Occasione
importante per
dare meritata visibilità nel contesto di un evento che richiama a
Bergamo formaggi e operatori del formaggio da tutto il mondo, agli
abili casari di montagna e ai formaggi
dall’intenso profumo di storia antica e contemporanea. Veri
Prìncipi delle Orobie!
Nell'ambito di
Forme, che alla Fiera di Bergamo prevede
una mostra mercato aperta a tutti e una manifestazione aperta ai soli
operatori del settore, ci saranno anche eventi a Città alta, al Palazzo
della Ragione e nella sottostante Loggia. In particolare il 19 e 20
l'esposizione con degustazioni (aperta al pubblico e gratuita) Cheese
Valleys dedicata alle eccellenze casearie delle Cheese Valleys, il progetto che
candiderà Bergamo, insieme ai territori delle province di Lecco e
Sondrio, come Città Creativa UNESCO per la Gastronomia.
(12.10.19) Dal
17 al 20 ottobre prossimi, Bergamo diventa la vetrina dei formaggi di
tutto il mondo. “Forme”, il progetto di valorizzazione dei “Principi
delle Orobie”, ha per così dire sdoganato i formaggi prodotti su queste
nostre montagne, come pure nelle cascine della piana lombarda,
certificando un posto tutt’altro che marginale nel comparto
lattiero-caseario italiano, riconosciuto a livello internazionale.
Bergamo è di fatto la Capitale Europea dei Formaggi, con le sue nove
D.O.P. casearie (rispetto alle cinquanta che si contano
complessivamente in Italia) e si candida a diventare Città Creativa
Unesco per la Gastronomia. Ce n’è quanto basta. Ci attendono quattro
giorni di iniziative, laboratori, degustazioni, incontri, esposizioni
di prodotti caseari provenienti dai vari continenti, giunti sino a
Bergamo per partecipare alle “Olimpiadi del Formaggio”, che
culmineranno (18 ottobre) con la proclamazione ufficiale del formaggio
“Campione del Mondo”. Si confronteranno grandi brand con
prodotti fatti a mano dai piccoli artigiani del cibo, mentre
gastronomia e territorio, cultura e turismo avranno modo di offrire
coniugazioni di esperienze e obiettivi comuni, a confronto dalle
diverse regioni del pianeta.
Forme,
2019
Ogni
formaggio, fresco o stagionato, a pasta cruda o cotta, ha una propria
storia, che spesso si perde nella notte dei tempi; è il frutto
dell’ingegno dell’uomo, un concentrato di abilità e di saperi, di
esperienze e vissuti individuali, ma anche lezione di comunità e
specchio della vita e del lavoro di generazioni di uomini e donne
rurali. Prodotti che si perfezionano ed evolvono in relazione ai
bisogni sociali e alle aspettative mutevoli dei consumatori. La parola
“formaggio” è antica, come del resto l’alimento che la identifica: formos, presso
gli antichi Greci, indicava il contenitore dove veniva messo il latte
cagliato, essenzialmente di origine ovina, affinché prendesse la forma.
Numerose fonti storiche ci riconducono alla pratica della lavorazione
del latte già dal terzo millennio a.C., in Mesopotamia.
La
preparazione della cagliata in alpeggio. Fotografia di Pepi Merisio
Per
quanto ci riguarda più da vicino, di fronte al proliferare sul
territorio bergamasco di una cultura casearia così diffusa e articolata
in un’ampia gamma di prodotti e di sapori, non è scontata la domanda
sul retroterra storico così provvido da rendere la terra orobica
congeniale alla produzione di formaggi. I prodotti alimentari sono il
frutto di antiche sedimentazioni e sulle Orobie la tribù di origine
celtica degli Orobi, proveniente dall’Europa centrale, che nel IV
secolo a.C. colonizzò pacificamente le valli bergamasche, lecchesi e
comasche, praticava l'allevamento bovino, sapeva lavorare il latte,
produceva quindi formaggi e burro, ed era abile nell’agricoltura,
soprattutto nella coltivazione dei cereali anche sui ripidi versanti di
montagna, che iniziarono a sfruttare attraverso la costruzione di
terrazzamenti con muri a secco, o cigli erbosi, e terrapieni. Quella
popolazione si nutriva di latte, formaggi e di carni di tutti i tipi,
soprattutto di maiale, sia fresca che salata (Strabone, Geografia Universale,
IV, 4,3).
