessi. La morale di questo interessante scontro tra la componente più “buonista” del sistema capitalistico (le fondazioni) e le Ong conservazioniste è che il peso di queste ultime all'interno del sistema è tanto cresciuto che esse possono rapportarsi direttamente alle corporation, trattando le fondazioni con sufficienza.

Archiviato lo scontro con le fondazioni le ONG conservazioniste , nel novembre 2004, al World Conservation Congress dell'IUCN a Bangkok, affollato di 6 mila conservazionisti convenuti da tutto il mondo, dovettero confrontarsi con nuove imbarazzanti proteste. Il capo Maasai Martin Saning'o, si presentò a una sessione del congresso dichiarando, davanti a una platea di facce bianche attonite: Noi siamo nemici della conservazione. Di più: Non vogliamo essere come voi, voi dovete essere come noi, noi siamo qui per farvi cambiare idea, non potete ottenere risultati nella conservazione senza di noi. La protesta di Saning'o poteva essere considerata la punta dell'iceberg di un movimento di popoli indigeni che si sentono “rifugiati della conservazione”, ovvero cacciati a forza o con vari mezzi di coercizione e persuasione dalle loro sedi per “liberare” della loro presenza disturbatrice (per definizione di wilderness) le aree protette. Una "evacuazione" che - a volte formalmente presa da governi o Ong locali - presuppone il coinvolgimento diretto (o quanto meno il tacito consenso) delle BINGO senza che, dall'altra parte, i diretti interessati siano coinvolti nelle decisioni sul loro destino54.

Ormai erano chiari i segnali che, almeno presso alcuni ambienti più informati, la favola del conservazionismo eroico, disinteressato e generoso si stesse sgretolando. The unpopularity of protected areas has come as an unwelcome shock for many conservationists. For years conservation has enjoyed the moral high ground. It was saving the planet, rescuing species from extinction, and taking a stand against the rapacious consumption of resources by one virulent species. This image of ‘global good guys’ is not only an important part of conservationists’ own self-perceptions, it is also essential to the image of large conservation organizations in their fund-raising appeals. Now these same organisations find themselves engaged in publicity battles, the negative consequences of which could be particularly damaging to their institutional wellbeing. [L'impopolarità delle aree protette è diventata uno shock sgradito per molti ambientalisti. Per anni la conservazione ha goduto di un alta considerazione morale. Stava salvando il pianeta, salvando le specie dall'estinzione e prendendo posizione contro il rapace consumo di risorse da parte di una specie virulenta. Questa immagine dei "bravi ragazzi globali" non è solo una parte importante dell'auto-percezione dei conservazionisti, ma è anche essenziale per l'immagine delle grandi organizzazioni di conservazione nei loro appelli per la raccolta di fondi. Ora queste stesse organizzazioni si trovano impegnate in dispute pubbliche le cui conseguenze negative potrebbero essere particolarmente dannose per il loro benessere istituzionale]55.


L'Accordo di Durban del 2005, elaborato dalla IUCN come risultato del Congresso del 2004 56 andava ancora oltre sollecitando le istituzioni e gli stati a coinvolgere direttamente le comunità locali nella creazione di aree protette. Queste raccomandazioni erano però inserite nel contesto di una pletora interminabile di raccomandazioni buoniste che ne denunciava il carattere di meri auspici e apparivano comunque ormai superate dal nuovo atteggiamento delle grosse ONG conservazionistre che – del tutto insensibili alle critiche e infastidite da tutti quei vuoti richiami all'attenzione alle popolazioni locali, stavano riposizionandosi su un terreno "preservazionista" ovvero un ritorno al conservazionismo duro e puro con programmatica esclusione di presenza e attività umana nelle aree protette da difendere come fortezze (e non in senso metaforico) 57.

L'insuccesso delle iniziative all'insegna dello "sviluppo sostenibile" e del coinvolgiomento delle popolazioni era inevitabile se si pensa che  le organizzazioni conservazioniste non solo non  erano attrezzate culturalmente e professionalmente per affrontare problematiche socioculturali ma che, al di là di formali accondiscendenze nei confronti delle agenzie internazionali e dei vari sponsor, mantennero un approccio tecnocratico immutato ai problemi.   Le severe critiche ai promotori, agli sponsor e agli attuatori dei progetti di "community based conservation" f non tenevano conto che, almeno nel caso in cui fossero implicate le grandi ONG conservazioniste, era da ascrivere a loro responsabilità il fallimento di programmi "partecipati"nei quali le comunità indigene non erano state realmente coinvolte58. Esse sfruttarono questi fallimenti di cui erano almeno in parte responsabili, per qualificare (non senza ragione) come "espediente politico" la "moda" dell'uso sostenibile delle risorse come strumento per proteggerle e tutta la retorica delle soluzioni win-win 59.

Le BINGO conservazioniste internazionali: WWF, TNC (The nature concervancy), WWF,  IC (International conservacy) WCS (World conservancy society),  rivendicavano che la tutela della biodiversità doveva essere ricondotta a an enterprise based on sound science [un impresa basata sulla scienza sana]60 secondo l'approccio scientista e tecnocratico che ritiene che ogni contaminazione con questioni politiche e sociali “contamini” la scienza conservazionista. (come se essa non si muovesse in un vuoto pneumatico sterilizzato dalle visioni, degli interessi, relazioni sociali che, invece, condizionano gli elementi assiomatici del paradigma stesso di ogni discorso scientifico, nel caso del conservazionismo l'assunzione della separazione tra natura e cultura, un costrutto sociale della modernità occidentale ignoto alle culture extra-europee. Il riferimento alla scienza è anche strumentale, evocativo di una competenza e autorità superiore alle conoscenze delle persone comuni, alle quali inchinarsi con deferenza. Un modo efficace per nascondere l'autoreferenzialità conservazionista, la sua pretesa di considerare la difesa della biodiversità un ambito esclusivo entro il quale le ONG e i loro scienziati non devono subire "interferenze" di nessun genere. Loro, i manovratori, non devono essere disturbati mentre giocano al demiurgo, a Dio nel gran teatro della natura. Neppure gli sponsor non devono farsi troppe domande e troppi scrupoli: il “mestiere” è affare delle ONG e dei loro staff scientifici e organizzativi; solo loro possono farlo.

Mac Chapin riferisce che un biologo di CI (Conservancy international) che opera presso le tribù indios in Brasile ebbe occasione di esporgli il suo franco pensiero I don’t care what the Indians want. We have to work to conserve the biodiversity [Non me ne importa di ciò che vogliono gli Indios. Noi dobbiamo lavorare per conservare la biodiversità]61. Un atteggiamento quantomeno non ipocrita.
Chapin riferisce che: «They see themselves as scientists doing God’s work,» says one critic, pointing out the conservationists’ sense of « a divine mission to save the Earth.» Armed with science, they define the terms of engagement. Then they invite the indigenous residents to participate in the agenda that they have laid out. If the indigenous peoples don’t like the agenda, they will simply be ignored. ["Si sentono come scienziati che stanno operando alla maniera di Dio" osserva un critico che sottolinea il senso di "missione divina per salvare la terra" . Armati di scienza essi definiscono i termini dell'accordo. Quindi invitano gli indigeni residenti a partecipare ad un programma che è già stato predisposto. Se agli indigeni il menù non piace, essi saranno ignorati"62.

La denuncia di deportazioni, abusi e violenze a danno delle popolazioni in relazione alle politiche delle aree protette non è peraltro cessata. Attivisti e Ong come Survival internationalhanno continuato la campagna aprendo anche, come vedremo oltre, dei contenziosi con il WWF. Il mainstream conservazionista è ovviamente irritato delle prese di posizione dei popoli indigeni e delle organizzazioni che svolgono attività di advocacy nei loro confronti (anche se sono punture di spillo, tiri di fionda contro i panzer).

Steven Sanderson, presidente della WCS è tra i molti che è ritengono che sollavare la questione dei diritti individuali e collettivi di chi viene cacciato dalle foreste dove viveva da migliaia di anni metta a rischio la conservazione delle foreste stesse. Forest peoples and their representatives may speak for the forest, [...] They may speak for their version of the forest; but they do not speak for the forest we want to conserve. [I popoli delle foreste e i loro rappresentanti possono parlare a nome della foresta. Essi in realtà parlano in nome della loro visione di foresta, ma non parlano per la foresta che noi vogliamo conservare]63. Noi, i conservazionisti superuomini onniscenti e previdenti dobboamo decidere cosa e come conservare. Una dichiarazione che rappresenta la quintessenza dell'ideologia conservazionista che maschera visioni e interessi di precisi attori sociali per “necessità ecologiche scientificamente incontestabili”. Il “parlare a nome della foresta” è infatti legittimato nel contesto del paradigma dominante razionalista-positivista che consente all'esperto, al sacerdote della scienza, di vaticinare ciò che è giusto e meglio fare come se fosse la natura stessa a parlare. Un'illusione più sofisticata (messa bene in luce da Bruno Latour64) ma in realtà non molto dissimile da quella degli antichi aruspici e indovini. Si tratta di avere le chiavi per far parlare la natura. Ma solo gli iniziati le possiedono.  Le varie categorie di sacerdoti, in realtà vaticinano quello che desiderano e che corrisponde ai loro interessi e a quelli dei gruppi sociali e di potere con i quali si identificano. Ovviamente la loro forza consiste in un gioco delle ombre da caverna platonica per nascondere questa prosaica realtà.

Fortunatamente per i conservazionisti la foresta non può parlare direttamente e smentirli.  Parlano però i tanti insuccessi in termini di tutela della biodiversità delle politiche di parco-fortezza, di natura sotto la campana di vetro, di irrisolti conflitti con le popolazioni dentro e ai limiti delle aree protette, di arroganza con la quale si liquidano le conoscenze e le pratiche millenarie di popoli che sono stati capaci di vivere in sintonia, rispetto ed equilibrio con il loro habitat naturale.

Le "aree protette" rappresentano un core business per le grandi ONG conservazioniste ma anche il terreno della collaborazione tra capitalismo e conservazionismo e si capisce bene perché reagiscano con durezza agli attacchi, specie a quelli più insidiosi. Le aree protette rappresentano già 20 milioni di kmq, il 15% della superficie terrestre65. L'obiettivo cui tendono le organizzazioni conservazioniste per il 2020 è quello del 17% di aree protette terrestri. Quello a lungo termine non è dichiarato espressamente anche se alcuni scienziati conservazionisti si spingono ad auspicare che il 50%, la metà, della superficie terrestre sia gestito come "area protetta"66 . La superficie delle aree protette continua in effetti ad aumentare67dall' 11.5% al 12,9%  tra il 2003 e il 2005,  dal 14,8 al 15% tra il 2016 e il 2017. Nel mentre diminuiscono le foreste (dal 31,6 al 30,6% tra il 1990 e il 2015) e le terre agricole (dal 38,1 a 37,2% tra il 2000 e il 2015) e aumentano le terre abbandonate e in via di spopolamento a causa dell'esodo rurale che porterà il 70% delle popolazione mondiale ad abitare in grandi città entro il 205068. C'è un disegno preciso del capitalismo globale per ripartire il pianeta tra formicai umani e aree protette disabitate entrambe saldamente controllate? Forse, però, anche se non ci fosse, pare che la direzione di marcia sia quella. E bisogna fermarla fin che si è in tempo.

