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Politica rurale

Michele Corti, 10 marzo, 2025

Basta parchi

Un'idea superata che resiste per logiche di potere


Introduzione

La creazione dei parchi (con l’obiettivo di conservare la “natura incontaminata”) è frutto della separazione tra “natura” e “cultura”, qualcosa che riguarda esclusivamente la cultura occidentale urbana degli ultimi secoli. Questa concezione ha consentito di ignorare (o di fingere di ignorare) la presenza umana, gli effetti dell’antropizzazione nelle aree naturali e di considerala un disturbo da eliminare per ripristinare la “purezza”. Storicamente i parchi sono parte del fenomeno del colonialismo e hanno mantenuto sino a oggi un carattere autoritario e oppressivo. In barba alle ipocrite dichiarazioni sul rispetto dei diritti, sulla democrazia, sulla partecipazione, la governance dei parchi è basata su un approccio tecnocratico e autoreferenziale, con l’effetto di soggiogare (e/o espellere e marginalizzare) le popolazioni indigene e rurali. Se, su una scala mondiale, i parchi sono un frutto dell’eurocentrismo, sul piano italiano sono frutto dell’urbanocentrismo che trae origine dalla feroce colonialismo del comune cittadino nei confronti del contato nel medioevo. Nati per limitare o annullare i “disturbi antropici”, i parchi rappresentano il volano di un business turistico globale che, puntando su elementi spettacolari e sulla tutela di animali carismatici, contraddice gli obiettivi stessi della conservazione, come dimostra il fatto che la biodiversità diminuisce più rapidamente nella aree protette che nel resto dlele terre emerse del pianeta.

Con Cartesio (che afferma la separazione netta tra spirito e materia, res cogitans e res extensa) e con la nascita del pensiero scientifico moderno, la “natura” venne considerata una realtà a sé. La scienza si pose di fronte alla natura come a qualcosa di separato, di inerte, governato da leggi universali e meccaniche che poteva essere osservato con distacco, dissezionato. Ciò ha dato impulso alla conoscenza scientifica, al dominio, alla trasformazione, senza remore e senza limiti – della natura stessa attraverso la tecnica. L’ambientalismo, che nasce sotto forme para religiose, pur proponendosi di tutelare la natura, si pone all’interno dello stesso dualismo e ne è l’altra faccia della medaglia, un complemento. In realtà, il dualismo tra “natura” e “cultura” è venuto a definirsi compiutamente poco più di un secolo fa, attraverso l’antropologia culturale, che scopre la “cultura” come categoria in opposizione alla natura. Questo dualismo non esiste in nessuna cultura al mondo. Imporlo è già una prepotenza etnocentrica.

Il sociologo e antropologo Bruno Latour (Politiche della Natura. Per una democrazia delle scienze) ha messo in evidenza i pericoli di questo dualismo: nel campo del sociale, le idee dominanti (ovvero quelle delle classi dominanti) vengono imposte senza possibilità di confutazione, presentandole quali “oracoli della natura”, che, gli aruspici moderni debitamente abilitati (gli scienziati) interpretano direttamente avendo accesso alla Natura e alle sue leggi. Quanto era prima imposto in quanto “legge divina” oggi è imposto in quanto “legge di natura”. I fatti sociali vengono quindi “naturalizzati”. La riduzione della natura a elemento inerte ha storicamente facilitato la sua trasformazione in una merce (la terra) da vendere a unità di superficie (Polanyi,La grande trasformazione)  Un altro danno del dualismo natura-cultura occidentale, secondo Latour (Non siamo mai stati moderni), è che esso ha reso possibile, per nulla paradossalmente, pensare e realizzare l’ibridazione tra natura e cultura, tra naturale e artefatto tecnologico aprendo la prospettiva del transumanesimo. Noi riteniamo che un altro pericolo, un altro prodotto avvelenato del dualismo natura-cultura sia rappresentato dall’ambientalismo, che fonde motivi mistici con lo scientismo più volgare in funzione di politiche della natura autoritarie e oppressive mosse da logiche di dominio. Il “parco” è l’elemento oggettivato dell’ideologia ambientalista.


