Introduzione
La creazione dei parchi (con l’obiettivo di
conservare la “natura incontaminata”) è frutto della separazione tra
“natura” e “cultura”, qualcosa che riguarda esclusivamente la cultura
occidentale urbana degli ultimi secoli. Questa concezione ha consentito
di ignorare (o di fingere di ignorare) la presenza umana, gli effetti
dell’antropizzazione nelle aree naturali e di considerala un disturbo
da eliminare per ripristinare la “purezza”. Storicamente i parchi sono
parte del fenomeno del colonialismo e hanno mantenuto sino a oggi un
carattere autoritario e oppressivo. In barba alle ipocrite
dichiarazioni sul rispetto dei diritti, sulla democrazia, sulla
partecipazione, la governance dei parchi è basata su un approccio
tecnocratico e autoreferenziale, con l’effetto di soggiogare (e/o
espellere e marginalizzare) le popolazioni indigene e rurali. Se, su
una scala mondiale, i parchi sono un frutto dell’eurocentrismo, sul
piano italiano sono frutto dell’urbanocentrismo che trae origine dalla
feroce colonialismo del comune cittadino nei confronti del contato nel
medioevo. Nati per limitare o annullare i “disturbi antropici”, i
parchi rappresentano il volano di un business turistico globale che,
puntando su elementi spettacolari e sulla tutela di animali
carismatici, contraddice gli obiettivi stessi della conservazione, come
dimostra il fatto che la biodiversità diminuisce più rapidamente nella
aree protette che nel resto dlele terre emerse del pianeta.
Con Cartesio (che afferma la separazione netta tra spirito e materia, res cogitans e res extensa)
e con la nascita del pensiero scientifico moderno, la “natura” venne
considerata una realtà a sé. La scienza si pose di fronte alla natura
come a qualcosa di separato, di inerte, governato da leggi universali e
meccaniche che poteva essere osservato con distacco, dissezionato. Ciò
ha dato impulso alla conoscenza scientifica, al dominio, alla
trasformazione, senza remore e senza limiti – della natura stessa
attraverso la tecnica. L’ambientalismo, che nasce sotto forme para
religiose, pur proponendosi di tutelare la natura, si pone all’interno
dello stesso dualismo e ne è l’altra faccia della medaglia, un
complemento. In realtà, il dualismo tra “natura” e “cultura” è venuto a
definirsi compiutamente poco più di un secolo fa, attraverso
l’antropologia culturale, che scopre la “cultura” come categoria in
opposizione alla natura. Questo dualismo non esiste in nessuna cultura
al mondo. Imporlo è già una prepotenza etnocentrica.
Il sociologo e antropologo Bruno Latour (Politiche della Natura. Per una democrazia delle scienze)
ha messo in evidenza i pericoli di questo dualismo: nel campo del
sociale, le idee dominanti (ovvero quelle delle classi dominanti)
vengono imposte senza possibilità di confutazione, presentandole quali
“oracoli della natura”, che, gli aruspici moderni debitamente abilitati
(gli scienziati) interpretano direttamente avendo accesso alla Natura e
alle sue leggi. Quanto era prima imposto in quanto “legge divina” oggi
è imposto in quanto “legge di natura”. I fatti sociali vengono quindi
“naturalizzati”. La riduzione della natura a elemento inerte ha
storicamente facilitato la sua trasformazione in una merce (la terra)
da vendere a unità di superficie (Polanyi,La grande trasformazione) Un altro danno del dualismo natura-cultura occidentale, secondo Latour (Non siamo mai stati moderni),
è che esso ha reso possibile, per nulla paradossalmente, pensare e
realizzare l’ibridazione tra natura e cultura, tra naturale e artefatto
tecnologico aprendo la prospettiva del transumanesimo. Noi riteniamo
che un altro pericolo, un altro prodotto avvelenato del dualismo
natura-cultura sia rappresentato dall’ambientalismo, che fonde motivi
mistici con lo scientismo più volgare in funzione di politiche della
natura autoritarie e oppressive mosse da logiche di dominio. Il “parco”
è l’elemento oggettivato dell’ideologia ambientalista.