Disegno consapevole o portato della logica del tardo capitalismo, la tendenza alla polarizzazione tra aree protette e aree super abitate e super coltivate porterà come risultato la rinaturalizzazione di molte superfici  abbandonate o in vario modo disturbate69. L'ambientalismo vede in queste prospettive degli sviluppi positivi fingendo di non considerare e o sottovalutando diversi aspetti problematici: innanzitutto lo sviluppo di megalopoli determina enormi fabbisogni di acqua pulita, cibo ed energia che devono essere trasportati su lunghe distanze. Costretta in aree sempre più ristrette e artificializzate l'umanità, secondo gli auspici dei conservazionisti – che non hanno mai rinnegato le idee malthusiane -  raggiunto il picco di 9 o 10 miliardi di esseri umani, comincerà a declinare e a ridurre il suo “disturbo”. Ma l'espulsione dell'uomo da una larga parte delle superfici del pianeta già sottoposte ad influssi antropici sarà la panacea che i conservazionisti auspicano? C'è da credere alla rigenerazione della natura lasciata a sé stressa o si tratta di misticismo pericoloso? Negli ecosistemi fragili (scarsa piovosità) dove il suolo subisce compattamento, è soggetto ad erosione la rinaturalizzazione delle aree abbandonate o soggette a pesanti disturbi può richiedere secoli o persino millenni. In funzione delle variabili considerate la stessa tipica foresta pluviale impiega 20-200 anni per ricostituirsi70. Tempi lunghissimi invece, si riscontrano in aree aride e desertiche71.

Tra i fattori che rendono imprevedibile i tempi e le possibilità di recupero di terreni abbandonati e degradati vi è il peso crescente dell'influenza delle piante invasive rende (la rimozione di alcune invasive apre la strada ad altre invasive  nel contesto di un impossibile equilibrio72 . In generale anche l'ecologia è soggetta a quelle incertezze probabilistiche, a quelle realtà di equilibri instabili che caratterizza la realtà fisica.
Solo una narrazione ideologica, il mito del “ritorno alla natura incontaminata”, può far credere che nel movimento planetario di organismi, accelerato dalla nascita dell'uomo e poi dalla modernità, una fetta di superficie terrestre possa tornare quella che era dopo l'ultima glaciazione. Ma chi garantisce che sottrarre grandi estensioni di superficie terrestre alle attività umane migliori la salute degli ecosistemi terrestri? Molti indicatori fanno ritenere che vi sarebbero peggioramenti.

La concentrazione delle attività produttive in aree ad alta “vocazione” (sulla base di parametri economici e non ecologici, attenzione) può portare a disastri ambientali. Le acque costiere del Golfo del Messico a causa dell'eutrofizzazione legata ai reflui zootecnici stanno letteralmente morendo. Comprimere ulteriormente l'attività di contadini e pastori amplia il world food system capitalistico, controllato dalle multinazionali (tra le quali alcune che sponsorizzano le Ong conservazioniste) ma toglie di mezzo quei sistemi colturali e di allevamento che non utilizzano concimi chimici e pesticidi, che riciclano ancora oggi in modo efficace energia e materia grazie a cicli ecoeconomici circolari.

La perdita di terre dei popoli indigeni e delle comunità rurali contadine non colpisce, anzi favorisce le attività industriali: l'agricoltura industriale, l'attività forestale industriale, l'estrazione mineraria industriale. La riduzione ulteriore dello spazio dell'economia di sussistenza crea nuovi spazi al mercato delle commodities alimentari e di altro genere e rende localmente disponibili nuova mano d'opera a basso costo. La riduzione degli spazi dell'economia contadina "mista" (in parte orientata al mercato) riduce ancora di più la limitata concorrenza delle produzioni artigianali al monopolio delle multinazionali. Per di più le "aree protette", dopo che sono stati cacciate le popolazioni che le utilizzavano da millenni, oltre ad essere utilizzate per l'ecoturismo e il bioprospecting sono spesso concesse in uso a grandi società minerarie e di commercio del legname come testimoniano le vicende africane. Difficile non vedere nella tendenza a stringere nella morsa tra "aree protette" da una parte, aree urbane e ad agricoltura industriale dall'altra, una tendenza di fondo del capitalismo, incoraggiata, agevolata, benedetta dal conservazionismo.


Solo una fede cieca nella religione conservazionista e una colossale ingenuità possono far ignorare che il controllo sulle aree protette da parte delle ONG equivale a una forma di privatizzazione. in linea con il neoliberalismo aggressivo. Va infatti ribadito che, specie in Africa, il controllo governativo della gestione delle aree protette e la proprietà governativa delle stesse sono solo delle maschere che nascondono l'incapacità di governi, la mancanza di capacità organizzative e di funzionari competenti, la corruzione. In questo contesto essi delegano alle ONG la loro sovranità. Questi aspetti della governance politica contemporanea dell'Africa post (?) coloniale sono stei messi in evidenza da Mbebe 73

A parte l'uso spesso discutibile delle aree protette, fosse anche solo per le presenze turistiche (i fuoristrada e la presenza dei turisti non disturbano la fauna?) si dovrebbe anche valutare quali siano stati i successi delle organizzazioni conservazionistiche che ne hanno voluto l'istituzione e che spesso gestiscono direttamente o indirettamente le aree stesse. L'aumento delle aree protette ha contribuito efficacemente o no alla salvaguardia di specie in via di estinzione e alla difesa globale della biodiversità? Se si guarda ad alcuni dati oggettivi si direbbe di no. Venter et al. 74  hanno stabilito che il 17% delle 4.118 specie di vertebrati a rischio di estinzione non è presente in alcun parco e che l'85% di queste specie non è comunque adeguatamente coperto nell'insieme delle aree protette. Risultati simili erano stati ottenuti  da uno studio internazionale che arrivava alla conclusione che il 12% delle specie non sono presenti nelle aree protette e che il 25% non sono presenti in nessun area di superficie maggiore di 1000 ha o nelle categorie da I a IV dell'IUNC, ovvero quelle che assicurano maggior protezione 75. La scarsa dimensione delle riserve protette e il disturbo turistico impattano in modo importante sulle presenze di specie di mammiferi 76.

Tabella - Classificazione delle aree protette secondo la IUCN

ategoria IUCN Denominazione Caratteristiche
Categoria Ia Riserva naturale integrale Area protetta finalizzata alla ricerca scientifica e al monitoraggio ambientale.
Categoria Ib Area selvaggia Area protetta finalizzata alla protezione della selvaticità delle specie animali e vegetali. Vasta area di terra o di mare che mantiene le proprie caratteristiche naturali, senza insediamenti umani permanenti o significativi, che è protetta e amministrata in modo da preservare la sua condizione naturale.
Categoria II Parco nazionale Area protetta finalizzata alla protezione di un ecosistema con possibilità di fruizione a scopo ricreativo
Categoria III Monumento naturale Area protetta finalizzata alla conservazione di specifici elementi naturali giudicati di particolare valore per la loro rarità, rappresentatività o per particolari qualità estetiche o significati culturali.
Categoria IV Area di conservazione di Habitat/Specie Area protetta oggetto di intervento attivo a fini gestionali, in modo da garantire il mantenimento degli habitat e/o per soddisfare i requisiti di specie specifiche.
Categoria V Paesaggio terrestre/marino protetto Area protetta finalizzata alla protezione e fruizione di aree, marine o terrestri, nelle quali le interazioni tra popolazioni e natura hanno dato vita, nel tempo, a elementi di particolare valore estetico, ecologico e/o culturale.
Categoria VI Area protetta per la gestione sostenibile delle risorse Area protetta finalizzata all'uso sostenibile degli ecosistemi naturali in cui la conservazione della biodiverità si coniuga con la produzione di prodotti naturali in grado di soddisfare le esigenze delle popolazioni locali.

Perché le aree protette non sono così efficaci? La causa è riconducibile alle motivazioni, prevalentemente politiche, che portano alla creazione dei parchi , cresciuti al di fuori di  un disegno strategico. Molta superficie terrestre è controllata dalle lobby conservazioniste che gestiscono molte risorse per finalità diverse dalla tutela della biodiversità (autopromozione, educazione, turismo). Così c'è una evidente proporzione tra la grande estensione di aree protette in Europa e zone temperate e altre regioni ecologiche più ricche di biodiversità . Vi è però un aspetto ancora pèiù importate, più strutturale: i parchi sono stati concepiti come fortezze, avolte fisicamente recintati.

Un grande studio collettivo sulla salute delle aree protette mondiali, apparso nel 2012 sulla prestigiosa rivista Nature 77 metteva in evidenza come in metà delle aree protette tropicali esaminate si registrasse una grave perdita di biodiversità. Il fattore principale del deterioramento delle aree protette, peraltro esposte ai fattori climatici planetari, risultava rappresentato dalla qualità della copertura vegetale al di fuori del perimetro dei parchi. La conclusione degli autori  era che: Crucially, environmental changes immediately outside reserves seemed nearly as important as those inside in determining their ecological fate, with changes inside reserves strongly mirroring those occurring around them. These findings suggest that tropical protected areas are often intimately linked ecologically to their surrounding habitats, and that a failure to stem broad-scale loss and degradation of such habitats could sharply increase the likelihood of serious biodiversity declines. [ Il fatto fondamentale è che i cambiamenti ambientali, immediatamente al di fuori delle riserve, risultano quasi altrettanto importanti di quelli all'interno nel determinare il loro destino ecologico; esso rispecchia da vicino le trasformazioni che si verificano nelle aree circostanti. Questi risultati suggeriscono che le aree tropicali protette sono spesso intimamente collegate ecologicamente agli habitat circostanti, e che il fallimento nell'arginare la perdita e il degrado su larga scala di tali habitat potrebbe aumentare drasticamente la probabilità di una grave diminuzione della biodiversità].

Che senso hanno allora i "parchi fortezza"? Non è più saggio operare in sintonia con le popolazioni dentro e fguori i perimetri dei parchi? Quando una Ong conservazionista saluta come una vittoria il ritaglio di un'area protetta circondata da piantagioni o aree di intenso sfruttamento delle risorse forestali, perpetua un conservazionismo ipocrita che nasconde dietro il costante aumento quantitativo delle superfici protette, la collusione con il capitalismo predatorio.


Baraccopoli di "profughi della tigre"  abitanti del villaggio di Kathbagai trasferiti a casa della creazione di una nuova riserva integrale pert la protezione della tigre nell'ambito di un parco

Se si guarda a una delle singole specie maggiormente oggetto di protezione, la tigre, si constata che, in India, dal 2006, al 2010 le tigri - grazie ad aggressive politiche conservazioniste - sono aumentate da 1.411 a 1706 esemplari, per salire ulteriormente a 2.226 nel 2014.  Per ottenere questo sono state istituiti 50 tra parchi e riserve  con costi sociali pesantissimi (espulsioni di milioni di persone).   L'efficacia, tenendo conto anche delle ingenti risorse finanziarie mobilitatr, appare bassissima.  Oltre a chiedersi quali risultati sono stati ottenuti è doveroso chiedersi anche a che prezzo. Quale quota delle risorse mobilitate dalle grandi organizzazioni conservazioniste globali sono state effettivamente destinate alla tutela della biodiversità e quante a finanziare le campagne propagandistiche, le attività lobbystiche e l'apparato?

Quando la difesa della natura implica la deportazione, l'esproprio, lo sradicamento culturale, la marginalizzazione sociale

Ancora più importante dell'efficacia (tutt'altro che certa e dimostrata) delle aree protette è la valutazione dei costi sociali e culturali del conservazionismo. Le aree protette continuano ad espandersi ma la gran parte delle superfici interessate sono abitate78. Spesso da popolazioni “invisibili” ovvero sparse di cacciatori-raccoglitori o nomadi vittime di deportazione e violenza senza che nessuno se ne accorga. Per le Ong conservazioniste  queste popolazioni, non avendo insediamenti permanenti non esistono, quindi, quando sono scacciate, o non si consente più loro di utilizzare foreste e pascoli, non si deve contabilizzare alcun esproprio (la proprietà della terra non agricola è governativa), alcun trasferimento forzato, alcuna perdita di accesso alle risorse79. I territori dai quali vengono cacciati questi gruppi umani erano però la loro casa, la loro base di sussistenza. La stessa IUCN è arrivata alla conclusione che policies which ignore the presence of people within national parks are doomed to failure [strategie che ignorano la presenza della popolazione nei parchi sono destinate al fallimento]80. Quante belle parole. Valgono meno della carta sulla quale sono scritte. Queste belle parole si sono risentite in effetti ancora al congresso del 2016 a Honolulu. Ma nella grande fiera del conservazionismo (10 mila partecipanti), con 120 risoluzioni sui temi più disparati, le prese di posizione a favore dei popoli indigeni hanno rappresentato solo una "sfumatura", una "sensibilità particolare", che non preoccupa certo le BINGO, pronte, sulla carta, ad aderire a ogni dichiarazione buonista.