Stracchini
Diverse
parole ancora oggi in uso nel linguaggio vernacolare corrente in campo
zoo-caseario, come pata
(pezza), paröl
(paiolo), bar(montone),
bàrech
(recinto) bessòt
(pecora), schèla
(campanaccio),... hanno un’evidente attinenza celtica. Plinio (Historia Naturalis,
libro III, 17), attorno al 77 d.C., descrive l’ottimo formaggio
prodotto nella pianura lombarda e annota la tecnica usata dalle
popolazioni che si erano stanziate tra l’attuale Valsassina, l’alta
Valle Imagna e la Valle Taleggio: l’impiego di latte vaccino, il tipo
di lavorazione, la forma del caseus negli stampi quadrangolari
di legno, la salatura,… modalità in gran parte ancora oggi un uso. Il caseus era
un formaggio fresco, ottenuto a pasta cruda, di media stagionatura,
simile allo stracchino di oggi, che dalle vallate orobiche, patria di
casari abilissimi e di nota fama, si diffuse ben presto in tutta la
piana lombarda, attraverso l’azione dei bergamini, allevatori
transumanti dal monte al piano, che nel periodo invernale scendevano
con i loro armenti alla Bassa per consumare le riserve foraggere, dando
vita a specializzazioni zoo-casearie, produttive e commerciali, non
indifferenti, tra le quali spicca, per l’appunto, la vendita e la
distribuzione di formaggi, caratterizzando e spesso monopolizzando i
mercati cittadini. Forme di nomadismo stagionale connesse alla
transumanza pastorale e bergamina.
Gli
stracchini di Carmela, 2016. Fotografia di Alfonso Modonesi
Un
altro prodotto associato alla cultura degli Orobi è la robiola, o
“orobiola”, un tipico formaggio lombardo fresco simile a una vellutata
crema di latte. Anche Ateneo (Dipnosophistarumsive Coenae sapientum, libri
XV, a. 204 d.C.), relazionando circa gli usi e costumi e dotti conversari di
tavola tenutisi in casa del ricco romano Laurentio, illustra il
famoso cacio morbido
della pianura presso Mediolanum:
anche qui, i processi di preparazione e maturazione descritti sono
molto simili a quelli in uso ancora oggi nella preparazione degli
stracchini. In seguito diverse altre fonti richiamano la tradizione
casearia del cacio lombardo, da Cicerone a Marco Catone (De agri coltura),
sino a Venanzio Fortunato. Quest’ultimo, caduta Roma, nel VI secolo d.
C., esalta il celebre
cacio lombardo, fatto di latte fresco di vacca, raccolto in stampi
foderati di lino (la pàta, ossia il telo di lino entro
il quale è raccolta la pasta fresca per lo spurgo). Poggiati
su stuoini gli stampi, si attende che il formaggio sia asciutto per poi
strofinarlo con sale e lasciar maturare tutto per trenta giorni. Il
cacio è di color avorio paglierino, con sfumature di un lieve colore
rosato.