Il parco nazionale come oggettivazione dell’ideologia ambientalista di controllo dall’alto

Secondo la definizione della IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) i parchi nazionali, che rientrano nella categoria II, sono grandi aree naturali o quasi naturali riservate alla protezione di processi ecologici su larga scala, insieme al complemento di specie ed ecosistemi caratteristici dell’area, che forniscono anche una base per opportunità spirituali, scientifiche, educative, la funzione primaria è quella di protezione in sé stessa, ovvero quella della pretesa di mettere un pezzo di “Natura” (arbitrariamente estrapolato dall’insieme delle relazioni che ogni territorio ha con il resto sei sistemi “campana di vetro” che si traduce nell’eliminare o ostacolare le attività antropiche, comprese quelle tradizionali, comprese quelle esercitate da migliaia di anni. Sono possibili, secondo la IUCN le attività “spirituali”, in linea con l’ambientalismo ottocentesco delle origini che intendeva la creazione dei parchi (sottratti ai “selvaggi”) quale missione civilizzatrice dell’uomo bianco istruito che anelava, attraverso il contatto mistico con la natura “purificata” dall’influenza umana, perseguire una forma di ascesi. Per preservare la sacralità dei “santuari della natura” il parco deve essere circoscritto da confini precisamente delimitati che si rifanno alla dimensione sacra e magica del confine, della soglia. Quanto alle attività scientifiche ed educative si tratta di quelle esercitate dalle organizzazioni stesse che aderiscono alla IUCN. Ipocritamente dalla definizione canonica della IUCN resta fuori il turismo che, invece, è diventato un business globale.

In realtà, al di là delle definizioni scientifiche (e di legge) L’idea di un parco nazionale va oltre le preoccupazioni per la protezione della natura fine a se stessa. Comporta anche il controllo sulle persone e sulle risorse naturali che utilizzano, e sui paesaggi che abitano. M. Ramutsindela, National parks and colonialism, The Cambridge Handbook of Environmental Sociology , vol. I, part III, chapt, 13 Published online:5 November 2020. Questo aspetto viene accuratamente celato.

Il concetto di parco nazionale, nato in Usa, dove deportare qualche tribù indigena non rappresentava un grosso problema per le giubbe blu, è stato trasposto pari-pari negli stessi termini in Africa (dove non è difficile schiacciare popolazioni senza alcun sostegno dai corrotti governi locali) e, con maggiore difficoltà, in Asia e, soprattutto, in Europa. Anche in Europa, anche in Italia, l’idea che un parco nazionale debba essere una zona dove la protezione della Natura viene perseguita, in via esclusiva o prevalente resta tutt’ora alla base del “movimento” per la creazione dei parchi stessi anche se, per “indorare la pillola”, esso accetta di mascherare tutto questo con delle concessioni di facciata, come vedremo tra poco.

Il movimento dei parchi nazionali immaginava questi parchi come la natura selvaggia, ovvero aree che non sono state toccate dagli esseri umani e che possono essere utilizzate esclusivamente per la conservazione della natura. I tentativi di ridefinire un parco nazionale per mitigare le conseguenze negative dei parchi nazionali sulle comunità indigene e locali […] non hanno cambiato in modo significativo le opinioni e le percezioni che un parco nazionale è una zona esclusiva per la protezione della natura. (Ivi)

La creazione dei parchi in Europa e, nella fattispecie, in Italia, dove tutto il territorio è stato profondamente influenzato da un’antropizzazione millenaria e capillare, per poter essere attuata senza suscitare resistenze insormontabili, ha dovuto, sulla carta, scendere a dei compromessi.

La legge 394/91  che regola l’istituzione e la gestione delle aree protette, elencando le finalità delle stesse (art. 1, comma 3) , già alla lettera a) inserisce, oltre alla conservazione di elementi naturale viventi, quella di elementi abiotici e storico-naturali (paleontologici), di elementi culturali (il paesaggio) e di protezione idrogeologica, oltre a quelle ricreative “compatibili”. In questo modo si acquisisce il favore di componenti del mondo scientifico e culturale estranee alla motivazioni di tutela della fauna e della flora e si fa leva sulle componenti locali interessate a sviluppare l’economia turistica (dentro e fuori dai confini del parco). Con un’opportuna perimetrazione, di solito, si riesce a mettere d’accordo gli ambientalisti con la speculazione edilizia che vede buone opportunità nella “valorizzazione” di centri turistici “alle porte del parco”. Ovviamente, quanto più sono implicati grossi investimenti, quanto più a beneficiare di questo effetto indotto saranno forze economiche estranee al territorio.
E’, però, alla lettera b) del sopra citato comma della 394/91 che si prevede di disinnescare l’opposizione ai parchi : applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali.
In teoria, quindi, i parchi italiani, dovrebbero tenere conto della loro specificità (forte antropizzazione anche nelle aree di montagna prive o meno di insediamenti permanenti). Nella realtà, però, i piani socio-economici ritardano, sono redatti anni dopo i piani dei parchi (che dettano i vincoli), sono contraddittori. Mentre la governance effettiva dei parchi è saldamente controllata dai centri di potere ambientalisti (direttamente o, indirettamente, attraverso le nomine ministeriale e accademiche e Federparchi), gli strumenti che dovrebbero controbilanciare la gestione dall’alto, le comunità del parco, sono totalmente svuotati. Le deboli rappresentanze locali sono facilmente cooptate dalla direzione dei parchi grazie al potere discrezionale nella gestione di finanziamenti e delle autorizzazioni. I sindaci diventano docili pedine del parco.