L'ideologia conservazionista della wilderness, che cerca di far apparire “spopolate” terre che ospitano comunità umane portatrici di una preziosa diversità culturale, non è solo una pretesa furba per evitare “noie” con gli indigeni, per evitare di trattare con loro e dover pagare indennizzi. Bockington osserva che cancellare la memoria dell'antico insediamento di una popolazione in un'area dichiarata protetta è parte e premessa del meccanismo di spoliazione e di perdita di capacità di incidere sul proprio futuro di una comunità (disempowerment) e precisa: Celebrating and proclaiming former homelands as wilderness denies people’s place in these landscape. It thereby reduces the political space available to them as they attempt to reclaim lost lands. [celebrare e proclamare che quella che era la sede ancestrale di un popolo è in realtà wilderness riduce le possibilità di azione politica e mette in condizione il popolo stesso di reclamare con più difficoltà la propria terra]81.

Presentare un'area ma sottoporre a protezione come a un'area di wilderness risponde quindi a finalità di ordine ideologico, politico e pratico. Indubbiamente fa comodo ai conservazionisti lasciar credere che nei progettati parchi non vi sia nessuna o quasi presenza umana ma ovviamente rappresenta un elemento di continuità e di autorafforzamento dell'ideologia. Non importa se, come è facile constatare anche nella sociologia quotidiana il concetto di territorio incontaminato, non addomesticato rappresenta una percezione urbana, il punto di vista di persone che sono state staccate profondamente dall'ambiente naturale dal quale dipendono 82 . In realtà quasi tutta la superficie terrestre è stata abitata e modificata dall'uomo e anche alte densità di popolazione possono essere compatibili con la vita selvatica. Di più si osserva anche che nei più vari ambienti ecologici si riscontra una forma di gestione da parte delle popolazioni83. In realtà è più facile che un territorio sia oggetto di degrado quando è esclusa la popolazione rispetto a quando essa è presente. Ovviamente, come osservano Pimber e Pretti: This reasoning represents a complete reversal for conservation policy. It suggests that the mythical pristine environment exists only in our imagination. [Questo modo di pensare costituisce un ribaltamento della strategia conservazionista. Esso ci indica che il mitico ambiente primordiale esiste solo nella nostra immaginazione] 84

Non si deve pensare, però, che il fenomeno dei profughi del conservazionismo riguardi solo territori a bassa densità di popolazione. Esso si riscontra in ogni continente, in condizioni di popolamento molto diverse. Per nascondere la realtà dei trasferimenti forzati dove è ben difficile farlo e sono in gioco decine o centinaia di migliaia di persone e non poche migliaia, gli stati e le Ong giocano sulle sfumature semantiche. Chiamano i trasferimenti forzati in altro modo, li nascondono con giochi di prestigio, loro e i loro compiacenti scienziati.

La Banca Mondiale85ha però fornito una definizione dei trasferimenti forzati (chiamiamoli così se  “deportazione” da fastidio) che tende a comprendere anche la fattispecie dell'allontanamento “spontaneo” dalle sedi ancestrali a seguito della proibizione di utilizzare le risorse del territorio secondo le modalità tradizionali:

  • trasferimento o perdita di abitazione;
  • perdita di risorse o di accesso alle risorse86;
  • perdita di opportunità di reddito o di mezzi di sussistenza  anche quando i soggetti interessati non sono costretti a spostarsi in nuovi insediamenti ma subiscono l'impatto negativo del divieto legale di accesso alle aree protette in termini di procacciamento di mezzi di sussistenza.

Come si vede la definizione della Banca mondiale non lascia spazio all'ipocrisia conservazionistica. Dal punto di vista della volontarietà o meno del trasferimento Antoine Lasgorceix e Ashish Kothari, che hanno studiato la realtà dei trasferimenti indotti dalla realizzazione delle aree protette in India87, distinguono tra:

  • Trasferimento volontario: quando le comunità o le famiglie interessate da sole, e indipendentemente da situazioni create dall'area, protetta chiedono il trasferimento;
  • Trasferimento forzato: quando avviene nonostante l'opposizione o la riluttanza delle comunità o delle famiglie interessate;
  • Trasferimento indotto: quando la ricollocazione è voluta dalle comunità o dalle famiglie interessate a causa delle circostanze create dall'area protetta (da sola o in combinazione con altri fattori). Queste circostanze potrebbero includere forti pressioni e vessazioni da parte di funzionari, impedimenti all'accesso a di risorse naturali essenziali per il sostentamento, negazione delle opportunità minime di sviluppo .

In ogni caso molti trasferimenti sono realizzati manu militari o ad opera delle forze governative (il cui unico ruolo spesso è quello sporco della repressione) o dai guardiaparco (vere milizie armate). Nel corridoio faunistico di Kibale in Uganda, nel 1992, 35 mila persone furono scacciate con la violenza, furono bruciati dei villaggi e persone che facevano resistenza vennero uccise88. L'uso della violenza, in nome delle aree protette, della fauna, della biodiversità, come vedremo oltre, non è limitato al passato. Continia anche oggi.  Il nuovo colonialismo, quando serve, sa ricorrere ai metodi sporchi del vecchio colonialismo. Bisogna anche insistere sul fatto che, nella maggior parte dei casi, le vittime dei trasferimenti forzati non ricevono né assistenza, né indennizzi. Dopo la crisi finanziaria mondiale del 2008, le Ong, che pure hanno continuato a disporre di ridotte ma pur sontuose entrate, hanno cercato di risparmiare ancora di più, se possibile, sui costi della realizzazione della nuove aree protette. Esse, come visto, sono continuate ad aumentare a ritmo impressionante anche dopo la crisi. Chi paga lo scotto? Le popolazioni indigene. Nonostante le raccomandazioni della Banca mondiale che accetta di supportare progetti che implicano trasferimenti di comunità solo se vi sono garanzie che:

  • le persone coinvolte siano informate circa le possibilità di scelta che vengono loro offerte e i loro diritti;

  • vengano consultate, gli si offrano delle alternative che risultino praticabili dal punto di vista tecnico ed economico;

  • vengano fornite rapide e adeguati indennizzi per i danni subiti a causa del progetto89.

Questi requisiti non sono difficili da assolvere quando si fa finta che intere aree siano “spopolate” e si prendono in considerazione solo una parte delle popolazioni coinvolte, quella più stanziale, con più voce in capitolo, capace di rapportarsi alle autorità e alle Ong, ben disposte ad accontentare i rappresentanti degli interessi locali più forti.


La maggiore incidenza di trtasferimenti forzati  si registra in Africa. Qui sono stati eseguite alcune stime della dimensione del fenomeno90. Secondo queste stime, effettuate da Geisler e De Sousa all'inizio del nuovo secolo, che si basano sulla normale densità demografica delle varie aree ecologiche interessate alla presenza di aree protette, sono stati scacciati dalle aree protette (solo quelle di classe I-III Iucn) dai 900 mila ai 14,4 milioni di persone.

Michael Cernea , limitatamente ai sei paesi del bacino del Congo, stima che la maggior parte dei trasferimenti forzati siano avvenuti nel nuovo secolo, in coincidenza con un aumento esponenziale delle aree protette e nonostante le “linee guida” del 1997 del WWF e dell'IUCN che avrebbero dovuto mettere fine al fenomeno91.

Vale la pena osservare che su 12 parchi esaminati da Cernea, tutti teatro di trasferimenti forzati, ben 7 sono stati promossi dal WWF che reca pertanto una responsabilità primaria nella perdurante politica di violazione dei diritti umani e collettivi. Gli studi disponibili per alcuni dei parchi considerati (gli autori citano 13 lavori che riferivano dell'entità delle espulsioni) dimostrano la credibilità delle stime che individuano nell'ordine dei milioni i rifugiati africani. Il solo parco Kruger del Sud Africa ha provocato 250 mila rifugiati92.

Molte difficoltà di stima e le discrepanze nella letteratura sul tema derivano dalla già notata ambiguità semantica di categorie come trasferimenti non volontari, reinsediamenti ecc. In Africa dove, spesso, i governi sono dittatoriali ed espressione di alcune componenti etniche specifiche, la politica dei parchi si è confusa con la pulizia etnica di etnie lontane dal potere e perseguitate. La difficoltà di calcolare i rifugiati a causa delle aree protette dipende anche dal fatto che spesso le popolazioni non sono fisicamente trasferite presso altre sedi ma private dell'accesso alle aree protette da cui traevano mezzi di sussistenza, sono costrette a un esodo “spontaneo” che, in realtà è forzato anche se consente ai conservazionisti di evitare di contabilizzare come loro vittime gli interessati.

Le fonti ufficiali sul fenomeno dei rifugiati a causa della conservazione sono scarsissime, gli stati che forniscono dei dati rappresentano l'eccezione. Il Chad negli anni '90 è passato da una percentuale di territorio protetto dello 0,1% a una del 9,1%. Ciò ha comportato l'espulsione di 600 mila persone93. In India il governo ammetteva nel 2001 l'esistenza di 1,6 milioni di rifugiati dalle aree protette e prevedeva che la creazione di nuove aree avrebbe comportato il trasferimento di altri 2-3 milioni di persone94.

Non pochi autori hanno sottolineato la scarsa sostenibilità di queste politiche alla luce di criteri di giustizia ambientale. Se le popolazioni povere, senza potere e rappresentanza politica sopportano gli impatti negativi chi ci guadagna? La risposta del conservazionista è: l'ambiente e quindi le “future generazioni”, ma se si abbandona per un attimo l'ideologia e si scende sul terreno della vita reale ci si accorge che la distribuzione sociale di vantaggi e svantaggi è fortemente iniqua: le aree protette sono fruite da ricchi bianchi europei e americani sotto le categorie, non sempre perfettamente distinguibile, di ricercatori, funzionari delle Ong, turisti. I conservazionisti hanno buon gioco a confondere il loro interesse (dopo tutto le principali Ong sono delle vere e proprie multinazionali) con quello del fantomatico “ambiente” e delle stesse “generazioni future” che non hanno possibilità di parlare e di smentire chi parla in loro nome.

Per l'elite privilegiata del mondo del conservazionismo (scientifico o imprenditoriale) vi sono entusiasmanti esperienze di “vita nella natura”, unici occupanti di spazi di centinaia di kmq. It is rare o find an African scholar in the research groups, and it is unknown for inhabitants of nearby villages to wander around in the national park to enjoy its ‘aesthetic and recreational values’. [È raro trovare uno studioso africano nei gruppi di ricerca, e non vi sono abitanti dei villaggi vicini che vagano nel parco nazionale per godere dei suoi valori estetici e ricreativi ] 95 ha osservato Kai Schmidt Soltau, il sociologo svizzero autore di alcuni tra i migliori studi sul tema degli impatti sociali del conservazionismo.


Andamento delle popolazioni trasferite senza la loro volontà a causa dell'aumento delle aree protette nei sei paesi del bacino del fiume Congo. M.M.Cernea e K-Schmidt Soltau, "Les parcs nationaux et les risques d’appauvrissement: La relocation forcée des populations est-elle la solution?"