Il parco nazionale come oggettivazione dell’ideologia ambientalista di controllo dall’alto
Secondo la definizione della IUCN (Unione
internazionale per la conservazione della natura) i parchi nazionali,
che rientrano nella categoria II, sono grandi aree naturali o quasi
naturali riservate alla protezione di processi ecologici su larga
scala, insieme al complemento di specie ed ecosistemi caratteristici
dell’area, che forniscono anche una base per opportunità spirituali,
scientifiche, educative, la funzione primaria è quella di protezione in
sé stessa, ovvero quella della pretesa di mettere un pezzo di “Natura”
(arbitrariamente estrapolato dall’insieme delle relazioni che ogni
territorio ha con il resto sei sistemi “campana di vetro” che si
traduce nell’eliminare o ostacolare le attività antropiche, comprese
quelle tradizionali, comprese quelle esercitate da migliaia di anni.
Sono possibili, secondo la IUCN le attività “spirituali”, in linea con
l’ambientalismo ottocentesco delle origini che intendeva la creazione
dei parchi (sottratti ai “selvaggi”) quale missione civilizzatrice
dell’uomo bianco istruito che anelava, attraverso il contatto mistico
con la natura “purificata” dall’influenza umana, perseguire una forma
di ascesi. Per preservare la sacralità dei “santuari della natura” il
parco deve essere circoscritto da confini precisamente delimitati che
si rifanno alla dimensione sacra e magica del confine, della soglia.
Quanto alle attività scientifiche ed educative si tratta di quelle
esercitate dalle organizzazioni stesse che aderiscono alla IUCN.
Ipocritamente dalla definizione canonica della IUCN resta fuori il
turismo che, invece, è diventato un business globale.
In realtà, al di là delle definizioni scientifiche (e di legge) L’idea di un parco nazionale va
oltre le preoccupazioni per la protezione della natura fine a se
stessa. Comporta anche il controllo sulle persone e sulle risorse
naturali che utilizzano, e sui paesaggi che abitano. M. Ramutsindela, National parks and colonialism, The Cambridge Handbook of Environmental Sociology , vol. I, part III, chapt, 13 Published online:5 November 2020. Questo aspetto viene accuratamente celato.
Il concetto di parco nazionale, nato in Usa,
dove deportare qualche tribù indigena non rappresentava un grosso
problema per le giubbe blu, è stato trasposto pari-pari negli stessi
termini in Africa (dove non è difficile schiacciare popolazioni senza
alcun sostegno dai corrotti governi locali) e, con maggiore difficoltà,
in Asia e, soprattutto, in Europa. Anche in Europa, anche in Italia,
l’idea che un parco nazionale debba essere una zona dove la protezione
della Natura viene perseguita, in via esclusiva o prevalente resta
tutt’ora alla base del “movimento” per la creazione dei parchi stessi
anche se, per “indorare la pillola”, esso accetta di mascherare tutto
questo con delle concessioni di facciata, come vedremo tra poco.
Il
movimento dei parchi nazionali immaginava questi parchi come la natura
selvaggia, ovvero aree che non sono state toccate dagli esseri umani e
che possono essere utilizzate esclusivamente per la conservazione della
natura. I tentativi di ridefinire un parco nazionale per mitigare le
conseguenze negative dei parchi nazionali sulle comunità indigene e
locali […] non hanno cambiato in modo significativo le opinioni e le
percezioni che un parco nazionale è una zona esclusiva per la
protezione della natura. (Ivi)
La creazione dei parchi in Europa e, nella
fattispecie, in Italia, dove tutto il territorio è stato profondamente
influenzato da un’antropizzazione millenaria e capillare, per poter
essere attuata senza suscitare resistenze insormontabili, ha dovuto,
sulla carta, scendere a dei compromessi.
La legge 394/91 che regola
l’istituzione e la gestione delle aree protette, elencando le finalità
delle stesse (art. 1, comma 3) , già alla lettera a) inserisce, oltre
alla conservazione di elementi naturale viventi, quella di elementi
abiotici e storico-naturali (paleontologici), di elementi culturali (il
paesaggio) e di protezione idrogeologica, oltre a quelle ricreative
“compatibili”. In questo modo si acquisisce il favore di componenti del
mondo scientifico e culturale estranee alla motivazioni di tutela della
fauna e della flora e si fa leva sulle componenti locali interessate a
sviluppare l’economia turistica (dentro e fuori dai confini del parco).