La serie di divieti e le procedure autorizzative per ogni minimo intervento, le limitazioni poste a qualsiasi modifica dello status quo (vedi possibilità di ristrutturazione e di ampliamento dei fabbricati agricoli) vanno nel senso opposto alla “salvaguardia delle attività agro-silvo-pastorali”. Non solo i parchi impongono divieti alla realizzazione della viabilità di servizio, ma limitano la realizzazione di recinzioni, impongono carichi di pascolo che comportano il degrado lei pascoli stessi per sottopascolamento, limitano l’utilizzazione boschiva a forme di gestione naturalistica che escludono la redditività delle imprese. Stabiliscono poi divieti ulteriori per le zone umide o caratterizzate da particolari elementi naturali (si riesce sempre a trovare una scusa, anche per la protezione di specie comunissime), si impongono divieti di pascolo e taglio boschivo nella “aree di riproduzione dei lupi” ecc. ecc. E’ il regime delle autorizzazione e delle comunicazioni, per ogni minimo intervento, che risulta oppressivo e che viene utilizzato per “punire” i recalcitranti, imporre gli orientamenti del parco, giocare con la carota (della concessione di autorizzazioni) e il bastone delle sanzioni.

Aggiungiamo qualcosa sulle “aree contigue”. Vendute come una forma di mitigazione della brutale suddivisione tra aree sottoposte a rigidi divieti e aree esterne, le aree contigue sono diventate (insieme alla rete astutamente creata, con i ridicoli pretesti “naturalistici” delle aree Natura 200, ZPS, SIC) e all’esigenza conclamata dei “corridoi ecologici”, il pretesto per l’espansione dei parchi, come, non a caso va a sancire la “riforma” (!?) della 394/91.


Una matrice autoritaria, colonialista e razzista

I parchi nascono con grossi peccati originali. I dogmi della conservazione sono radicati nella conquista coloniale, inestricabilmente legati al genocidio commesso contro i nativi americani. I leader della conservazione come John Muir credevano che gli indigeni che avevano abitato Yosemite per almeno 6.000 anni rappresentassero una profanazione e dovessero andarsene. Muir, da puritano scozzese, li considerava “pigri” perché le loro tecniche di caccia garantivano una vita dignitosa senza sforzi inutili (ma anche sporchi, aggiungendo stigma a stigma). Theodore Roosvelt (1858-1919) fu il presidente americano (il 26°), lui stesso naturalista,  che creò, appoggiando Muir, cinque National Parks e una lunga serie di riserve e foreste federali aveva delle idee molto chiare sui “selvaggi”, non proprio secondo il politically correct di oggi (correttissime per quello del tempo):
La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti… È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale. T. Roosevelt, The Winning of the West: Book IV (Putnam, New York 1896:57).

Il dogma menzognero della natura selvaggia e quella dell’inferiorità di alcuni esseri umani risalgano alla nascita del modello dei parchi (Yosemite è creata al 1872). Rappresentano un modello anacronistico, che fa a pugni con le conoscenze ecologiche e antropologiche ma anche con gli ipocriti proclami antirazzisti, anticolonialisti, inclusivisti. Eppure il modello del parco è ancora esportato in tutto il mondo con gravissimi danni. L’esperienza coloniale, britannica in primo luogo, ha contributo a rafforzarlo.


Colonialismo e razzismo sono indissociabili (dall’Italia medievale alle colonie africane)

E’ improprio parlare di “colonialismo” per definire il rapporto che si viene a instaurarsi tra i parchi, il loro apparato di comando e controllo, e le popolazioni che abitano il territorio “perimetrato”? Crediamo proprio di no. E’ comodo pensare al colonialismo come una forma di dominio relegata a qualcosa di passato e limitato al rapporto tra paesi europei “metropolitani” e le loro colonie d’oltre mare. I colonizzatori inglesi guardavano ai territori destinati a diventare parchi come a un biblico giardino dell’Eden fingendo di non vedere chi vi abitava, ma il modo con il quale gli ambientalisti guardano ai territori che vogliono trasformare in parchi non è simile, non considera irrilevanti, prive di valore le presenze umane? Tanto irrilevanti da non tenere conto delle loro istanze, tanto irrilevante da impedire che abbiano voce. Il colonialismo è una forma più o meno istituzionalizzata di rapporto asimmetrico di potere con dei dominatori, espressione di un’altra cultura e di un altro territorio e i dominati, gli indigeni, le comunità rurali locali.