Per chi è scacciato dalla propria terra è difficile apprezzare la propaganda conservazionista sul valore della biodiversità nel mentre vede svilupparsi il business turistico the whites and the animals are against us, we have to fight back [ i bianchi e gli animali sono contro di noi e noi dobbiamo contrattaccare] 96 . Se gli animali scacciano le persone è ben comprensibile che queste pratichino la caccia di frodo come ritorsione e forma di resistenza sociale. Nei casi studiati da Kai Schmidt Soltau (8 parchi in Gabon, Cameroon, Congo, Repubblica Centrafricana, Guinea Equatoriale) ha osservato in 5 casi su 8 espulsione senza compensazione dei pigmei (per le autorità non esistono, in quanto non hanno villaggi ma solo campi nella foresta), in 8 casi su 8 espropriazione dei diritti d'uso tradizionali della foresta (compensati in due casi, parzialmente in quattro), in due casi espulsione di villaggi (in uno non compensata , in uno in parte), in un caso reinsediamento assistito di villaggi. Dei 16 tipi di impatto considerato solo in un caso i risultati sono stati coronati sa successo ovvero dalla soddisfazione delle compensazioni offerte alle comunità per l'esproprio del diritto d'uso tradizionale della foresta.

Gli effetti della creazione delle aree protette sulle popolazioni sono stati inquadrati da Michael Cernea97 in otto categorie:

1. Perdita di terra (espropriazione di beni territoriali e perdita di accesso alla terra);

2. Disoccupazione (anche quando il reinsediamento crea alcuni lavori temporanei);

3. Perdita della casa (perdita di costruzioni e di “focolare” quale centro famigliare e spazio culturale);

4. Marginalizzazione (sociale, psicologica);

5. Insicurezza alimentare (malnutrizione ecc.);

6. Aumento della morbilità e della mortalità;

7. Perdita dell'accesso alla proprietà comune (foreste, acqua, terreni incolti, siti culturali);

8. Disgregazione sociale (perdita della capacità di agire e di autostima, interruzione delle istituzioni sociali).



Schmidt Soltau 98 nel suo studio sui parchi dell'Africa centrale prende in considerazione tutti gli impatti negativi catalogati da Cernea. Analizzando la prima voce osserva che la perdita di terra è difficilmente compensata. I cacciatori-raccoglitori non hanno diritto a nessuna compensazione, possono solo essere “reinstallati” in aree esterne (dove la terra è già coltivata e si crea conflitto con gli “ospiti” o in aree ritagliate all'interno dei parchi dove, però, la mancanza di esperienza per la pratica agricola rappresenta un ostacolo e vi è il rischio che gli ex cacciatori si introducano nei parchi a cacciare (di qui i conflitti che vedremo successivamente).

Quanto alle opportunità di occupazione il turismo è marginale quale soluzione in quanto va considerato che non tutti i parchi africani sono attraenti come il Serengheti. Chi non praticava già una forma di agricoltura sedentaria, nelle nuove sedi tende a disboscare molta foresta o si deve dedicare ancora alla caccia, non solo come fonte di sussistenza ma anche come fonte di denaro. Di qui una forte pressione sulle aree protette e su altre zone forestali presso i nuovi insediamenti.

Relativamente alle abitazioni si potrebbe pensare che le capanne siano facilmente ricostruibili. Ma nelle nuove condizioni di attività agricola e sociale, le primitive costruzioni si rivelano inadatte a garantire una vita sana e un minimo confortevole e ad assolvere alle necessità di conservare derrate e attrezzi. In più vi è l'effetto dello sradicamento che provoca profonda frustrazione e risentimento. Il rischio di marginalizzazione sociale è altissimo quando le popolazioni sono trasferite in sedi abitate da altre etnie e diventano una minoranza di stranieri senza diritti. In altri casi i traslocati tendono ad attendersi aiuti dall'esterno e a marginalizzarsi in una sorta di richiesta di assistenzialismo.

Dal punto di vista della sicurezza alimentare il trasferimento determina la difficoltà di continuare ad osservare il regime alimentare tipico dei cacciatori-raccoglitori traslocati dalle loro sedi. L'effetto della instaurazione dell'area protetta si traduce in un aumento degli animali e dei danni all'agricoltura nelle zone cuscinetto al di fuori dei parchi dove sono state trasferite le popolazioni che abitavano nel parco. Ne consegue un peggioramento della capacità di autoproduzione di una dieta adeguata. Gli aiuti dall'esterno, con la loro instabilità in relazione a contingenze politiche e militari, a loro volta sono causa di ulteriori rischi per la sicurezza alimentare creando una forma di dipendenza e disincentivando le iniziative locali.

Un ulteriore rischio è legato alla perdita di trasmissione delle conoscenze tradizionali legate all'ambiente in cui si era formata la cultura del gruppo umano. Questa alienazione dalla propria cultura è aggravata dalla necessità per i giovani di emigrare alla ricerca di lavoro. Sul piano della salute se, da una parte, i nuovi insediamenti possono essere più vicini a strutture sanitarie, dall'altra soffrono di problemi igienici che chi era abituato a vivere in campi temporanei non è abituato a gestire.

Nelle condizioni centro africane la proprietà privata è molto limitata e difficilmente i trasferiti perdono la possibilità di accesso a terre comuni. La disgregazione sociale non appare quale un rischio ma un dato di fatto legato al venir meno del precedente modo di vita. Nel nuovo contesto gli anziani perdono ogni elemento di prestigio a favore dei giovani che cercano di esplorare il nuovo ambiente e che, masticando qualche parola in inglese, si relazionano con il personale dei progetti.

Micheal Cernea e Kai Schmidt Soltau hanno anche prodotto una valutazione quantitativa degli impatti secondo le categorie sopra considerate 99. Essi hanno osservato per gli impatti per i quali era possibile una valutazione economia una perdita di terra dal 70 al 90%, una perdita del valore del legname in piedi delle foreste espropriate di oltre 9 mila € pro capite, una perdita di reddito dalle attività di caccia e raccolta di oltre 7 mila € pro capite annui. Ma gli impatti non quantificabili: marginalizzazione, disgregazione sociale  possono risultare ancora più gravi.

Anche nelle condizioni dell'India il trasferimento di comunità tribali, spesso del tutto isolate, e catapultate nell'economia di mercato, è traumatico e si confermano gli impatti sociali negativi osservati in Africa 100. Comunità già autosufficienti (per cibo, medicine, combustibili) sono costrette a dipendere dal mercato ed esposte a uno spietato sfruttamento. Le comunità che praticavano l'agricoltura si trovano a disposizione nuove terre che, nella maggior parte dei casi sono rappresentate da terreni già forestali degradati, quelle pastorali difficilmente riescono a disporre di pascoli e terreni per la produzione di alimenti per il bestiame in misura tale da evitare di ridimensionare o eliminare il loro capitale bestiame.

Molto spesso la varietà di prodotti forestali alimentari o di prodotti della pesca che era disponibile nelle sedi originali è sostituita da una ridotta varietà di prodotti disponibili per il mercato o l'autosufficienza nelle nuove sedi. Ancora più grave il problema dell'acqua che, nelle nuove sedi, rende problematico l'esercizio dell'orticoltura e dell'agricoltura di pieno campo ma anche il soddisfacimento dei fabbisogni di acqua potabile. Un problema molto serio riguarda le inadeguate compensazioni in termini di terreni disponibili per la coltivazione. Spesso la quantità e la qualità di terra che vengono assegnate alle comunità trasferite è inferiore ma a volte non viene assegnata alcuna terra.

Vi è poi la conflittualità con le popolazioni che già erano insediate nelle zone di trasferimento e, forse più grave di tutti, lo sradicamento culturale che assume aspetti impossibili da comprendere per la mentalità razionalistica e materialistica occidentale. Noi possiamo spostarci ma i nostri dei non sono in grado di farlo lamentano spesso le comunità trasferite. L'impatto con la società moderna con i suoi concetti sconosciuti di stato, banca, denaro, finanza che non è stato facile per le comunità tradizionali di tutto il mondo trascinate in tempi diversi nella modernità (in un processo della durata di una o più generazioni) diventa psicologicamente destabilizzante quando avviene in modo improvviso. A fronte di questi preponderanti impatti negativi si notano in qualche caso dei vantaggi derivati dalla vicinanza ai centri di mercato, alla disponibilità di servizi sanitari, educativi, di trasporto, alla possibilità di accedere programmi di sviluppo e di assistenza. Fattori comunque che non evitano i traumi di una transizione a forme di vita totalmente diverse e che possono semmai risultare positivi una volta che le comunità sono riuscite a trovare nuove opportunità di accesso alle risorse primarie.

Giova a questo punto richiamare qualche caso tratto dall'esperienza di altri paesi. In Nepal nel 1994, 2 mila Tharu sono stati oggetto di un trasferimento forzato per allontanarli dal Royal Chitwan National Park. McLean e Straede101 li hanno studiati tra il 1994 e il1999 con il vantaggio di aver già lavorato sul campo con questa tribù. Ebbero quindi l'occasione unica di osservare le persone trasferite prima, immediatamente dopo e a distanza di qualche anno dal trasferimento. Altro aspetto interessante i Tharu non avevano alcun pregiudizio contro la nuova sistemazione verso la quale coltivavano aspettative ottimistiche. Sono di particolare importanza quindi i risultati che mettono in evidenza una situazione disastrosa: la nuova sede assegnata loro era a tre ore di marcia di distanza dall'acqua , era caratterizzata da terreno agricolo povero e dall'impossibilità di accedere a risorse forestali.

Un esempio di studio di tipo quantitativo che illustra le conseguenze negative delle aree protette sui popoli pastoralisti dell'Africa orientale è offerto da Brockington, uno degli autori più attivi sul tema degli impatti sociali delle aree protette, che ha studiato la riserva faunistica di Mkomazi in Tanzania (al confine con il Kenia)102. Brockington ha utilizzato i dati relativi al mercati locali del bestiame per un periodo di vent'anni. La rimozione dall'area protetta di decine di migliaia di capi ha provocato il collasso di uno dei mercati con conseguenze pesanti sull'economia locale. Ancora più grave la modifica della composizione delle vendite di bestiame che ha visto accentuarsi la vendita di animali di sesso femminile, chiaro indice di crisi dell'economia pastorale. Essa si è riflessa anche nell'aumento della mortalità neonatale dei vitelli che ha superato i livelli osservati altrove in Africa orientale.

Un caso interessante di una realtà in cui l'area protetta è ancora in fase di realizzazione e si pianifica lo spostamento di una comunità è stato studiato in Vietmam da Manuel Boissières e Charles Doumegne103 . Qui la foresta di Khe Tran è stata trasformata in area protetta e esclusa dalle attività cui si dedicava in precedenza la popolazione a seguito del ritrovamento del fagiano di Edward (Lophura edwardsi) una specie che si temeva potesse essere estinta. Il villaggio omonimo della foresta, compreso nella “zona cuscinetto” ha iniziato ad essere oggetto di una pesante trasformazione agricola ancora prima della formalizzazione del parco. Il villaggio si è già in parte (anche in base a una divisione etnica) separato e spostato a valle dove è previsto il nuovo insediamento e gli abitanti incoraggiati a dedicarsi all'agricoltura stanziale che, con l'incoraggiamento del governo e delle Ong si è concentrata sulle piantagioni di albero della gomma, una monocoltura specializzata che espone il villaggio alle fluttuazioni del mercato globale e ha occupato la maggior parte dei terreni migliori escludendo usi promiscui del suolo e innestando forme di conflittualità. Oltre a questi effetti l'interdizione dell'accesso alla foresta ha già determinato un grave impoverimento del patrimonio di conoscenze tradizionali specie con riferimento alle piante medicinali reperibili nella foresta. Ulteriori impatti sociali negativi emersi in questo villaggio riguardano il senso di spoliazione del controllo e dell'uso delle risorse tradizionali della foresta e la frustrazione vissuta in seguito al rigetto da parte delle autorità e dei conservazionisti delle richieste di partecipazione alla gestione dell'area protetta e di un limitato accesso ad essa. In più la percezione di essere trattati da nemici e da intrusi a casa propria nei rapporti con i conservazionisti. In questo caso non una delle big Ong ma la comunque importante Birdlife International.




