Dagli
ambientalisti da salotto solo demagogia anticaccia,
ma la posta in gioco è la gestione multifunzionale dello
spazio agrosilvopastorale in opposizione alla wilderness
La riforma
della 157/92 è occasione per ripensare la fauna selvatica come
risorsa per integrare il reddito agricolo e sostenere
lo spazio rurale
di
Michele Corti
L'arretratezza culturale degli
ambientalisti italiani è sconcertante. Mentre in Europa
gli ecologisti si alleano ai cacciatori e alla componente
non industrializzata dell'agricoltura per fare 'fronte
rurale', in Italia la prossima discussione parlamentare
della riforma della caccia viene vista come occasione
per rilanciare una logora e antiecologica ideologia
anticaccia.
'Dagli alla doppietta' è un
comodo alibi per fare del (finto) ambientalismo senza
rischio di urtare i poteri economici forti e perdere
sponsor.
Di fronte al Disegno di legge
unificato presentato dal Sen. Orsi per modificare una
legge sulla caccia ormai invecchiata (la 157 è
del 1992, ma rispecchia una contesto socio-culturale
ed ambientale ancora più datato ) parlano
di 'caccia selvaggia' di 'deregulation' di 'hobby crudele'.
Fanno credere che la fauna selvatica sia in pericolo,
che la caccia sia una barbarie e la vera minaccia all'
'ambiente'.
In realtà non ci vuole molto
a capire che dove c'è l'agricoltura intensiva delle
monocolture, dei pesticidi, dei campi immensi livellati
senza un cespuglio, un argine, una siepe che sia una la
caccia non può esercitarsi. Qui la selvaggina non può
trovare nascondigli, non può riprodursi; resta il surrogato della
'pronta caccia', su capi d'allevamento, cresciuti in
gabbie e voliere e ingozzati a mangime. Dove impera
l'agricoltura industriale solo poche specie opportuniste
trovano un habitat idoneo: gazze, cornacchie grigie,
con frequentazioni di piccioni e gabbiani pendolari.
Vi sono poi volpi che si nutrono in discarica e ...
nutrie (flagello degli argini).
Il cacciatore è alleato dell'agricoltura
biologica che risparmia gli insetti e lascia nicchie
per l'avifauna (e non solo). Il cacciatore è alleato
del contadino di montagna che, continuando ad applicare
tecniche estensive di agricoltura, zootecnia, pastoralismo,
selvicoltura mantiene un habitat 'equilibrato', ideoneo
al mantenimento di numerose specie animali. Dove gli
spazi a prato e pascolo sono alternati alla foresta
e la copertura vegetale prevede - come in un mosaico
- cespugli, erbe alte, boschine, praterie basse lì vi
è possibilità di nutrimento, rifugio nidificazione per
numerose specie. Un ambiente di montagna (e di collina)
gestito in modo multifunzionale da parte di una pluralità
di attività 'sostenibili' rispettose le une delle altre
(utilizzo boschivo, agricoltura, pastorizia, caccia,
attività ricreative) consente di massimizzare vantaggi
ambientali (fissazione di CO2, regimazione delle acqua,
biodiversità) ed economici. In questo equilibrio il
prelievo venatorio è non solo utile ma indispensabile.
La proliferazione della fauna
selvatica negli ultimi 15-20 anni ha determinato localmente
pressioni insostenibili sulle attività rurali residue.
Una legge venatoria rigida e orientata a forte protezionismo che
senso ha in questo contesto? Ovviamente gli ambientalisti
da salotto non si rendono conto che vivere in montagna
con l'assedio di cervi, cinghiali, volpi, faine non
è facile. Devi blindare l'orto, non pui seminare le
patate, se hai un albero da frutta devi incamiciarlo
di rete metallica. Il pollaio se non è corazzato è 'spazzato'.
Quanto al fieno ne perdi un bel po' pappato dei cervi,
quanto alle vigne... Per non parlare degli incidenti
stradali. Ai verdi, ai signorini di città, non
importa nulla. Per loro l'intruso è l'uomo. Vorrebbero
una montagna senza 'disturbi antropici', il 'teatro
naturale' di prede e predatori, orsi, lupi, linci. Il
tutto sotto il controllo della costosa 'burocrazia verde'
e con il malcelato intento di assumere il controllo
politico del territorio.