Il colonialismo più puro e feroce è stato quello imposto dalle città italiane (del centro-nord) ai loro “contadi” tra il XII e il XIV secolo, un fenomeno che non si esaurì con il passaggio alle nuove forme dello stato signorile.
La dominazione imposta ai rurali era feroce, ma a scuola non lo si racconta. I rurali erano cittadini di serie B a tutti gli effetti. Nelle controversie tra un cittadino (la cittadinanza del comune era difficile da acquisire a meno di essere ricchi) e un rurale era il giudice cittadino a decidere, le tasse fondiarie erano scaricate tutte sui rurali, tanto che l’aristocrazia del contado fu costretta (anche con altri mezzi coercitivi, peraltro) a trasferirsi in città lasciando le campagne italiane prive di élite (un fatto che ha inciso nella cultura italiana sino ad oggi), i rurali erano costretti a corvée (prestazioni di lavoro obbligato gratuite) per costruire le mura cittadine, per costruire opere pubbliche cittadine, strade, fortificazioni ( i signori feudali erano molto più generosi con i loro contadini e li proteggevano). I mercati, che erano già sorti all’ombra dei castelli, vennero aboliti e i rurali furono costretti a portare le loro merci sul mercato cittadino, subendo l’imposizione di prezzi calmierati a favore delle città e dipendendo dal mercato cittadino per l’acquisto (a caro prezzo) di quanto serviva loro. In caso di carestia, le milizie cittadine requisivano tutte le derrate e le ammassavano in citta; quindi chiudevano le porte e i rurali morivano di fame mentre in città venivano distribuiti i viveri.

Per legittimare il bestiale sfruttamento dei contadini, la borghesia urbana sviluppò la “satira del villano”, una forma letteraria nella quale il contadino era rappresentato come non pienamente umano, un bruto, un “animale da soma”, da trattare a bastonate. Questa ideologia andava oltre il razzismo, era una forma di “specismo” (visto che il contadino era un essere subumano). Nessuna differenza con il “negro” delle colonie. Queste idee si protrassero sino all’Ottocento. La conquista sabauda del Regno delle Due Sicilie e le conseguenti rivolte contadine rinverdirono queste “illuminate” concezioni.
Il colonialismo dei parchi si pone in continuità con la storia occidentale e italiana: burocrati, “naturalisti”, ambientalisti, professionisti provenienti dalla città (o che, attraverso gli studi universitari e il ceto d’appartenenza, fanno riferimento alla cultura cittadina) stabiliscono le regole di gestione del parco, basandosi, spesso, su principi astratti che fanno a pugni con le caratteristiche ambientali (sia sul piano “naturale” che “culturale”). Con la stessa rigidità e con l’arroganza di chi comanda, le applicano. I sindaci, i notabili, certi imprenditori, come i gruppi analoghi nelle colonie d’oltremare, fungono da mediatori, inseguendo le briciole dei flussi di finanziamento e vendono per trenta denari i loro concittadini. Alla differenza di colore della pelle, tipica del colonialismo, si sostituiscono elementi culturali, in primis il livello d’istruzione e l’adesione a schemi culturali e ideologici. Più che sufficienti a stabilire un fossato tra dominanti e dominati. Il colonialismo presuppone una gerarchia, con esseri umani superiori e intelligenti al vertice (i bianchi, i laureati, i naturalisti, gli ecologisti). Molti ambientalisti credono di essere gli unici portatori di competenza e di una visione lungimirante, indispensabile per controllare e gestire i parchi e che i rurali siano solo dei fastidiosi ignoranti da mettere ai margini. Il parco rappresenta un processo, usando un termine sociologico difficile da tradurre di “disepowerment” ovvero perdita di capacità di autonomia e controllo sul proprio ambiente, perdita di risorse, influenza, sino alla rassegnazione al senso di impotenza. Il punto è che a essere marginalizzate, neutralizzate, umiliate, sono le risorse umane che effettivamente possiedono le competenze ambientali legate ai luoghi perché vivono sul territorio da generazioni. Il sapere contestuale viene marginalizzato dalle regole del gioco scritte dai portatori di saperi formali, accademici, astratti (con le ovvie conseguenze negative).

