(18.02.10) Abbiamo chiesto
a Giuseppe Pallante, responsabile del Centro studi interdisciplinare
di zooantropologia di Trento, di fornirci qualche 'chiave
di lettura' per capire il perché delle reazioni che
hanno portato all'allontanamento del popolare personaggio
Bigazzi ovvero le
Candide in salsa italiana
Ma
quale terribile tabù ha infranto Bigazzi da sgomentare
il pubblico e costringere la Rai a cacciarlo?
di
Giuseppe Pallante
Il
gatto di Bigazzi sgomenta la platea televisiva e non solo, nessuno in realtà
avrebbe pensato ad una reazione così massiccia di critiche verso l’ovvio
espresso dal telegenico scrittore.
Gli
autori del programma hanno preso le distanze dalle affermazioni espresse da
Bigazzi e poi massicciamente gli stessi ascoltatori hanno fatto sentire le loro
critiche, ma in tutta sincerità si fa fatica a pensare ad un italiano a cui non
sia noto qualche detto popolare o storia culinaria strapaesana condita dalla
presenza del felino.
Allora
perché questa sollevata di scudi che in altri tempi avrebbe al massimo fatto
sorridere? Che i Todos Caballeros
italici siano diventati tutti all’improvviso vegetariani si fa fatica a credere,
e ancor meno credibile risulta l’offesa verso i tanti animi gentili cui sta a
cuore il felino in padella, ma allora perché tutto questo? Proviamo a fornire
alcune riflessioni collegate tra loro da un comune filo che qui anticipo nella
frase c’ero, ma non sapevo in altre
parole l’assenza, il vuoto alimentare contemporaneo.
La
facile equazione gatto vs coniglio
(quello sì che è ammesso al consesso dell’italica tavola) può aver dato
fastidio ai ristoratori specializzati nel cucinare il tradizionale spezzatino e
fatto insinuare l’ipotetica accusa nei loro confronti di facili contraffazioni
(ad esempio un ascoltatore radiofonico affermava che è difficile dar credito al
ristorante che propone coniglio per 50 pasti e oltre lanciando sospetti in
merito al suo approvvigionamento…!) .
Ma
attenzione se si riconosce in linea di principio un ipotetico ristoratore
fraudolento, bisogna ammettere un consumatore quanto meno sprovveduto in
materia, se non proprio delle qualità organolettiche della specie quanto meno
nel riconoscimento visivo che differenzia i due animali.
Insomma
il primo conseguente effetto nell’inserire in padella il nobile gatto proposto
da Bigazzi con il plebeo coniglio è quello di incrinare quel rapporto di
fiducia reciproca tra chi cucina e chi mangia.
Una
fiducia quotidiana basata non sul reciproco riconoscimento in primis dei
ruoli - tu mi rifornisci di cose buone,
io consumo da te perché riconosco le tue qualità - ma al contrario esclusivamente
sul non detto o per essere più in
sintonia con i tanti benpensanti che hanno protestato si potrebbe definire del si può fare ma non si deve assolutamente
sapere, un accordo bipartisan in
assoluto tra il vivandiere e il nostro stomaco senz’altro aggiungere.
Se
a ciò si aggiunge che ad essere coinvolta in questo gioco delle parti oggi è
oltre la metà della popolazione italiana che quotidianamente consuma almeno uno
dei due pasti fuori si può comprendere quale allarme si deve essere insinuato
tra i telespettatori.
Di
fatto è la non conoscenza (umana? professionale?) del cuoco che cucina, del fornitore e prima
ancora dell’allevatore, ma in ultima analisi nostra e soltanto assolutamente
nostra a far tremare gli equilibri.
Equilibri
sempre più incerti perché non si conosce il cuoco collocato in altra sala
inaccessibile al consumatore, incerti perché dobbiamo fidarci di una filiera
alimentare giustificata sanitariamente ma che nulla aggiunge alla nostra
conoscenza, incerti perché consapevoli di quanto poco sforzo produciamo nella
ricerca di un rapporto umano prima ancora che gastronomico verso il cibo.
Chi
“insinua”, ovvero il Bigazzi di turno, non è mai ben visto nella nostra società
perché rompe l’armonia delle parti, un gioco perverso che permette ad
avvenimento non previsto, ma accaduto, di trincerarsi sempre dietro il …mai saputo, …non ne ero a conoscenza,
quale unico strumento di ipocrita difesa.
Ora
se in linea di principio si può ammettere una così grossolana contraffazione
quali e quante altre sono possibili che finiscano nel nostro cibo quotidiano?
Ecco
il vero errore di Bigazzi, aver svelato l’ipocrita cavallo di Troia dietro cui
si celano i nostri quotidiani ignorati e ignoranti sensi di colpa, l’aver messo il dito nella
piaga del quotidiano anonimo, ignoto, della mensa dell’italiano medio. Un
italiano medio consapevole della sua mediocrità: mediocrità di rapporti
(fiducia) , mediocrità di sapori, mediocrità di storia.
E
sì proprio di storia, infatti un'altra nota dolente dell’intervento fuori luogo
di Bigazzi è stato proprio quel suo richiamare alla memoria i tempi andati, un
tempo di miseria e di carestie che trasversalmente ha caratterizzato da sempre
l’Europa e che oggi si vuole celare.
Il
povero con i suoi cenci, l’immigrato con il suo italiano incerto ci sono troppo
vicini per essere accettati, così proprio come il nostro gatto di casa che
troppo pochi anni ha trascorso sui divani e molti sotto la panca in cerca del
sorcio.
Probabilmente
se Bigazzi avesse menzionato un'altra specie - che so un cane - la reazione non
sarebbe stata la stessa perché troppo distante dalle tradizioni alimentari e
troppo radicato il riconoscere il suo ruolo di fedele compagno a cui nessun
cuoco, anche il più abietto verrebbe mai il coraggio di mettere in padella.
Ma
il gatto no, il gatto è credibile perché credibile è nella nostra memoria
storica e nel nostro passato prossimo di cui tutti volutamente vorremmo fare a
meno, e di cui, come tanti novelli Macbeth, inutilmente laviamo le mani dal
sangue senza mai realmente pulirle.
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