L'attività venatoria d'altra
parte sino ad oggi ha mantenuto un rapporto ambiguo
con la ruralità. La matrice culturale della caccia è
duplice: da una parte la caccia signorile, oppressiva
delle popolazioni, monopolizzatrice, dall'altra la caccia
popolare (compreso il bracconaggio), attività integrativa
ma indispensabile per garantire un apporto proteico
indispensabile ... e fortemente radicata nella
cultura popolare. Il capriolo 'rubato' al signore,
l'uccelletto catturato con l'archetto, la marmotta cacciata
in alpeggio erano parte importante della dieta.
Ora è vero che certe forme di caccia sono anacronistiche
ma d'altra parte è anche vero che la caccia è tornata
necessaria per contenere la fauna problematica. E se
questa caccia diventa attività economica ben venga,
questa è la multifunzionalità!
Il punto è che per divenire
attività pienamente inserita nel contesto rurale la
caccia dovrebbe: 1) perdere il carattere di hobby più
o meno di lusso per essere riconosciuta attività
socialmente utile a garantire l'equilibrio ecologico
e in grado di esercitare un ruolo economico trasformando le
risorse agrosilvopastorali in reddito; 2) stabilire
un rapporto più positivo con le attività agricole: il
diritto ad entrare in un fondo agricolo deve essere
compensato da una ricaduta economica che riconosca che
il selvatico - almeno in molti casi - ha utilizzato
spazi e risorse alimentari che non sono 'di nessuno'
o 'gratuite' ma che sono inserite in complessi di beni
agrosilvopastorali che subiscono prelievi e danneggiamenti
da parte dei selvatici.
Le associazioni venatorie FIDC,
ANLC, ENALCACCIA, ANUU, CONFAVI) nella loro 'posizione congiunta' del
9 luglio sul testo unificato delle proposte
di modifica alla 157/92 hanno riconosciuto che
la fauna selvatica è una risorsa che deve servire a
integrare il reddito agricolo. Un buon punto di partenza
che speriamo si traduca in norme chiare e innovative.
Le associazioni venatorie propongono
di ampliare il ruolo dei cacciatori (e degli agricoltori
muniti di licenza) nelle attività di controllo faunistico
nonchè di l'elenco della fauna un tempo definita
'nociva' non oggetto di protezione. Si tratta di
nutrie e piccioni che rappresentano veri e propri flagelli
per l'agricoltura. Gli ambientalisti vorrebbero che
il controllo fosse eseguito solo da personale stipendiato,
non rendendosi conto che certi squilibri implicano interventi
che vanno al di là delle possibilità di guardiacaccia
e guardiaparco. O paga Pantalone o non se ne fa nulla
è la logica 'verde' del controllo faunistico.
Un'altra proposta del mondo
venatorio che non può che essere accolta positivamente riguarda
l'istituzione delle aree protette. Esse non potrebbero
più essere istituite qualora i proprietari o
conduttori dei fondi agricoli rappresentanti la maggior parte del territorio
interessato, manifestino il loro diniego. Significa democrazia, ma alla verdocrazia
va di traverso.
Sulla
base di quanto detto sul ruolo potenzialmente positivo
dell'attività venatoria a favore del mantenimente della
vitalità dello spazio rurale non si può poi non essere
d'accordo anche su altri due punti: 1) che
la percentuale di territorio agro-silvo-pastorale da
precludere all'attività venatoria non debba superare il 30% (20% in Zona
Alpi); 2) che le aree demaniali siano inserite nella programmazione faunistico venatoria
eche quelle facenti parte della rete ecologica comunitaria
“Rete NATURA 2000” continuano a far parte del
territorio soggetto a programmazione faunistico venatoria.
Considerato
che la caccia, correttamente gestita, non solo non danneggia
gli equilibri ecologici ma può anche contribuire a mantenerli,
non ha nessun senso (se non quello di condurre una guerra
ideologica) escludere l'attività venatoria su buona
parte del territorio.
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