Ma l’identità della realtà di oppressione dei parchi con le colonie d’oltremare non finisce qui. I guardia parco sono un po’ come la polizia coloniale; reclutati tra gli “indigeni”, sono oggi, sempre più spesso ambientalisti di città che seguono appositi corsi di indottrinamento organizzati da Federparchi (espressione di Legambiente). Viene così a mancare quel rapporto di comprensione tra guardie e rurali che, un tempo, era garantito dall’estrazione rurale delle guardie. Oggi il guardia parco, frustrato per non avere i poteri polizieschi di cc e gdf, si sente un ranger, del tutto privo di empatia per i rurali (bracconieri, pascolatori abusivi, abusivi edilizi ecc.).
Come i parchi africani, i parchi nazionali italiani attirano nell’area parco una selezionata corrente di “colonizzatori”, gente che si sposta dalle città per esercitare attività educative, turistiche, ricreative all’ombra dei parchi, desiderosa di intercettare finanziamenti. Questi “coloni”, interagiscono con le strutture del parco, le organizzazioni ambientaliste, i turisti che vengono dalle città, poco o nulla con l’ambiente locale. Mentre l’economia “indigena” tradizionale viene compressa, si creano limitati ambiti di “economia della natura” poco integrati nei circuiti locali. La componente “indigena” non è sempre estranea alle nuove attività ma deve allinearsi ideologicamente alla cultura ambientalista. In un modo e nell’altro è palese l’effetto di colonialismo culturale.

Sul “consumismo turistico” innescato dai parchi e sulla mistificazione della “conservazione” è istruttivo quanto avvenuto a Yosemite dove:

sono state costruite più di mille miglia di strade e sentieri escursionistici spesso affollati; sono stati abbattuti alberi per creare punti panoramici; l’equilibrio delle specie è stato alterato eliminando predatori animali e umani; sono state introdotte le trote per deliziare i pescatori; è stato costruito un hotel di lusso; sono state istituite aree di alimentazione degli orsi per entusiasmare i visitatori, allenando così gli animali a cercare cibo umano; e gli albergatori hanno realizzato una “cascata di fuoco” per un secolo, in cui la legna in fiamme veniva spinta oltre Glacier Point per cadere a cascata per migliaia di piedi nella valle (le cicatrici rimangono visibili quasi 50 anni dopo che è stata interrotta). (fonte)


La wilderness non esiste

Solo per l’uomo bianco la natura è  una “wilderness”. Per noi  è  mansueta…
La terra è ricca di doni e noi siamo circondati dalle benedizioni del Grande Mistero.
Orso in piedi, capo Lakota

A Orso in piedi non si poteva chiedere un’analisi sociologica. Ma noi dobbiamo chiarire che l’ “uomo bianco”, non è il contadino, non è il rurale. E’ il portatore di una cultura eurocentrica che è anche urbanocentrica. La filosofia della wilderness, come già prima il romanticismo, è un prodotto della borghesia, degli intellettuali borghesi, non certo di chi vive in campagna, immerso in una “natura” in cui – non molto diversamente dai popoli indigeni – vive (o viveva) immerso e non percepiva come una categoria a parte. Per l’ambientalista la wilderness è un concetto religioso; essa si identifica in una realtà che la mano dell’uomo non ha contribuito a plasmare. L’ambientalista è, però anche colui che proclama, come dogma di fede, che il cambiamento climatico è provocato in tutto o in gran parte dall’uomo, che il pianeta è un sistema vivente totalmente interconnesso e cita l’effetto farfalla (secondo cui un battito d’ali in Amazzonia contribuisce a spostare particelle d’aria che a loro volta spostano altra aria, innescando una reazione a catena che dà vita a un uragano in Florida). Per salvare un ecosistema dall’altra parte del mondo, l’ambientalista non si cambia le mutande e non fa la doccia; poi, però, crede che, stabilendo dei confini, si possa preservare la natura “intatta”.

Yosemite

Una ricerca condotta tra 2009 e 2010 da ricercatori del USGS (United States Geological Survey) sui Parchi della Sierra Nevada (tra cui l’iconico e storico Yosemite Park) che ha messo in luce come i pesticidi arrivino sin lì e si ritrovino nei tessuti corporei delle rane, a 100 km di distanza. Negli anni ’80, andavano di moda in ambito ambiental-catastrofista, le piogge acide. Gli ambientalisti proclamavano la prossima morte delle foreste alpine. L’allarme era gonfiato e strumentale e, oggi, nessuno si ricorda più della catastrofe delle piogge acide, ma – sia pure non nei termini enfatizzati dagli ecologisti, l’effetto delle piogge acide, era reale e tale da modificare l’acidità dei laghetti alpini.


Boschi deperenti. Negli anni ’80 si attribuivano, spesso senza fondamento, queste manifestazioni alle “piogge acide”

Questi esempi dimostrano che il concetto di “natura incontaminata” è un mito. Lo è, a maggior ragione, se parliamo di quei territori che i naturalisti, i conservazionisti occidentali, considerano “wilderness” ma che i nativi rivendicano come plasmati dalle loro pratiche. Per l’uomo occidentale, ambientalista compreso, un territorio è coltivato solo se sottoposto in modo palese, diretto a pratiche agricole, forestali, pastorali che ricalcano quelle occidentali o, comunque, quelle dei popoli che praticano l’agricoltura. E’ un errore, però, sostenere che i popoli cacciatori-raccoglitori, pur con densità antropiche molto basse rispetto a quelle dei popoli che praticano l’agricoltura e l’allevamento (1 individuo su 10 kmq), non plasmino il loro ambiente. L’influenza dell’uomo sull’ambiente è già evidente nel mesolitico (il periodo prima dell’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento, in ambiente alpino tra 10.000 e 6000 anni a.c.