Il re è nudo (ma riesce a non farlo sapere a nessuno o quasi). I batwa pietra d'inciampo e di scandalo per il WWF

Dopo il 2009 il dibattito sui diritti violati dei popoli indigeni commessi in nome del conservazionismo dai Signori della wilderness, dai Lord delle aree protette, le grandi (e piccole) Ong occidentali è scemato. Il grande pubblico non ne è stato minimamente coinvolto, fuori dalle riviste scientifiche e dalle pubblicazioni delle Ong ben poco è filtrato . Negli Usa, dove il dibattito è stato più accesso il tema è stato trattato dalla sofisticata rivista ecologista Orion da dove è riverberato sui una pagina interna di Repubblica104. Vero che anche in ambito accademico i temi affrontati sono soggetti alla moda del momento ma, in questo caso, c'è dell'altro. Gli studiosi impegnati nel dibattito su posizione critica nei confronti dei big del conservazionismo globale, hanno compreso di scontrarsi contro un muro di gomma.

Il sistema capitalista globale è troppo interessato al ruolo strategico dell'ambientalismo nel garantire i livelli di accumulazione e profitto. Esso è fortemente interessato alle possibilità offerte dalla green economy, per non parlare del mercato delle compensazioni ecologiche, del green washing, delle green label, delle ecoindulgenze e ecoassoluzioni che i sacerdoti della nuova religione possono somministrare alle multinazionali. Oltre a scambiarsi i manager dei consigli di amministrazione e oltre a finanziare in modo massiccio le Ong, il capitalismo globale, attraverso il controllo sempre più centralizzato dei media, assicura al conservazionismo un fire wall impenetrabile che lo difende da ogni accusa. Dalle foreste dell'India e dello Sry Lanka dal Messico alla Sudamerica i popoli della foresta, cacciatori-raccoglitori sono vittime di un genocidio culturale.



In India gli Asivasi105 rappresentano l'elemento aborigeno tutt'ora in forme tribali, “intoccabili” i quanto fuori casta per gli hindu, hanno subito pesanti espulsioni in varie parti dell'India a seguito della realizzazione delle aree protette. Sono Adivasi i milioni di rifugiati a causa del conservazionismo in India. Nel 2006 la politica dei trasferimenti forzati è stata messa al bando ma non per questo le cose sono cambiate. Impossibilitati ad accedere alle risorse della foresta gli Asivasi (che utilizzavano per pascolare il bestiame e raccogliere il miele) sono costretti a lavorare in forme di semi-schiavitù nelle piantagioni. L'obiettivo è delle autorità forestali, allineate al WWF, di costringerli al reinsediamento “volontario”. Presto anche in India grazie alla collusione tra governo e conservazionismo occidentale rimarrà ben poco dei popoli autoctoni delle foreste.

Finirà come in Sry Lanka dove i Wanniya-Laeto erano rimasti l'ultimo popolo indigeno di cacciatori -raccoglitori. Nel 1983 il governo, condizionato dagli "aiuti" da parte delle istituzioni finanziarie mondiali creò il Parco Nazionale. I Wanniya-Laeto, in forza del paradigma conservazionista occidentale della separazione tra uomo e natura divennero non solo degli intrusi nella loro terra ma anche dei criminali, dei "bracconieri"106, la parolina magica che ha consentito dai tempi del vecchio colonialismo e sino ad oggi, ai colonialisti bianchi (protetti dalla fogliolina di fico del conservazionismo) di scacciare e uccidere i popoli autoctoni per "difendere la natura". Tra i cacciatori-raccoglitori vi sono anche popoli che non vivono nelle foreste ma nelle savane. 



Un cacciatore Sun

I Sun (“boscimani”) del Kalahari  sono gli aborigeni dell'Africa meridionale vittime di un genocidio che farà sparire una delle più antiche popolazioni umane del pianeta. Vittime dalla maggioranza etnica Bantù immigrata nell'Africa meridionale quando c'erano già i boeri ma anche del conservazionismo dei bianchi. In Botswana la Riserva faunistica del Kalahari centrale, grande come la Svizzera era territorio dei Sun cacciatori e raccoglitori che da decine di migliaia di anni vivono qui. Vivevano di caccia. La riserva è stata creata nel 1961 al tempo della nascita del WWF, della decolonizzazione e della moltiplicazione dei parchi africani con i quali gli inglesi intendevano mantenere il controllo coloniale. Cacciati a forza dalle loro terre, bruciati i villaggi, sigillati i pozzi, chiuse le scuole, i Sun sono stati costretti ad abitare i campi di reinstallazione forzata che loro chiamano "posti della morte", ciò nonostante la loro deportazione sia stata giudicata illegale dai tribunali. Chi tenta di tornare a cacciare nella riserva (per mangiare e con l'arco) viene spesso ucciso e torturato dai feroci guardia parco107.
Nel 2014 il presidente del Botswana per compiacere i conservazionisti ha vietato la caccia in tutto il paese, tranne che nei ranch privati dove, pagando profumatamente, i ricchi bianchi possono continuare a sparare alla "fauna africana in pericolo".  Oggi, a seguito della crescita delle popolazioni di elefanti (che si registra anche in altri paesi, il Botswana si appresta a riaprire la caccia gli elefanti. Sono le conseguenze squilibrate della politica di chi "gioca a Dio"  con la fauna e gli esseri umani .


Sempre nel 2014 è stata aperta nel mezzo della grande riserva del Kalahari una miniera di diamanti. L'ennesimo caso di preziosi giacimenti che figurerebbero scoperti causalmente dopo l'istituzione delle aree protette e che conferma come, al contrario, il WWF e i suoi simili. nell'istituire le aree protette “pulite dalla presenza umana” sappiano benissimo cosa nascondano le viscere della terra.



Donne Batwa nella foresta impegnate nella raccolta

I batwa costituiscono uno dei casi più vergognosi di espulsione dalle sedi ancestrali “in nome dei gorilla” , ma – fatto interessante - sono stati anche oggetto di un contenzioso tra una delle poche Ong che si batte per i diritti di questi popoli infelici e il colosso globale del conservazionismo, il WWF. La classica tenzone tra Davide e Golia. I batwa erano stati espulsi manu militari nel 1991 dalle proprie sedi dell'Uganda meridionale. Il parco (Ubanda Bindwi Impenetrable National Park) , è stato creato con un finanziamento di 4,3 milioni di dollari della Banca mondiale e gestito formalmente dalla Uganda Wild LifeAutority, di fatto dal WWF .

Per i batwa, popolo di cacciatori-raccoglitori, la foresta era tutto: da essa ricavano cibo e medicinali e in essa praticavano i loro culti. Non praticavano la caccia grossa, tanto meno ai gorilla considerati con grande rispetto. Ma è bastato il sospetto che tra i batwa vi fossero dei “bracconieri” per espellerli. I bracconieri erano in realtà di tribù bantù, la maggioranza etnica di agricoltori stanziali. Un tempo tra pigmei e bantù si praticava lo scambio di prodotti della foresta con quelli della terra, ma in seguito alla espulsione dei pigmei dalle foreste il rapporto tra le due etnie è degenerato e i pigmei, marginalizzati in una condizione di inferiorità in un ambiente che non è il loro, costretti a una condizione di occupanti abusivi di lotti di terra o di braccianti precari pagati in modo irrisorio anche secondo gli standard africani subiscono l'oppressione dei bantù. Senza alcuna possibilità di partecipazione politica108.

Molti sono gli aspetti negativi della nuova, squallida condizione dei Batwa, alleviata solo dalle organizzazioni di assistenza delle chiese cristiane. Tra gli impatti negativi Zaninka109 cita l'impossibilità di raccogliere il bambù per realizzare cesti e la perdita dei diritti di pascolo nell'ambito della riserva, i danni alle coltivazioni arrecati da scimmie, bufali e peccari. L'autore osserva come i bakra sono divenuti dei senza tetto senza opportunità di reddito o possibilità di stabilirsi in qualche luogo. Inoltre, a causa del'impossibilità di raccogliere piante medicinali della foresta vi è stato un aumento di morbilità e di mortalità.

Il prof. Groh, autore di un report per le Nazioni Unite sulle condizioni dei batwa dopo l'espulsione dalle loro terre, intervistato da Wilfried Huismann110 parla senza peli sulla lingua di un popolo allo sbando, minato dall'alcolismo, gli uomini costretti a lavorare per salari da fame per i bantù e le donne a prostituirsi. Evoca un vero e proprio genocidio dal momento che l'80% delle donne sono state violentati, con figli (molto più alti delle madri) che sono dei paria non essendo riconosciuti da nessuna delle due comunità.

L'aspetto rivoltante è che il WWF insiste nel definire diffamazioni tutte queste osservazioni e sostiene che la nuova condizione fornisce l'opportunità per i Batwa di lavorare per i turisti. A parte qualche guida, il “lavoro per i turisti” consiste nella messa in scena di danze tribali in finti villaggi batwa, un vero zoo etnologico, in cui la dignità umana è calpestata. Una storia in piena continuità con quella famosa di Ota Benga, il pigmeo africano, esposto in gabbia come un animale allo zoo del Bronx di New York nel 1906 per dimostrare le teorie razziste alla Madison Grant, il naturalista ed eugenista che contribuì a fondare lo zoo stesso e gettò le basi della gestione conservazionista moderna. Significativamente eugenetica razzista e conservazionismo non erano per Grant, come egli stesso dichiarava, affatto separate111.

I nipotini di Madison Grant, attenti al politically correct, non si possono permettere il lusso di un razzismo dichiarato ma sono sinceramente neo-malthusiani. Hanno scacciato i Batwa dalla loro terra, e ora la utilizzano pe il business dell'ecoturismo per i ricchi bianchi “sulle orme dei gorilla” o “sulle orme dei batwa” usando questa gente umiliata, impoverita, marginalizzati, alienata dalla propria cultura e dalla propria terra come comparse in spregio alla dignità umana. Quanto alla caccia, vietata ai Batwa, (tranne – visto che soffrivano la denutrizione - una ridotta fascia al perimetro del parco) per l'uomo bianco ancora più ricco, che paga decine di migliaia di dollari, c'è anche la possibilità di cacciare gli elefanti “in sovrappiù”.

Sul terreno, in ogni caso, i funzionari del WWF secondo la testimonianza di Groh si comportano come gli esponenti della “razza padrona” che, in perfetta continuità con i vecchi colonialisti inglesi, portano graziosamente, anche quando non richiesti, i frutti del progresso (case di cemento, abiti all'occidentale) 112 mentre gli ingrati vorrebbero... tornare a vivere nella foresta. Non meno razzisti dei bianchi sono però i bantù. Michael Cernea riferisce che , nel corso di una discussione in cui faceva notare l'assenza di compensazioni per i pigmei cacciati dalle loro terre, una funzionario governativo obiettava che ciò non rappresentava affatto un problema dal momento che dei nostri buoi parlanti possiamo fare ciò che ci pare113.



La Fondazione dello zoo del Bronx è la WCS, una delle più grandi Ong conservazioniste.

Le denunce di Huismann sono pressoché cadute nel vuoto, come altre prima. Il WWF è istituzione intoccabile. Il coraggio di sfidarla, sempre relativamente ai batwa, l'ha avuto Stephen Corry, fondatore e direttore di Survival international, la Ong che, insieme a Forest people, si è data la mission di dare voce agli ultimi sulla terra, ai meno rappresentati, ai più disprezzati.