Con un’opportuna perimetrazione, di solito, si riesce a mettere
d’accordo gli ambientalisti con la speculazione edilizia che vede buone
opportunità nella “valorizzazione” di centri turistici “alle porte del
parco”. Ovviamente, quanto più sono implicati grossi investimenti,
quanto più a beneficiare di questo effetto indotto saranno forze
economiche estranee al territorio.
E’, però, alla lettera b) del sopra citato comma della 394/91 che si
prevede di disinnescare l’opposizione ai parchi : applicazione di
metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una
integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la
salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e
architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali.
In teoria, quindi, i parchi italiani, dovrebbero tenere conto della
loro specificità (forte antropizzazione anche nelle aree di montagna
prive o meno di insediamenti permanenti). Nella realtà, però, i piani
socio-economici ritardano, sono redatti anni dopo i piani dei parchi
(che dettano i vincoli), sono contraddittori. Mentre la governance
effettiva dei parchi è saldamente controllata dai centri di potere
ambientalisti (direttamente o, indirettamente, attraverso le nomine
ministeriale e accademiche e Federparchi), gli strumenti che dovrebbero
controbilanciare la gestione dall’alto, le comunità del parco, sono
totalmente svuotati. Le deboli rappresentanze locali sono facilmente
cooptate dalla direzione dei parchi grazie al potere discrezionale
nella gestione di finanziamenti e delle autorizzazioni. I sindaci
diventano docili pedine del parco.
La serie di divieti e le procedure
autorizzative per ogni minimo intervento, le limitazioni poste a
qualsiasi modifica dello status quo (vedi possibilità di
ristrutturazione e di ampliamento dei fabbricati agricoli) vanno nel
senso opposto alla “salvaguardia delle attività agro-silvo-pastorali”.
Non solo i parchi impongono divieti alla realizzazione della viabilità
di servizio, ma limitano la realizzazione di recinzioni, impongono
carichi di pascolo che comportano il degrado lei pascoli stessi per
sottopascolamento, limitano l’utilizzazione boschiva a forme di
gestione naturalistica che escludono la redditività delle imprese.
Stabiliscono poi divieti ulteriori per le zone umide o caratterizzate
da particolari elementi naturali (si riesce sempre a trovare una scusa,
anche per la protezione di specie comunissime), si impongono divieti di
pascolo e taglio boschivo nella “aree di riproduzione dei lupi” ecc.
ecc. E’ il regime delle autorizzazione e delle comunicazioni, per ogni
minimo intervento, che risulta oppressivo e che viene utilizzato per
“punire” i recalcitranti, imporre gli orientamenti del parco, giocare
con la carota (della concessione di autorizzazioni) e il bastone delle
sanzioni.
Aggiungiamo qualcosa sulle “aree contigue”.
Vendute come una forma di mitigazione della brutale suddivisione tra
aree sottoposte a rigidi divieti e aree esterne, le aree contigue sono
diventate (insieme alla rete astutamente creata, con i ridicoli
pretesti “naturalistici” delle aree Natura 200, ZPS, SIC) e
all’esigenza conclamata dei “corridoi ecologici”, il pretesto per
l’espansione dei parchi, come, non a caso va a sancire la “riforma”
(!?) della 394/91.
Una matrice autoritaria, colonialista e razzista
I parchi nascono con grossi peccati
originali. I dogmi della conservazione sono radicati nella conquista
coloniale, inestricabilmente legati al genocidio commesso contro i
nativi americani. I leader della conservazione come John Muir credevano
che gli indigeni che avevano abitato Yosemite per almeno 6.000 anni
rappresentassero una profanazione e dovessero andarsene. Muir, da
puritano scozzese, li considerava “pigri” perché le loro tecniche di
caccia garantivano una vita dignitosa senza sforzi inutili (ma anche
sporchi, aggiungendo stigma a stigma). Theodore Roosvelt (1858-1919) fu
il presidente americano (il 26°), lui stesso naturalista, che
creò, appoggiando Muir, cinque National Parks e una lunga serie di
riserve e foreste federali aveva delle idee molto chiare sui
“selvaggi”, non proprio secondo il politically correct di oggi
(correttissime per quello del tempo):
La più giusta fra tutte le guerre è
quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più
terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio
dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti… È
d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino
dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per
diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale. T. Roosevelt, The Winning of the West: Book IV (Putnam, New York 1896:57).