Parlando degli Achuar, un popolo amazzonico, il grande antropologo Philippe Descola (Oltre natura e cultura, Milano, Raffaello Cortina, 2021, ed or. Gallimard, 2005, p. 55), scrive:

Considerare la foresta alla stregua di un orto non ha nulla di straordinario se si pensa che alcuni popoli dell’amazzonia sono ben consapevoli che le loro pratiche culturali esercitano un’influenza diretta sulla distribuzione e sulla riproduzione delle piante selvatiche. Questo fenomeno, a lungo ignorato, di antropizzazione indiretta dell’ecosistema forestale è stato descritto molto bene gli studi che William Balée ha dedicato all’ecologia storica dei Ka’apor del Brasile. Grazie a un minuzioso lavoro di identificazione di calcolo, questi ha potuto stabilire che i terreni debbiati [messi a coltura attraverso l’incendio] abbandonati da più di quarant’anni sono due volte più ricchi di specie selvatiche utili rispetto alle aree vicine di foresta vergine dalle quali tuttavia, a prima vista, non si distinguono affatto. La foresta, apparentemente, “selvaggia” agli occhi dell’ “uomo bianco” è un frutteto coltivato indirettamente. Gli amerindiani piantano nei loro orti numerose specie selvatiche da frutto . Dopo l’abbandono della coltivazione [secondo la tecnica dell’incendio e della coltivazione a rotazione di porzioni di foresta], queste piante prosperano e attirano animali. Sia negli orti coltivati che nei terreni abbandonati da poco, gli animali, con le loro feci, disseminano varie piante.

Dov’è qui il “disturbo” antropico? L’influenza “contaminante” dell’essere umano secondo la concezione moralista, di tipo religioso, dell’ambientalismo ideologico plasmato a fine Ottocento negli Usa sotto l’influenza del puritanesimo manicheo (di qui il male, l’impuro, il peccato, di là il bene, il puro, la virtù) ma, nel pensiero di H.D. Thoreau, il precursore dell’ambientalismo, influenzata anche da Rousseau (la “natura” è buona, la “società” è cattiva) e fatta propria dai moderni movimenti conservazionisti.

E cosa dire della contestazione, da parte degli aborigeni australiani, della parchizzazione della “natura incontaminata” australiana? Riportiamo integralmente una preziosa citazione tratta, ancora, Descola (op. cit., p. 49)

Affermare che i popoli che vivono di caccia e di raccolta percepi­scono il loro ambiente come “selvaggio” – in rapporto a una dome­sticità che peraltro faremmo ben fatica a definire – equivale anche a negare loro la consapevolezza di modificare, nel corso del tempo, l’e­cologia locale attraverso le proprie tecniche di sussistenza. Da qualche anno, per esempio, gli Aborigeni contestano al governo australiano l’uso che viene fatto del termine “wilderness” per qualificare i territo­ri che occupano, il che permette molto spesso di crearvi delle riserve naturali contro il loro volere. Con le sue connotazioni di terra nullius, di natura originaria e tutelata, di ecosistema da proteggere contro il degrado di origine antropica, il concetto di “wilderness” esclude chia­ramente la concezione dell’ambiente che gli Aborigeni hanno forgiato e le molteplici relazioni che hanno intessuto con esso, ma soprattutto ignora le sottili trasformazioni a cui l’hanno sottoposto. Come diceva un leader jawoyn del Territorio del Nord quando una parte delle lo­ro terre fu convertita in riserva naturale: “Il Parco nazionale Nitmiluk non è uno spazio selvaggio […], è un prodotto dell’attività umana. È una terra che abbiamo plasmato nel corso di decine di millenni – at­traverso le nostre cerimonie e i nostri legami di parentela, gli incendi e la caccia”. E chiaro che per gli Aborigeni, come per altri popoli che vivono di predazione, l’opposizione tra selvaggio e domestico non ha molto senso, non solo perché mancano le specie addomesticate, ma soprattutto perché la totalità dell’ambiente percorso viene abitata co­me una dimora spaziosa e familiare, trasformata nel corso delle gene­razioni con una tale discrezione che il tocco apportato dagli occupanti che vi si sono succeduti è diventato quasi impercettibile.