Gruppo di Bakra nella foresta. Rischiano la vita pur di poter tornare nelle loro foreste a cacciare

Nel 2014 WWF aveva risposto con arroganza ai rilievi di Survival rigettando le accuse come generiche e accusando in modo diffamatorio (quando ci si sente impuniti...) Survival di utilizzare le accuse della violazione dei diritti umani per farsi pubblicità (vale la pena andare a leggere ciò che diceva il WW e che si è dovuto rimangiare) 114. Nel 2016 Survival international è riuscita a ottenere che l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che riunisce le economie sviluppate) prendesse in esame le accuse da essa rivolte al WWF, ovvero di violazione delle linee guida115 in materia di espulsione ed esproprio di popoli indigeni. Nel sud-est del Camerun, i cacciatori-raccoglitori Baka sono stati sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali per fare spazio ai parchi nazionali, e rischiano devastazione dei loro campi arresti, pestaggi, torture e morte per mano di squadre anti-bracconaggio sostenute dal WWF secondo la denuncia di Survival international

L'Ocse, nonostante che i governi che ne fanno parte siano sponsor istituzionali del WWF, ha accettato di esaminare i rilievi mossi al WWF in un rapporto di 228 pagine consegnato all'agenzia svizzera dell'Ocse116. Un fatto storico perché in questo modo il WWF, corporation del conservazionismo capitalista, viene assimilata a una corporation come tutte le altre chiamate a rispondere di gravi violazioni di diritti umani e collettivi. Dopo l'accoglimento da parte dell'Ocse della procedura le due Ong sono state invitate a confrontarsi a Berna presso uffici del governo svizzero.

Il WWF, ovviamente seccato per essere trattato come una grande società commerciale, non ha potuto certo sottrarsi al giudizio dell'Ocse che raduna i governi che lo finanziano generosamente ma ha rigettato la responsabilità per gli abusi dichiarando di aver eseguito accertamenti e inoltrato segnalazioni alle autorità . Uno scaricabarile che nasconde la ben nota realtà africana delle debolezza delle autorità statali, spesso solo braccio armato o giuridico delle Ong che hanno il potere reale di iniziativa. Survival ha insistito sul fatto che i Baka non sono mai stati consultati realmente, sostenendo di avere testimonianze sugli abusi e mettendo in evidenza che il caso rappresenta solo la punta di un iceberg.

Dopo due mesi dall'incontro di Berna, nonostante gli sforzi dei mediatori per arrivare ad una composizione del caso, tutto si è bloccato davanti alla richiesta di Survival al WWF di una dichiarazione in cui di affermava che, in futuro, l'accordo con i Bakra circa la modalità di gestione delle loro terre sarebbe stato vincolante per la creazione di nuove aree protette. Del resto questo requisito è previsto nelle stesse linee guida del WWF del 1996, dell'IUCN. Nel frattempo, mentre ancora si tentava un accordo tra le due Ong, Survival provò a verificare l'efficacia del meccanismi con i quali il WWF asseriva di poter raccogliere le segnalazioni di abusi. Vennero sollevati altri casi di abusi da parte di paramilitari a guardia di un un nuovo parco in Congo (Messok Dja), istituito senza neppure informare le popolazioni tribali. Le segnalazioni restarono senza risposta.



Ranger all'opera per distruggere insediamenti abusivi nei parchi

(da parte di chi è stato scacciato dalle proprie terre)


A questo punto è stato acclarato che il WWF non ha alcuna intenzione di ottenere il consenso di coloro ai quali, in collusione con i deboli e corrotti governi locali, ruba le terre. Non ha nessuna intenzione di limitare con una gestione consensuale l'immenso potere di controllo di vasti territori e dei relativi bilanci. Le linee guida adottate dal movimernto conservazionistico  per prevenire la violazione dei diritti dei popoli tribali 117 non valgono la carta su cui sono scritti essendo solo fumo negli occhi da usare nelle pubbliche relazioni. Per di più non ha intenzione di controllare in modo efficace le forze paramilitari da esso finanziate e istruite che, con il pretesto della repressione del “bracconaggio” vessano le comunità alle quali sono state espropriati i territori ancestrali, picchiando e torturando chi cerca solo di sfamare la famiglia mentre, sempre su terre rubate alle popolazioni indigene, le guardie dei parchi (all'occorrenza esse stesse “bracconieri”) proteggono i ricchi bianchi che praticano la caccia grossa.

Cos'è il conservazionismo in questi territori africani? Un dominio di stampo feudale nell'ambito del quale essi si gratificano del ruolo di lord. Possono gloriarsi di poter giocare con la vita di milioni di persone espulse dalle loro terre oltre che con quella degli animali (spesso anch'essi vittime di una gestione riduzionista e presuntuosa quando non “carne da safari”). La legittimazione con la quale pretendono di giustificare il loro comando e controllo, il loro regno, la loro superiore conoscenza conservazionistica scientifica che spesso non vale quanto le conoscenze tradizionali dei popoli che hanno convissuto con le foreste per migliaia di anni. Forte di una autorità morale del tutto immeritata ma sapientemente gestita, il conservazionismo è l'utile strumento del capitalismo predatorio.

Quegli stessi "lavori sporchi" che, se fossero gestiti dalle multinazionali, porterebbero a proteste e mobilitazioni, eseguiti dalle Ong conservazioniste passano sotto silenzio. Così, senza neppure rendere noto agli interessati della loro espulsione o ottenendo, fraudolenti assensi alla svendita dei loro diritti (ai pigmei viene sottratta la terra in cambio di un machete), le Ong  continuano,  ancora oggi, a rubare ai popoli indigeni terre e diritti. In più i parchi vengono utilizzati come forma di compensazione per proseguire nell'opera di trasformazione di foreste in monocolture, per offrire patenti di sostenibilità a filiere dai forti impatti ambientali e sociali, per mettere la coscienza a posto. Grazie all'oppio del popolo del ventunesimo secolo.



1 M.M. Cernea, K. Schmidt-Soltau (2003), Les parcs nationaux et les risques d’appauvrissement: La relocation forcée des populations est-elle la solution?. http://www.schmidt-soltau.de/PDF/France/2003_%20Cernea%20&%20Schmidt-Soltau_WPC.pdf

2 D. Harvey (2005) A Brief History of Neoliberalism, Oxford,  OUP,  p. 119

3 Per es. il farmaco per la cura della prostatite estratto dalla  corteccia di Pygeum africanum.

4 K. McAfee (1999) Selling nature to save it? biodiversity and green developmentalism. «Environment and Planning D: Society and Space» 17(1):133-54.

5 S.L. Hart (1997) Beyond greening: strategies for a sustainable world. Harvard Business Review January-February:66-76.

6 S. Sullivan (2013) Banking Nature? The Spectacular Financialisation of Environmental Conservation, «Antipode», 45 (1): 198–217;  A. Loftus (2015) Financialising Nature? «Geoforum», Issue 60, pp. 172 – 175.

7 R. Coelho, T.Gilbertson, (2014) The Natural Capital Financial Facility: A window into the “green” economy. Counter Balance & Carbon Trade Watch. [http://www.carbontradewatch.org/downloads/publications/a-window-into-the-green-economy.pdf].

8 J.T. Mandel, C.J. Donlan, J. Armstrong (2009) A derivative approach to endangered species conservation.  «Front. Ecol. Environ», 8:44-49.

9 Non può sfuggire come sia proprio l'ideologia conservazionista della "natura incontaminata", della "natura pura" ad aver creato le premesse di questa mercificazione. Sin dalle origini il conservazionismo alla John Muir ha stabilito la completa separazione tra uomo e natura. Per preservare la natura incontaminata l'uomo doveva essere allontanato. Per realizzare i primi parchi americani intervenne quindi l'esercito a scacciare i nativi amerindi che erano vissuti per migliaia di anni in simbiosi con una natura che percepivano amica. Il concetto della natura selvaggia è stato elaborato dai bianchi colonizzatori che si erano trovati a misurarsi con un ambiente immenso ed ostile (quando i nativi facevano ancora paura). La concezione dell'uomo separato dalla natura il conservazionismo l'ha invece mutuata dai primi sviluppi della scienza e del pensiero moderni (Galileo, Bacone, Descartes). La reificazione della natura ha permesso alla scienza di analizzare concettualmente e materialmente la materia, di coglierne le proprietà ai fini dell'uso economico. Trasformata in una pura cosa anche la merce, oggetto della trasformazione della materia naturale da parte dell'uomo, resta un dato separato dalla dimensione umana, ovvero dalle concrete relazioni sociali che ne hanno consentito la produzione e perde anche le sue caratteristiche specifiche di valore d'uso: è il "feticismo della merce di Marx. Attraverso di esso scompaiono le caratteristiche concrete e rimane solo il valore di scambio, assume una qualità universale. Divenuta un deposito universale di valore, caratterizzato da perfetta scambiabilità, misurabile, soggetto a contabilità .     Se da una parte la natura è cosa, manipolabile a piacere da parte del'uomo, quando è qualificata "area protetta" diventa "purificata" è sulle sue caratteristiche ecologiche concrete e specifiche fa premio il suo valore universale di "santuario della natura". Questa concezione di una natura "triviale", abitata dall'uomo e di una natura "pura" ha creato le premeese per la spinta quantitativa all'espansione del sistema mondiale delle aree protette. Più kmq di "aree protette" e più valore di conservazione.   Grazie a questa operazione il fondamentalismo conservazionista, il suo afflato spiritualista, essenzialista (Natura come ascesi) si sono prestati a creare un “mercato della natura” basato sulla scambiabilità . Nelle politiche di compensazione del danno ecologico viene applicato lo scambio tra superfici degradate a seguito di interventi umani (deforestazione, taglio legname, operazioni minerarie) e messa a difesa di equivalenti superfici di “natura incontaminata”.  Grazie al feticismo della natura selvaggia.

10 K. N. Suding (2011) Toward an Era of Restoration in Ecology: Successes, Failures, and Opportunities Ahead, «Annual Review of Ecology, Evolution, and Systematics», 42:465–487.

11 AIPP and IWGIA (2012) Briefing Paper on REDD+, Rights and Indigenous peoples: lessons from REDD+ Initiatives in Asia. Working Paper. Chiang Mai: Asian Indigenous Peoples Pact (AIPP) and International Work Group fro Indigenous Affairs (IWGIA). A. Chhatre, S. Lakhanpal, A.M. Larson, F. Nelson, H. Ojha, H, J. Rao, J (2012). Social Safeguards and Co-benefits in REDD+: A Review of the Adjacent Possible, «Current Opinion in Environmental Sustainability», 4(6): 654–660; S. Chomba,  et al. (2016) Roots of inequity: How the implementation of REDD+ reinforces past injustices, «Land Use Policy», 50: 202-213; M. Pasgaard, C. Lily (2013) Double inequity? The social dimensions of deforestation and forest protection in local communities in Northern Cambodia, «Austrian Journal of South-East Asian Studies», 6 (2): 330-355;  R. Espinoza Llanos, C. Feather, (2011) The reality of REDD+ in Peru: Between Theory and Practice. Indigenous Amazonian Peoples’ Analyses and Alternatives, Forest Peoples Forest Programme.  Available online: http://www.forestpeoples.org/sites/fpp/files/publication/2011/11/reality-redd-peru
-betweentheory-and-practice-website-english-low-res.pdf

12 P. Bond (2012) Emissions Trading, New Enclosures and Eco-Social Contestation, «Antipode» 44 (3): 684–701.

13 cit. da Bond, 2012, op. cit.

14 D. Brockington, R. Duffy, J. Igoe (2008) Nature Unbound. Conservation, Capitalism and the Future of Protected Areas. London, Earthscan; R.P. Neumann (1998) Imposing Wilderness. Struggles over Livelihood and Nature Preservation in Africa. Berkeley, University of California Press.

15 Nel 1905 il senato degli Stati uniti votò l'atto di costituzione di Yosemite per un solo voto di scarto e l'azione del re delle ferrovie Edward H. Harriman fu decisiva per ottenere la risicata maggioranza. J. Brigdland (2006) Of the Past, for the Future: Integrating Archaeology and Conservation, in A. Neville,  J. Bridgland, (eds). Proceedings of the Conservation Theme at the 5th World Archaeological Congress, Washington, DC, 22–26 June 2003. Getty Publications, 2006, p. 25.