Il dogma menzognero della natura selvaggia e
quella dell’inferiorità di alcuni esseri umani risalgano alla nascita
del modello dei parchi (Yosemite è creata al 1872). Rappresentano un
modello anacronistico, che fa a pugni con le conoscenze ecologiche e
antropologiche ma anche con gli ipocriti proclami antirazzisti,
anticolonialisti, inclusivisti. Eppure il modello del parco è ancora
esportato in tutto il mondo con gravissimi danni. L’esperienza
coloniale, britannica in primo luogo, ha contributo a rafforzarlo.
Colonialismo e razzismo sono indissociabili (dall’Italia medievale alle colonie africane)
E’ improprio parlare di “colonialismo” per
definire il rapporto che si viene a instaurarsi tra i parchi, il loro
apparato di comando e controllo, e le popolazioni che abitano il
territorio “perimetrato”? Crediamo proprio di no. E’ comodo pensare al
colonialismo come una forma di dominio relegata a qualcosa di passato e
limitato al rapporto tra paesi europei “metropolitani” e le loro
colonie d’oltre mare. I colonizzatori inglesi guardavano ai territori
destinati a diventare parchi come a un biblico giardino dell’Eden
fingendo di non vedere chi vi abitava, ma il modo con il quale gli
ambientalisti guardano ai territori che vogliono trasformare in parchi
non è simile, non considera irrilevanti, prive di valore le presenze
umane? Tanto irrilevanti da non tenere conto delle loro istanze, tanto
irrilevante da impedire che abbiano voce. Il colonialismo è una forma
più o meno istituzionalizzata di rapporto asimmetrico di potere con dei
dominatori, espressione di un’altra cultura e di un altro territorio e
i dominati, gli indigeni, le comunità rurali locali.
Il colonialismo più puro e feroce è stato
quello imposto dalle città italiane (del centro-nord) ai loro “contadi”
tra il XII e il XIV secolo, un fenomeno che non si esaurì con il
passaggio alle nuove forme dello stato signorile.
La dominazione imposta ai rurali era feroce, ma a scuola non lo si
racconta. I rurali erano cittadini di serie B a tutti gli effetti.
Nelle controversie tra un cittadino (la cittadinanza del comune era
difficile da acquisire a meno di essere ricchi) e un rurale era il
giudice cittadino a decidere, le tasse fondiarie erano scaricate tutte
sui rurali, tanto che l’aristocrazia del contado fu costretta (anche
con altri mezzi coercitivi, peraltro) a trasferirsi in città lasciando
le campagne italiane prive di élite (un fatto che ha inciso nella
cultura italiana sino ad oggi), i rurali erano costretti a corvée
(prestazioni di lavoro obbligato gratuite) per costruire le mura
cittadine, per costruire opere pubbliche cittadine, strade,
fortificazioni ( i signori feudali erano molto più generosi con i loro
contadini e li proteggevano). I mercati, che erano già sorti all’ombra
dei castelli, vennero aboliti e i rurali furono costretti a portare le
loro merci sul mercato cittadino, subendo l’imposizione di prezzi
calmierati a favore delle città e dipendendo dal mercato cittadino per
l’acquisto (a caro prezzo) di quanto serviva loro. In caso di carestia,
le milizie cittadine requisivano tutte le derrate e le ammassavano in
citta; quindi chiudevano le porte e i rurali morivano di fame mentre in
città venivano distribuiti i viveri.
Per legittimare il bestiale sfruttamento dei
contadini, la borghesia urbana sviluppò la “satira del villano”, una
forma letteraria nella quale il contadino era rappresentato come non
pienamente umano, un bruto, un “animale da soma”, da trattare a
bastonate. Questa ideologia andava oltre il razzismo, era una forma di
“specismo” (visto che il contadino era un essere subumano). Nessuna
differenza con il “negro” delle colonie. Queste idee si protrassero
sino all’Ottocento. La conquista sabauda del Regno delle Due Sicilie e
le conseguenti rivolte contadine rinverdirono queste “illuminate”
concezioni.