Mungitura
a mano in alpeggio. Fotografia di Emilio Moreschi
Si
potrebbero citare diverse altre fonti sulla lavorazione del cacio
lombardo, dall’agronomo romano Marco Terenzio Varrone (De Rustica,
37 a.C.), che illustra i principali tipi di formaggi consumati nel II
secolo a.C. (vaccini, caprini e ovini freschi e stagionati),
documentando anche come il gusto dell’epoca fosse rivolto ai formaggi
ottenuti con il caglio di lepre o capretto, sino allo scrittore romano
di agricoltura Lucio Columella, che nel suo De re rustica
(I sec. d.C.) illustra le tecniche di trasformazione casearia e l’uso
dei coagulanti vegetali. In seguito diversi altri autori si sono
occupati dell’argomento, sia nel periodo medioevale, che nella società
moderna.
La
casèra d'alpeggio. Fotografia di Emilio Moreschi
Mi
preme qui sottolineare la probabile continuità storica tra lo
stracchino di oggi, il caseus
e
il cacio orobico di ieri, veri e propri beni culturali, riconoscendo
all’antica civiltà di matrice celtica degli Orobi il grande merito di
aver dato origine a un processo di colonizzazione sapiente delle
vallate a Nord di Bergamo, nella fascia prealpina tra Brescia e Lecco;
una colonizzazione che ha alle spalle duemilacinquecento anni di
storia, portatrice di identità e produzioni agroalimentari ben definite
e circoscritte entro chiari territori. Quei primi insediamenti umani,
attraverso la pratica pastorale e zoo-casearia, l’attività agricola e
di “bonifica” di ampi territori montani, hanno reso possibile e
trasmesso la vita e il lavoro in montagna, che continua ancora oggi.
Nella produzione dello “stracchino all’antica” (oggi Presidio Slow
Food), ad esempio, si rinnovano antiche conoscenze, abilità artigianali
non comuni dei casari di montagna, pratiche e comportamenti in grado di
rinnovare ogni giorno quel “miracolo” esperienziale che, millenni or
sono, aveva casualmente trasformato il latte in una soffice e gradevole
pasta casearia, dalla quale sono scaturiti poi un’infinità di formaggi
(a pasta cruda e a pasta cotta, teneri e duri, freschi e stagionati,
dalle molteplici forme quadrate, e rotonde, cilindriche e piramidali,…).
Stracchini
all'antica delle valli orobiche
E
se quassù, nelle Orobie, quell’antico “miracolo” si rinnova ancora
oggi, tutti i giorni, attraverso il lavoro di centinaia di casari,
dentro le piccole casère
gestite
dalle famiglie rurali, ciò è dovuto al viscerale radicamento dei gruppi
sociali nelle rispettive contrade, veri e propri forzieri e contenitori
di affetti, memoria, lavoro e storia. Le nove D.O.P., infatti, nella
geografia casearia del territorio, quindi nei rispettivi ambiti
socio-economici, rappresentano la punta emergente di un grande iceberg
assai più esteso, costituito da migliaia di micro aziende, silenziose e
operose, come altrettanti pezzi di un immenso puzzle che, insieme,
formano un disegno colorato e particolareggiato della vita e del lavoro
in montagna, definiscono le pratiche di trasformazione del latte,
diffondono nuovi sapori e promuovono attività rurali assai preziose e
irrinunciabili. La storia continua...
Cibo
territoriale
La
gioia del primo cestino di castagne... (05.10.19) L'albero del pane, come
era chiamato dai nostri vecchi, ha costituito l'alimento insostituibile
per una lunga serie di generazioni di popolazioni montanare. Ogni anno
le prime castagne scaldano il cuore. Cibo per il corpo ma anche per
l'amima perché ci riconnettano a una vita di lavoro e fatica ma anche
di valori solidi, di fiducia nel futuro, di spirito di continuità tra
le generazioni. Piantare un albero di castagne era un investimento nel
futuro perché è una pianta longeva, anche se chiede cure assidue e per
portare in tavola i frutti del castagno si richiede tanto impegno:
prima. durante e dopo la raccolta.
La
dieta alpina ora in un libro (13.05.18)La
dieta salutare che rinasce nel campo e sul pascolo, occasione di
rinascita agricola per la salute del corpo e delle comunità.