16Altrettanto importante per il successo delle caampagne per la creazione dei parchi nazionali fu il sostegno di  Robert Wood Johnson, editore della prestigiosa rivista di New York Century. K.Ross (2006)  John Muir and the Land. Pioneering Conservation in Alaska, Boulder, Colorado University Press of Colorado,  2006, pp. 91–115

17 J. Igoe, K. Neves, D. Brockington (2010) A spectacular eco‐tour around the historic bloc: Theorising the convergence of biodiversity conservation and capitalist expansion,  «Antipode»., 42 (3): 486-512.

18 C. Corson,  K. I. MacDonald,  B. Neimark (2013) Grabbing “green”: markets, environmental governance and the materialization of natural capital, «Human Geography» 6 (1): 1-15.

19 A. Anderson, (1997) Media, Culture and the Environment. London, UCL Press

20 D. Brockington (2008) Powerful environmentalisms: conservation, celebrity and capitalism, «Media, culture & society», 30 (4) : 551-568.

21 L. Sklair (2001)The transnational capitalist class. Vol. 306. Oxford, Blackwell; G.  Holmes (2011) Conservation's Friends in High Places: Neoliberalism, Networks, and the Transnational Conservation Elite. «Global Environmental Politics», 11 (4):1 - 21.

22 È abbastanza evidente come il capitalismo globale spinga le chiese a una fusione sincretistica che, ovviamente, non può che avvenire valorizzado gli aspetti immanenti, ovvero il generico umanitarismo, i l pacifismo e mettendo tra parentesi ogni visione trascendente. Le chiese sono chiamate a diventare una grande Ong mentre la vera grande religione universale deve diventare l'ambientalismo stesso ovvero la sacralizzazione della natura a scapito della perdita di valore del divino ma anche dell'umano.

23 M.Palmer ,V. Finlay (2003) Faith in Conservation New Approaches to Religions and the Environment, The World Bank, Washington, D.C. 2003

24 Igoe et . 2010, op. cit.

25 P. West et. al. (2004) Ecotourism and authenticity: Getting away from it all? «Current Anthropology», 45(4):483-498.

26 D. Brockington, (2013) Celebrity and the environment: Fame, wealth and power in conservation. London, Zed Books Ltd.; MacDonald, Christine. "Green Inc." Guilford, Lyons-Globe Picquot (2008).

27 W. Huismann, Wilfried (2014) Pandaleaks : the dark side of the WWF, Bremen, Nordbook,  pp.137-139.

28 Il WWF ha sfruttato la parziale indipendenza della FVS per bloccare l'uscita del documentario. R. Zeilmaker (2012) World Wide Government fund. A study regarding the effectiveness of  World Wide Fund for Nature (WWF) and it’s Dutch partner WNF https://www.groenerekenkamer.nl/grkfiles/images/World-Wide-Government-Fund-_2_.pdf

29 A Davos, dove si raduna ogni anno il vertice del potere economico mondiale, il direttore generale del WWF, Jim Leape,  un manager dallo stipendio doppio di quello del presidente degli Stati Uniti, ebbe a dire:  We found out that the most significant threats to our 35 priority places were 15 commodities: sugarcane, whitefish, fish meal, shrimp trawling, shrimp farms, paper & pulp, salmon farming, palm oil, tuna fisheries, beef, soy, sawn wood, biofuels, dairy and cotton. We also found out that only 100 companies controlled 25% of the trade of those 15 commodities. The reason 25% of trade is so important is because it results in 40-50% of producers. Producers that will compete to sell into those better markets. By working with those 100 companies we can leverage almost half of global production of those 15 commodities and address those threats [Abbiamo scoperto che le minacce più significative ai nostri 35 siti prioritari sono rappresentate da 15 materie prime: canna da zucchero, merluzzo, farina di pesce, gamberetti pescati, gamberetti allevati, carta e polpa di legno, salmone, olio di palma, tonno pescato, carne di manzo, soia, assi di legno, biocarburanti, latticini e cotone. Abbiamo anche scoperto che 100 aziende controllavano il 25% del commercio di quei 15 prodotti. Il motivo per cui il 25% del commercio è così importante è perché si traduce nel 40-50% dei produttori. Produttori che competeranno per vendere sui migliori mercati. Collaborando con queste 100 società possiamo sfruttare quasi la metà della produzione globale di queste 15 materie prime e affrontare tali minacce http://www.ethicalmarkets.com/why-is-wwf-at-davos/

30 M. Dowie (1996) Losing ground, Cambridge, Massachusetts, Mit Press.

31 Gli animali più presenti nell'immaginario collettivo, dal valore simbolico ed evocativo, metaforico.

32 K. Ellison (2008) Business, as usual, «Frontiers in Ecology and the Environment» 6 (9): 512-512. MacDonald, 2008, op. cit.   

33 R. Zeilmaker, op. cit.

34 P. Jepson, S. Canney  (2003) The state of the wild Asian elephant conservation in 2003, an independent audit for the elephant family, Conservation direct.  https://www.geog.ox.ac.uk/staff/pjepson-stateofaelephants-2003.pdf

35 R. Zeilmaker, op. cit.

36 S. Sullivan, J. Igoe (2010)  Problematizing neoliberal biodiversity conservation: displaced and disobedient knowledges, Current Conservation

37 Ivi.

38 M. M. Cernea,  K. Schmidt-Soltau (2003) National parks and poverty risks: Is population resettlement the solution?, World Parks Congress, Durban, South Africa. Una versione successiva si trova sul Sito di Schmidt-Soltau http://www.schmidt-soltau.de/PDF/France/2003_%20Cernea%20&%20Schmidt-Soltau_WPC.pdf

39 A. Agrawal, Arun, K. Redford (2009) Conservation and displacement: an overview. «Conservation and society» 7 (1): 1.

40 K. Schmidt-Soltau (2009) Is the Displacement of People from Parks only ‘Purported’, or is it Real? «Conservation and Society», 7(1): 46-55.

41 B. Currau et al. (2009). Are central Africaís protected areas displacing hundreds of thousands of rural poor? «Conservation and Society», 7(1): 30-45.

42 Kai. Schmidt-Soltau (2009), op. cit.

43 […] publications like those produced by Schmidt-Soltau infl uence decision-makers at the larger donor agencies and within national governments. When the information on which it is based is poorly gathered and makes false assumptions, it can misinform policies, which can be detrimental for conservationí Maisels, F., T. Sunderland, B. Curran, et al. (2007) Protected areas and human displacement: A conservation perspective, Wildlife Conservation Society Working Paper No. 29 (eds. Kent R. and E. Fearn). New York, USA, WCS

44 La costituzione della Unione internazionale per la protezione della natura (UIPN) risale al 1948. Fu promossa da Julien Huxley che era al tempo direttore dell'Unesco e che fu poi tra gli estensori del Manifesto di Morges che portò alla nascita del WWF. La UIPN nel 1956 mutò la propria ragione sociale in UICN, sostituendo la "protezione", con il termine - reputato "più scientifico" - di conservazione. Va precisato che l'UINC restava ristretta quasi esclusivamente all'ambito accademico. Huxley, personaggio accademico con forti legami politici e governativi, rappresentò il trait de union tra le due ONG. Il WWF si differenziò dall'IUCN in quanto espressione di circoli capitalistici anglo-olandesi legati alle rispettive corone e alle società petrolifere (Shell, BP). L'UINC, per quanto sempre strettamente collegato al WWF, ha nel tempo manifestato, in apparenza, un maggior rispetto per la diversità culturale senza che ai tanti proclami buonisti siano seguite linee di condotta nella gestione delle aree protette diverse da quelle delle organizzazioni maggiori.

45 International Union for the Conservation of Nature and World Wildlife Fund, 1996. “Principles and Guidelines on Indigenous and Traditional Peoples and Protected Area: Joint Policy Statement.”

46 Ivi.

47 M. Chapin (2004) A Challenge to Conservationists, «World Watch» 17 (6): 17–31.

48 S. Pierce et al. (eds) Mainstreaming biodiversity in development: case studies from South Africa, World Bank; Washington, DC: 2002; N. Dudley, S.Stolton (2003)  N. Dudley, S.Stolton (2003) Running pure: the importance of forest protected areas to drinking water, World Bank/WWF Alliance for Forest Conservation and Sustainable Use..

49 Altre dizioni utilizzate per distinguere l'approccio partecipativo sono: “community-based natural resource management,”  “sustainable development and use,” “grassroots conservation,” “devolution of resource rights to local communities,”. La bibliografia è molto abbondante come dimostrano alcuni esempi: J. McNeely (1989) Protected Areas and Human Ecology: How National Parks Can Contribute to Sustaining Societies to the Twenty-first Century, in D. Western e M. Pearl (eds) Conservation for the Twenty-first Century, Oxford, Oxford University Press; D. Western, David, M.Wright (eds.) (1994) Natural Connections: Perspectives in Community-Based Conservation, Washington, D.C Island Press; M. Wells,  K. Brandon (1992) People and Parks: Linking Protected Area Management with Local Communities, The World Bank, Washington, D.C; V. Barzetti, V. (ed.) (1993) Parks and Progress: Protected Areas and Economic Development in Latin America and the Caribbean, International Union for the Conservation of Nature, Washington, D.C. ; F. Berkes. M.K. Berkes, H. Fast  (2007) Collaborative Integrated Management in Canada's North: The Role of Local and Traditional Knowledge and Community-Based Monitoring «Coastal Management» 35, (1):143-162.; F. Berkes, J. Colding, C. Folke (2000) Rediscovery of traditional ecological knowledge as adaptive management « Ecological Applications», 10:1251–1262; F. Berkes (2004) Rethinking Community-Based Conservation «Conservation Biology» 18 (3): 621–630; P. Alpert  (1996) Integrated conservation and development projects «BioScience», 46(11), 845-855; I. Kapoor (2001)Towards Participatory Environmental Management? «Journal of Environmental Management» 63 (3): 269–279; S.R. Kellert, J.N Mehta, S.A. Ebbin , L.L., Lichtenfeld  (2000) Community Natural Resource Management: Promise, Rhetoric, and Reality «Society and Natural Resources». 13:705–715; G. McVicker, B. Todd  (2002) Principles of community based stewardship http://www.seawead.org/images_documents/documents/KCF/principles-of-community-based-stewardship.pdf;
R. M, Pollock, G.S. Whitelaw  (2005) Community-Based Monitoring in Support of Local Sustainability«Local Environment: The International Journal of Justice and Sustainability» 10 (3) : 211-228;  A.Sharpe, C. Conrad (2006) Community based ecological monitoring in novascotia: challenges and opportunities «Environmental Monitoring and Assessment» 113: 395–409; F. Stuart Chapin III et al. (2009) Ecosystem stewardship: sustainability strategies for a rapidly changing planet «Trends in Ecology and Evolution» 25 (4): 241-249. http://www.lter.uaf.edu/pdf/1389_Chapin_Carpenter_2009.pdf; A. E. Weber  (2000) New Vanguard for the Environment: Grass-Roots Ecosystem Management as a New Environmental Movement. «Society & Natural Resources» 13 : 237-259.

50 D.Chatty, M. Cholchester (eds)  Conservation and mobile indigenous peoples : displacement, forced settlement and sustainable development, New York - Oxford, Berghahn books, 2002.

51 J.P. Brosius, (2004) Indigenous peoples and protected areas at the World Parks Congress «Conservation Biology» 18:609–612.

52 T.O. McShane (2003) The Devil in the Detail of Biodiversity Conservation, «Conservation Biology», 17, (1):1–3.

53 Mac Chapin op. cit.

54 M. Dowie (2006) The hidden cost of paradise. Indigenous people are being displaced to create wilderness areas, to the detriment of all, «Stanford Social Innovation Review» Spring2006: 30-38. Vi sono diverse versioni di questo importante contributo che è riuscito a divulgare in ambienti più ampi di quelli degli addetti ai lavori lo scandalo dei rifugiati del conservazionismo. Tra le altre Dowie, Mark. "Conservation refugees." Orion Magazine (2011).