Il colonialismo dei parchi si pone in continuità con la storia
occidentale e italiana: burocrati, “naturalisti”, ambientalisti,
professionisti provenienti dalla città (o che, attraverso gli studi
universitari e il ceto d’appartenenza, fanno riferimento alla cultura
cittadina) stabiliscono le regole di gestione del parco, basandosi,
spesso, su principi astratti che fanno a pugni con le caratteristiche
ambientali (sia sul piano “naturale” che “culturale”). Con la stessa
rigidità e con l’arroganza di chi comanda, le applicano. I sindaci, i
notabili, certi imprenditori, come i gruppi analoghi nelle colonie
d’oltremare, fungono da mediatori, inseguendo le briciole dei flussi di
finanziamento e vendono per trenta denari i loro concittadini. Alla
differenza di colore della pelle, tipica del colonialismo, si
sostituiscono elementi culturali, in primis il livello d’istruzione e
l’adesione a schemi culturali e ideologici. Più che sufficienti a
stabilire un fossato tra dominanti e dominati. Il colonialismo
presuppone una gerarchia, con esseri umani superiori e intelligenti al
vertice (i bianchi, i laureati, i naturalisti, gli ecologisti). Molti
ambientalisti credono di essere gli unici portatori di competenza e di
una visione lungimirante, indispensabile per controllare e gestire i
parchi e che i rurali siano solo dei fastidiosi ignoranti da mettere ai
margini. Il parco rappresenta un processo, usando un termine
sociologico difficile da tradurre di “disepowerment” ovvero perdita di
capacità di autonomia e controllo sul proprio ambiente, perdita di
risorse, influenza, sino alla rassegnazione al senso di impotenza. Il
punto è che a essere marginalizzate, neutralizzate, umiliate, sono le
risorse umane che effettivamente possiedono le competenze ambientali
legate ai luoghi perché vivono sul territorio da generazioni. Il sapere
contestuale viene marginalizzato dalle regole del gioco scritte dai
portatori di saperi formali, accademici, astratti (con le ovvie
conseguenze negative).
Ma l’identità della realtà di oppressione dei
parchi con le colonie d’oltremare non finisce qui. I guardia parco sono
un po’ come la polizia coloniale; reclutati tra gli “indigeni”, sono
oggi, sempre più spesso ambientalisti di città che seguono appositi
corsi di indottrinamento organizzati da Federparchi (espressione di
Legambiente). Viene così a mancare quel rapporto di comprensione tra
guardie e rurali che, un tempo, era garantito dall’estrazione rurale
delle guardie. Oggi il guardia parco, frustrato per non avere i poteri
polizieschi di cc e gdf, si sente un ranger, del tutto privo di empatia
per i rurali (bracconieri, pascolatori abusivi, abusivi edilizi ecc.).
Come i parchi africani, i parchi nazionali italiani attirano nell’area
parco una selezionata corrente di “colonizzatori”, gente che si sposta
dalle città per esercitare attività educative, turistiche, ricreative
all’ombra dei parchi, desiderosa di intercettare finanziamenti. Questi
“coloni”, interagiscono con le strutture del parco, le organizzazioni
ambientaliste, i turisti che vengono dalle città, poco o nulla con
l’ambiente locale. Mentre l’economia “indigena” tradizionale viene
compressa, si creano limitati ambiti di “economia della natura” poco
integrati nei circuiti locali. La componente “indigena” non è sempre
estranea alle nuove attività ma deve allinearsi ideologicamente alla
cultura ambientalista. In un modo e nell’altro è palese l’effetto di
colonialismo culturale.
Sul “consumismo turistico” innescato dai
parchi e sulla mistificazione della “conservazione” è istruttivo quanto
avvenuto a Yosemite dove:
sono state
costruite più di mille miglia di strade e sentieri escursionistici
spesso affollati; sono stati abbattuti alberi per creare punti
panoramici; l’equilibrio delle specie è stato alterato eliminando
predatori animali e umani; sono state introdotte le trote per deliziare
i pescatori; è stato costruito un hotel di lusso; sono state istituite
aree di alimentazione degli orsi per entusiasmare i visitatori,
allenando così gli animali a cercare cibo umano; e gli albergatori
hanno realizzato una “cascata di fuoco” per un secolo, in cui la legna
in fiamme veniva spinta oltre Glacier Point per cadere a cascata per
migliaia di piedi nella valle (le cicatrici rimangono visibili quasi 50
anni dopo che è stata interrotta). (fonte)
La wilderness non esiste
Solo per l’uomo bianco la natura è una “wilderness”. Per noi è mansueta…
La terra è ricca di doni e noi siamo circondati dalle benedizioni del Grande Mistero.