Senza andare in Amazzonia, o nel centro dell’Australia, vogliamo ricordare che, per le comunità alpine, lo spazio del villaggio è rappresentato da tutto quello che, in uno spazio concentrico ad anelli, esclude solo le rocce e i ghiacciai inaccessibili. Vogliamo ricordare che si raccoglieva il “fieno selvatico” su pendii ripidissimi, aggrappandosi con una mano a cespugli o rocce e, con l’altra, usando un corto falcetto. Era un modo per strappare risorse e per coltivare anche praterie naturali dove gli animali domestici, spesso neppure le capre, potevano pascolare. Boschi, pascoli, “montagne da fieno selvatico”, tutto rappresentava lo spazio socializzato, uno spazio “addomesticato” anche con la marcatura simbolica (cumuli di pietre, croci incise nella roccia, croci, santelle).

I parchi non funzionano come vorrebbero farci credere

Uno studio (fonte) del Museo di Storia Naturale di Londra, condotto a livello planetario su che tiene conto delle variazioni dell’indice di biodiversità (Biodiversity Intactness Index – BII) sviluppato dallo stesso Natural History Museum, dimostra che l’attuale approccio all’implementazione del modello 30 per 30 sulla terraferma non protegge adeguatamente le aree che forniscono i servizi ecosistemici più essenziali per le persone.

Oltre sei miliardi di persone dipendono dal 30% di terra che fornisce i servizi ecosistemici più critici. Attualmente, solo il 22% della terra che fornisce questi servizi si trova all’interno della rete globale di aree protette. All’interno di questo 22%, l’integrità della biodiversità sta diminuendo più rapidamente di quanto non accada all’esterno delle aree protette. Ciò significa che gli attuali sforzi di conservazione non stanno funzionando per sostenere questi servizi ecosistemici critici e rischiamo di perderli (Ivi).


Reintroduzione di orsi, importati dalla Slovenia nel Parco Adamello Brenta

L’Indice di biodiversità, calcolato dal Museo, è diminuito dell’ 1,88% tra il 2000 e il 2020, da 61.26% a 59.37%. Nelle aree protette l’indice era pari a 71,6% nel 2000 ma è diminuito del 2,01%; ancora di più è diminuito nelle aree protette che forniscono i servici ecosistemici cruciali (- 2,12%). I parchi acquisiscono un capitale di biodiversità che, anche nelle zone apparentemente disabitate, è in qualche modo stato creato e custodito dalle popolazioni indigene (nomadi o stanziali). Quanto la governance passa ai tecnocrati verdi, influenzati dai paradigmi dell’ideologia conservazionista, la biodiversità diminuisce. Spesso perché le popolazioni vengono espulse (come ne caso dei primi parchi americani) o marginalizzate, costrette a modificare le loro forme di vita, pesantemente limitate nelle loro attività, sino ad abbandonarle o stravolgerle (come nei nostri parchi).

Turismo nei parchi della tigre

Oltre alla protezione delle specie, dobbiamo porre maggiore attenzione alla conservazione efficace del territorio che fornisce i servizi ecosistemici più critici per le persone. Dobbiamo andare oltre la designazione statica di aree che soddisfano semplicemente i requisiti minimi o si concentrano su specie o risultati specifici. Invece, dovremmo andare verso un processo più dinamico e attentamente monitorato, tramite il quale le aree possono essere “gestite” fino a uno stato di maggiore resilienza (Ivi).

Turismo del parco di Kaziranga, dove le guardie, sponsorizzate dal WWF, sparano a vista ai sospetti bracconieri (centinaia di casi di esecuzioni extragiudiziali)

Conclusioni

L’ambientalismo, la veste ideologica dietro la quale oggi viene celata tanta parte della “lotta di classe dall’alto” da parte delle élites nei confronti dei ceti popolari e delle popolazioni indigene e rurali, pretende di mettere le grinfie su pretesi “territori naturali”. Pensati come tali alla luce di un filtro deformante ideologico.
La finalità delle strategie di parchizzazione, come il 30 30, è quella di imprimere il sigillo delle “aree protette” a territori sempre più vasti, applicare una forma di controllo del territorio e di colonialismo culturale che determina il disempowerment delle popolazioni locali. Gli ambientalisti si sentono legittimati a soggiogare le popolazioni in quanto portatori di una missione salvifica para religiosa e in forza di una superiorità morale e antropologica (oggi malcelata da finti proclami buonisti) nei confronti degli indigeni e dei “villici”.
Se gli aborigeni australiani si ribellano alla creazione, contro il loro volere, dei parchi protestando che, per loro, non sono affatto “wilderness” ma territori da loro plasmati in modo sottile, cosa dire dei barbari verdi che applicando il mito arcaico dei parchi vorrebbero trasformare in “wilderness” l’Appennino centrale (e poi le Alpi), intensamente segnate da millenni di civilizzazione?