55 D: Brockington, J. Igoe. (2006) Eviction for conservation: a global overview,  «Conservation and society» 4(3): 424.

56 https://cmsdata.iucn.org/downloads/durbanaccorden.pdf

57 A. James, K.J. Gaston, A. ( 2001) Can we afford to conserve biodiversity ? «Bioscience» 51, (1):43-52 A. Balmford et.al. (2002) Economic reasons for conserving wild nature«Science» 297.5583 (2002): 950-953; K.E Wilson M.F. Mcbride, M.Bode, H.P. Possingham , (2006) Prioritzing global conservation efforts. «Nature», 440 (7082):337. 

58 M. Boissière, C. Doumenge (2008) Entre marginalisation et démagogie: quelle place reste-t-il pour les communautés locales dans les aires protégées? «Les Cahiers d’Outre-Mer. Revue de géographie de Bordeaux» 61,244: 459-488.

59 Brandon, Katrina, Kent H. Redford, and Steven E. Sanderson (eds.), 1998, Parks in Peril: People, Politics, and Protected Areas, The Nature Conservancy and Island Press, Washington, D.C. 

60 Ivi.

61 Mac Chapin, 2000, op. cit.

62 Ivi.

63 Dowie, 2006, op.cit.

64 Latour B. (2000) Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Milano, Raffaello Cortina Editore.

65 World Database on Protected Areas. https://protectedplanet.net/c/world-database-on-protected-areas

66 E. Dinerstein  et al. (2017) An ecoregion-based approach to protecting half the terrestrial realm «BioScience» 67:535–545;   E. O.Wilson  (2016) Half earth: our planet’s fight for life, New York, W.W. Norton,.

67 S. Chape et. al. (2008) History, definitions, value and global perspective in S. Chape, M. Spalding, and M. Jenkins, editors. The world’s protected areas — status, values and prospect in the 21st century. University of California Press, Los Angeles, California, USA, pp.1-35; A decade of protected area growth Change in global protected area coverage from 2005 to 2016, UNEP-WCMC Technical Briefing Note November, 2016. https://www.unep-wcmc.org/system/dataset_file_fields/files/000/000/521/original/
A_decade_of_protected_area_growth.pdf?1528210002

68 World Bank https://data.worldbank.org/indicator/AG.LND.AGRI.ZS;   2018 Revision of World Urbanization Prospects produced by the Population Division of the UN Department of Economic and Social Affairs (UN DESA)

69 E.C. Ellis et al. (2013). Used planet: A global history. «Proceedings of the National Academy of Sciences», 110:7978– 7985.

70 R.L. Chazdon  et al. (2007) Rates of change in tree communities of secondary Neotropical forests following major disturbances, «Philos. Trans. R Soc. B Biol. Sci.» 362:273–289; M. V. N. D’Oliveira,  E. C. Alvarado, J.C. J.A. Carvalho (2011) Forest natural regeneration and biomass production after slash and burn in a seasonally dry forest in the Southern Brazilian Amazon, «Forest Ecol. Manag.» 261:1490–1498;  M. Pen˜a-Claros (2003) Changes in forest structure and species composition during secondary forest succession in the Bolivian Amazon, «Biotropica» 35:450–461.

71 R.H.Webb, H.G.Wilshire (1980) Recovery of soils and vegetation in a Mojave Desert ghost town, Nevada, U.S.A. «Journal of Arid Environment» 3:291-303

  72 C.M. D’Antonio, R. Osterta, S. Cordell, S. Yelenik (2017) Interactions Among Invasive Plants: Lessons from Hawai ‘i « Annu. Rev. Ecol. Evol. Syst», 48:521–541.

 73 A. Mbeme (2001), On the postcolony, UCP, Berkeley, California.

74 We discover that 17% of the 4,118 threatened vertebrates are not found in a single protected area and that fully 85% are not adequately covered . O. Venter, et al. (2014) Targeting global protected area expansion for imperiled biodiversity «PLoS Biology» 12.6: e1001891;   A.S.L Rodrigues et al. (2004) Effectiveness of the global protected area network in representing species diversity. «Nature», 428(8):640–643.

75 Rodrigues et al. (2004), op. cit. 

76  M. X. da Silva, et al. (2018) Effectiveness of Protected Areas for biodiversity conservation: Mammal occupancy patterns in the Iguaçu National Park, Brazil, «Journal for Nature Conservation» 41: 51-62.

77 W.F.  Laurance et al. (2012) Averting biodiversity collapse in tropical forest protected areas, «Nature» 489:290–294

78 Studi condotti in India, Sud America, Mongolia e Africa centrale, indicano che vi sono comunità insediate nel 56 -85% delle aree protette. D. Brockington, J. Igoe, K. Schmidt-Soltau (2006) Conservation, human rights and poverty «Conservation Biology», 20 (1):250-252

79 Il governo del Gabon, insieme a WWF e WCS negano con forza che le aree protette del paese siano state realizzate espellendo popolazioni e rigettano le accuse documentate in alcuni studi sul tema . L. Coad et al. (2008) The costs and benefits of forest protected areas for local livelihoods: A review of the current literature. UNEP.

80 J. A. McNeely  (1995) Indigenous People and National Parks in South America, in S. Amend and T. Amend (eds) National Parks without People? The South American Experience,  Gland, Switzerland, IUCN Press, pp. 19–24. Vedi anche . Borrini Fayeraben, A. Kothari, G. Oviedo (2004) Indigenous and local communities and protected areas: Toward equity and enhanced conservation, IUNC-World commission on Protected Areas; Commission on Environmental, Economics and Social Policy.

81 D. Brockington, J.  Igoe (2006) Eviction for conservation: a global overview «Conservation and society» 4 (3): 424.

82  A. Gómez-Pompa, A. Kaus (1992) Taming the wilderness myth «Bioscience» 42(4):271-279.

83  Nabhan, G.P., A.M. Rea, K.L. Reichhardt, E. Mellinck and C.F. Hutchinson (1982) “Papago influences on habitat and biotic diversity: Quitovac oasis ethnoecology”, Journal of Ethnobiology, 2:124-143; Scoones, I., M. Melnyk and J.N. Pretty (1992) The Hidden Harvest: Wild Foods and Agricultural Systems, an annotated bibliography, IIED, London with WWF, Gland and SIDA, Stockholm; Gómez-Pompa A. and A. Kaus (1992) cit.

84  M.P. Pimbert, J. N. Pretty (1997) Parks, people and professionals: putting ‘participation’into protected area management «Social change and conservation» 16: 297-330.

85 World Bank (2002). World Bank Operational Manual, OP4.12. World Bank, Washington DC

86 Vedi anche M.M. Cernea (2005)  Restriction of access is displacement: a broader concept and policy « Forced Migration Review» 23 (2005): 48-49.

87  A. Lasgorceix, A. Kothari (2009) Displacement and relocation of protected areas: a synthesis and analysis of case studies « Economic and political weekly» : 37-47.

88 M. M. Cernea, (1997) African Involuntary Population Resettlement in a Global Context. Environment Department Papers, Social Assessment Series no 45. Washington, DC: The World Bank.

89 World Bank 2002, op. cit.

90 C. Geisler, R. De Sousa (2001) From refuge to refugee. The african case «Public Admin. Dev», 21:159-170.

 91 International Union for the Conservation of Nature (IUCN) and World Wildlife Fund (WWF), 1996. “Principles and Guidelines on Indigenous and Traditional Peoples and Protected Area", Joint Policy Statement.

92 Cernea, Michael M., and Kai Schmidt-Soltau. "Les parcs nationaux et les risques d’appauvrissement: La relocation forcée des populations est-elle la solution?." (2003). http://www.schmidt-soltau.de/PDF/France/2003_%20Cernea%20&%20Schmidt-Soltau_WPC.pdf

93 Dowie, 2006, op. cit.

94 Ivi.

95  Kai Schmidt–Soltau (2003)  Conservation–related resettlement in Central Africa: environmental and social risks. «Development and change» 34 )3): 525-551.

96 Affermazione di un rappresentante di villaggi oggetto di trasferimento forzato in Guinea equatoriale, cit. in Kai Schmidt–Soltau (2003), op. cit.  

97 Cernea, M. M. (1997) African Involuntary Population Resettlement in a Global Context. Environment Department Papers, Social Assessment Series no 45. Washington, DC: The World Bank.

98 Schmidt–Soltau (2003), op. cit.

99 M.M. Cernea, K. Schmidt-Soltau (2003), op. cit.

100 Lasgorceix e Kothari, op. cit.

101 J. McLean, S. Straede (2003) Conservation, relocation and the paradigms of park and people management–a case study of Padampur villages and the Royal Chitwan National Park, Nepal. «Society and Natural Resources» 16 (6)  509-526.

102 D. Brockington,  K.M. Homewood (1999) Pastoralism around Mkomazi: The Interaction of Conservation and Development. in: (M. Coe, N. McWilliam, G. Stone,  M. Packer eds.) Mkomazi: The Ecology, Biodiversity and Conservation of a Tanzanian Savanna. Royal Geographical Society (with the Institute of British Geographers), London; D. Brockington (2001) Women's income and livelihood strategies of dispossessed pastoralists. The case of Mkomazi Game Reserve « Human Ecology» 29 (3) :307–338;  D. Brockington (2002) Fortress Conservation. The Preservation of the Mkomazi Game Reserve, Tanzania, Oxford, James Currey,

103 Boissière, Manuel, and Charles Doumenge. "Entre marginalisation et démagogie: quelle place reste-t-il pour les communautés locales dans les aires protégées?." Les Cahiers d’Outre-Mer. Revue de géographie de Bordeaux 61.244 (2008): 459-488.

104 F.Caferri (2007) Le tribù minacciate dagli ecologisti cacciate per far posto ai parchi «La Repubblica» 13 maggio 2007
http://www.repubblica.it/2007/05/sezioni/ambiente/tribu-ecologisti/tribu-ecologisti/tribu-ecologisti.html. 

 105 Huismann, op. cit. pp. 22-27.

106 W. Stegeborn (1996) Sri Lanka’s forests: conservation of nature versus people «Cult. Surv» Q. 20(1):16–24 

 107 John Vidal (1016) The tribes paying the brutal price of conservation «The Guardian», 28 aug 2016
https://www.theguardian.com/global-development/2016/aug/28/exiles-human-cost-of-conservation-indigenous-peoples-eco-tourism

108 N.Mukasa, Norman (2017) The Batwa indigenous people in Uganda and their detachment from forest livehood: Land eviction and social plight  «Deusto Journal of Human Rights» 10: 71-84.

109 P. Zaninka (2001) The impact of (forest) nature conservation on indigenous peoples; the batwa of south-western Uganda: a case study of the Mgahinga and Bwindi Impenetrable Forest Conservation Trust. Forest Peoples Programme (2001): 165-194.

110 Huismann, op. cit. 76-79

111 J.P. Spiro(2009)  Defending the master race : conservation, eugenics, and the legacy of Madison Grant, Burlington, University of Vermont Press, 2009.

112 Huismann, op cit. p. 78

113 M.M. Cernea, K. Schmidt-Soltau (2003), op. cit.

114  https://www.wwf.it/news/?11002/La-pretestuosa-polemica-messa-in-atto-da-Survival

115 OECD Development Assistance Commiree, 1992, Guidelines for aid agencies on involuntary displacement and resettlement in development project. OEC

116 P. Barkham (2017)  Human rights abuses complaint against WWF to be examined by OECD, The Guardians, 31 May 2017 (link)

 117 T. Lee, and J. Middleton (2003) Guidelines for management planning of protected areas. Vol. 10. GlandCambridge: Iucn, 2003.


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