Orso in piedi, capo Lakota
A Orso in piedi non si poteva chiedere
un’analisi sociologica. Ma noi dobbiamo chiarire che l’ “uomo bianco”,
non è il contadino, non è il rurale. E’ il portatore di una cultura
eurocentrica che è anche urbanocentrica. La filosofia della wilderness,
come già prima il romanticismo, è un prodotto della borghesia, degli
intellettuali borghesi, non certo di chi vive in campagna, immerso in
una “natura” in cui – non molto diversamente dai popoli indigeni – vive
(o viveva) immerso e non percepiva come una categoria a parte. Per
l’ambientalista la wilderness è un concetto religioso; essa si
identifica in una realtà che la mano dell’uomo non ha contribuito a
plasmare. L’ambientalista è, però anche colui che proclama, come dogma
di fede, che il cambiamento climatico è provocato in tutto o in gran
parte dall’uomo, che il pianeta è un sistema vivente totalmente
interconnesso e cita l’effetto farfalla (secondo cui un battito d’ali
in Amazzonia contribuisce a spostare particelle d’aria che a loro volta
spostano altra aria, innescando una reazione a catena che dà vita a un
uragano in Florida). Per salvare un ecosistema dall’altra parte del
mondo, l’ambientalista non si cambia le mutande e non fa la doccia;
poi, però, crede che, stabilendo dei confini, si possa preservare la
natura “intatta”.
Yosemite
Una ricerca condotta tra 2009 e 2010 da
ricercatori del USGS (United States Geological Survey) sui Parchi della
Sierra Nevada (tra cui l’iconico e storico Yosemite Park) che ha messo
in luce come i pesticidi arrivino sin lì e si ritrovino nei tessuti
corporei delle rane, a 100 km di distanza. Negli anni ’80, andavano di
moda in ambito ambiental-catastrofista, le piogge acide. Gli
ambientalisti proclamavano la prossima morte delle foreste alpine.
L’allarme era gonfiato e strumentale e, oggi, nessuno si ricorda più
della catastrofe delle piogge acide, ma – sia pure non nei termini
enfatizzati dagli ecologisti, l’effetto delle piogge acide, era reale e
tale da modificare l’acidità dei laghetti alpini.
Boschi deperenti. Negli anni ’80 si attribuivano, spesso senza fondamento, queste manifestazioni alle “piogge acide”
Questi esempi dimostrano che il concetto di
“natura incontaminata” è un mito. Lo è, a maggior ragione, se parliamo
di quei territori che i naturalisti, i conservazionisti occidentali,
considerano “wilderness” ma che i nativi rivendicano come plasmati
dalle loro pratiche. Per l’uomo occidentale, ambientalista compreso, un
territorio è coltivato solo se sottoposto in modo palese, diretto a
pratiche agricole, forestali, pastorali che ricalcano quelle
occidentali o, comunque, quelle dei popoli che praticano l’agricoltura.
E’ un errore, però, sostenere che i popoli cacciatori-raccoglitori, pur
con densità antropiche molto basse rispetto a quelle dei popoli che
praticano l’agricoltura e l’allevamento (1 individuo su 10 kmq), non
plasmino il loro ambiente. L’influenza dell’uomo sull’ambiente è già
evidente nel mesolitico (il periodo prima dell’avvento dell’agricoltura
e dell’allevamento, in ambiente alpino tra 10.000 e 6000 anni a.c.
Parlando degli Achuar, un popolo amazzonico,
il grande antropologo Philippe Descola (Oltre natura e cultura, Milano,
Raffaello Cortina, 2021, ed or. Gallimard, 2005, p. 55), scrive:
Considerare
la foresta alla stregua di un orto non ha nulla di straordinario se si
pensa che alcuni popoli dell’amazzonia sono ben consapevoli che le loro
pratiche culturali esercitano un’influenza diretta sulla distribuzione
e sulla riproduzione delle piante selvatiche. Questo fenomeno, a lungo
ignorato, di antropizzazione indiretta dell’ecosistema forestale è
stato descritto molto bene gli studi che William Balée ha dedicato
all’ecologia storica dei Ka’apor del Brasile. Grazie a un minuzioso
lavoro di identificazione di calcolo, questi ha potuto stabilire che i
terreni debbiati [messi a coltura attraverso l’incendio] abbandonati da
più di quarant’anni sono due volte più ricchi di specie selvatiche
utili rispetto alle aree vicine di foresta vergine dalle quali
tuttavia, a prima vista, non si distinguono affatto.