Articoli sui parchi

Il ritorno dei grandi predatori: parchi e "rewilding"
(23.08.17)
Georges Stoffel. Georges è un contadino bio e un alpeggiatore di Avers, isola walser ai confini dell'Italia (Sondrio) e della val Bregaglia.  Un vero "vicino di casa" che si batte con vigore contro la reintroduzione dei grandi predatori e il parco dell'Adula (il massiccio di 3400 m tra Ticino e Grigioni). Dalla parte di qua del confine ormai i parchi sono stati già istituiti ovunque possibile, ma l'approfondita analisi di Georges sul rewildering e la governance dei grandi predatori, figli di un unico disegno internazionale delle lobby ambientalista che mira esplicitamente ad abolire l'agricoltura di montagna in vaste aree. Un progetto dogmatico, calato dall'alto secondo uno stile e una prassi totalitarie (traduzione dal tedesco di Remo Calcagnini).

Il parco sentenzia: l'orso non è pericoloso. Anatema a chi dubita
(12.09.12)  Prima gli tolgono il microfono all'incontro "informativo" a Bormio. Poi, con un documento ripreso prontamente dai media provinciali, il Parco dello Stelvio qualifica come "false e scorrette" le posizioni di un residente di Valfurva (in alta Valtellina) che osa sollevare dubbi sulla non pericolosità dell'orso (basandosi su Ruralpini). A quando un confronto democratico cari Signori dell'Orso? 

Presidente di parco contro Wolf Alps
(28.01.21) Mauro Deidier, neo presidente del parco delle Alpi Cozie, in provincia di Torino, parco partner di Wolf Alps, ha scritto alla "centrale" di Wolf Alps (e del lupismo), il parco delle Alpi Marittime, per manifestare la sua contrarietà al progetto.  Nella circostanziata e densa lettera di cinque pagine, egli rileva come, non solo Wolf Alps operi in modo poco trasparente ma impieghi una quota sostanziosa della pioggia di milioni ricevuti per consulenze. Consulenze a favore della autoreferenziale cerchia lupista. Grave, poi,  per Deidier: l'assoluta volontà di manipolare l'informazione e la comunicazione verso il solo obiettivo di creare a tutti i costi consenso attorno al progetto al fine di proteggerlo da opinioni difformi. Sino a vantarsi di praticare con successo il lavaggio del cervello (parole loro) ai danni degli alunni della scuola dell'obbligo.

Le vittime del WWF (di parchi si muore) II
(11.01.21) A seguito di un'inchiesta giornalistica del marzo 2019, i governi e le organizzazioni sovranazionali hanno sospeso finanziamenti a parchi africani gestiti del WWF e relativi progetti. Le denuncie delle  sistematiche atrocità commesse dalle "eco-guardie" del WWF erano note ma non erano riuscite sinora a superare la soglia dell'imbarazzo per gli stati che regalano al Panda i soldi del contribuente per finanziare "parchi fortezza" che impiegano l'80% dei fondi per la sorveglianza armata. Alla fine di novembre del 2020 è arrivato l'esito del rapporto commissionato a un panel indipendente dal WWF stesso. Che lo scagiona solo dalle responsabilità dirette, ma che ammette che i vertici del Panda, nonostante sapessero delle violazioni dei diritti umani, hanno continuato a pagare e premiare stupratori, assassini, torturatori. La responsabilità morale e politica non è penalmente perseguibile ma cosa faranno i finanziatori pubblici e privati della big corp della conservation world industry? Non succederà quasi nulla perché il conservazionismo militarizzato è sinergico al business turistico e, soprattutto, a quello della natura 2.0, mediata dalle piattaforme internet, settore trainante del capitalismo attuale.


Le vittime del WWF (di parchi si muore) I
(14/12/2020) La politica disumana del conservazionismo antepone la tutela dei sacri parchi, delle specie in via di estinzione (solo quelle "carismatiche" che piacevano tanto ai buana bianchi che praticavano la caccia grossa) al rispetto dei diritti umani. A parole no. Nei fatti sì come dimostrano ampiamente le tante inchieste - di cui rendiamo conto in questo articolo - che hanno squarciato il velo sulle atrocità delle quali le politiche del WWF si sono rese responsabili: esecuzioni extra-giudiziali, uso sistematico della tortura, espulsioni forzate dai villaggi, politiche di riduzione delle nascite (con sterilizzazione). Il tutto in un contesto di militarizzazione, intimidazioni, delazioni. E tutto per il business del turismo e della stessa fiorente industria del conservazionismo. Per lavare a buon mercato la coscienza ambientale sporca dei ricchi, dei consumatori opulenti, a spese dei meno tutelati della terra. Vittime sacrificali.