La foresta, apparentemente, “selvaggia” agli occhi dell’ “uomo bianco”
è un frutteto coltivato indirettamente. Gli amerindiani piantano nei
loro orti numerose specie selvatiche da frutto . Dopo l’abbandono della
coltivazione [secondo la tecnica dell’incendio e della coltivazione a
rotazione di porzioni di foresta], queste piante prosperano e attirano
animali. Sia negli orti coltivati che nei terreni abbandonati da poco,
gli animali, con le loro feci, disseminano varie piante.
Dov’è qui il “disturbo” antropico?
L’influenza “contaminante” dell’essere umano secondo la concezione
moralista, di tipo religioso, dell’ambientalismo ideologico plasmato a
fine Ottocento negli Usa sotto l’influenza del puritanesimo manicheo
(di qui il male, l’impuro, il peccato, di là il bene, il puro, la
virtù) ma, nel pensiero di H.D. Thoreau, il precursore
dell’ambientalismo, influenzata anche da Rousseau (la “natura” è buona,
la “società” è cattiva) e fatta propria dai moderni movimenti
conservazionisti.
E cosa dire della contestazione, da parte
degli aborigeni australiani, della parchizzazione della “natura
incontaminata” australiana? Riportiamo integralmente una preziosa
citazione tratta, ancora, Descola (op. cit., p. 49)
Affermare che i
popoli che vivono di caccia e di raccolta percepiscono il loro
ambiente come “selvaggio” – in rapporto a una domesticità che peraltro
faremmo ben fatica a definire – equivale anche a negare loro la
consapevolezza di modificare, nel corso del tempo, l’ecologia locale
attraverso le proprie tecniche di sussistenza. Da qualche anno, per
esempio, gli Aborigeni contestano al governo australiano l’uso che
viene fatto del termine “wilderness” per qualificare i territori che
occupano, il che permette molto spesso di crearvi delle riserve
naturali contro il loro volere. Con le sue connotazioni di terra
nullius, di natura originaria e tutelata, di ecosistema da proteggere
contro il degrado di origine antropica, il concetto di “wilderness”
esclude chiaramente la concezione dell’ambiente che gli Aborigeni
hanno forgiato e le molteplici relazioni che hanno intessuto con esso,
ma soprattutto ignora le sottili trasformazioni a cui l’hanno
sottoposto. Come diceva un leader jawoyn del Territorio del Nord quando
una parte delle loro terre fu convertita in riserva naturale: “Il
Parco nazionale Nitmiluk non è uno spazio selvaggio […], è un prodotto
dell’attività umana. È una terra che abbiamo plasmato nel corso di
decine di millenni – attraverso le nostre cerimonie e i nostri legami
di parentela, gli incendi e la caccia”. E chiaro che per gli Aborigeni,
come per altri popoli che vivono di predazione, l’opposizione tra
selvaggio e domestico non ha molto senso, non solo perché mancano le
specie addomesticate, ma soprattutto perché la totalità dell’ambiente
percorso viene abitata come una dimora spaziosa e familiare,
trasformata nel corso delle generazioni con una tale discrezione che
il tocco apportato dagli occupanti che vi si sono succeduti è diventato
quasi impercettibile.
Senza andare in Amazzonia, o nel centro
dell’Australia, vogliamo ricordare che, per le comunità alpine, lo
spazio del villaggio è rappresentato da tutto quello che, in uno spazio
concentrico ad anelli, esclude solo le rocce e i ghiacciai
inaccessibili. Vogliamo ricordare che si raccoglieva il “fieno
selvatico” su pendii ripidissimi, aggrappandosi con una mano a cespugli
o rocce e, con l’altra, usando un corto falcetto. Era un modo per
strappare risorse e per coltivare anche praterie naturali dove gli
animali domestici, spesso neppure le capre, potevano pascolare. Boschi,
pascoli, “montagne da fieno selvatico”, tutto rappresentava lo spazio
socializzato, uno spazio “addomesticato” anche con la marcatura
simbolica (cumuli di pietre, croci incise nella roccia, croci,
santelle).
I parchi non funzionano come vorrebbero farci credere
Uno studio (fonte)
del Museo di Storia Naturale di Londra, condotto a livello planetario
su che tiene conto delle variazioni dell’indice di biodiversità
(Biodiversity Intactness Index – BII) sviluppato dallo stesso Natural
History Museum, dimostra che l’attuale approccio all’implementazione
del modello 30 per 30 sulla terraferma non protegge adeguatamente le
aree che forniscono i servizi ecosistemici più essenziali per le
persone.
Oltre sei
miliardi di persone dipendono dal 30% di terra che fornisce i servizi
ecosistemici più critici. Attualmente, solo il 22% della terra che
fornisce questi servizi si trova all’interno della rete globale di aree
protette. All’interno di questo 22%, l’integrità della biodiversità sta
diminuendo più rapidamente di quanto non accada all’esterno delle aree
protette. Ciò significa che gli attuali sforzi di conservazione non
stanno funzionando per sostenere questi servizi ecosistemici critici e
rischiamo di perderli (Ivi).

Reintroduzione di orsi, importati dalla Slovenia nel Parco Adamello Brenta
L’Indice di biodiversità, calcolato dal
Museo, è diminuito dell’ 1,88% tra il 2000 e il 2020, da 61.26% a
59.37%. Nelle aree protette l’indice era pari a 71,6% nel 2000 ma è
diminuito del 2,01%; ancora di più è diminuito nelle aree protette che
forniscono i servici ecosistemici cruciali (- 2,12%). I parchi
acquisiscono un capitale di biodiversità che, anche nelle zone
apparentemente disabitate, è in qualche modo stato creato e custodito
dalle popolazioni indigene (nomadi o stanziali). Quanto la governance
passa ai tecnocrati verdi, influenzati dai paradigmi dell’ideologia
conservazionista, la biodiversità diminuisce. Spesso perché le
popolazioni vengono espulse (come ne caso dei primi parchi americani) o
marginalizzate, costrette a modificare le loro forme di vita,
pesantemente limitate nelle loro attività, sino ad abbandonarle o
stravolgerle (come nei nostri parchi).
Turismo nei parchi della tigre
Oltre alla
protezione delle specie, dobbiamo porre maggiore attenzione alla
conservazione efficace del territorio che fornisce i servizi
ecosistemici più critici per le persone. Dobbiamo andare oltre la
designazione statica di aree che soddisfano semplicemente i requisiti
minimi o si concentrano su specie o risultati specifici. Invece,
dovremmo andare verso un processo più dinamico e attentamente
monitorato, tramite il quale le aree possono essere “gestite” fino a
uno stato di maggiore resilienza (Ivi).
Turismo
del parco di Kaziranga, dove le guardie, sponsorizzate dal WWF, sparano
a vista ai sospetti bracconieri (centinaia di casi di esecuzioni
extragiudiziali)
Conclusioni
L’ambientalismo, la veste ideologica dietro
la quale oggi viene celata tanta parte della “lotta di classe
dall’alto” da parte delle élites nei confronti dei ceti popolari e
delle popolazioni indigene e rurali, pretende di mettere le grinfie su
pretesi “territori naturali”. Pensati come tali alla luce di un filtro
deformante ideologico.
La finalità delle strategie di parchizzazione, come il 30 30, è quella
di imprimere il sigillo delle “aree protette” a territori sempre più
vasti, applicare una forma di controllo del territorio e di
colonialismo culturale che determina il disempowerment delle
popolazioni locali. Gli ambientalisti si sentono legittimati a
soggiogare le popolazioni in quanto portatori di una missione salvifica
para religiosa e in forza di una superiorità morale e antropologica
(oggi malcelata da finti proclami buonisti) nei confronti degli
indigeni e dei “villici”.
Se gli aborigeni australiani si ribellano alla creazione, contro il
loro volere, dei parchi protestando che, per loro, non sono affatto
“wilderness” ma territori da loro plasmati in modo sottile, cosa dire
dei barbari verdi che applicando il mito arcaico dei parchi vorrebbero
trasformare in “wilderness” l’Appennino centrale (e poi le Alpi),
intensamente segnate da millenni di civilizzazione?