Ruralpini 

Condividi                        
Cibo territoriale  /  Cultura ruralpina



Ecco come muore un gigante


di Antonio Carminati


Ecco come muore un gigante
(la concimaia)


(22.01.19)
Poco meno di un mese fa, durante il recupero dell’ultimo recinto elettrico di mio figlio (filo e picchetti), utilizzato per l’alpeggio autunnale delle sue vacche grigio-alpine, nel pratone del Càlf, un tempo patria dei Ghélme, un ramo della famiglia Rota di antica tradizione bergamina, ho assistito impotente e quasi impietrito all’agonia di un gigante. Quanta tristezza!... Si tratta del complesso monumentale di architettura rurale – casa e stalle annesse – ben adagiato ed esposto a mezzogiorno sul pianoro della parte terminale di monte della dorsale che, dalla Còsta de Canìt, sale ai Pidisì e più a Nord ancora, per giungere ai piedi del monte Sécol. È la dorsale che, nel territorio di Corna Imagna, separa a oriente la Al de Cögiarèi dalla Al de Spàdola a occidente, in direzione del centro di San Simù e dei villaggi limitrofi di Locadèl e Föppià. Da quella posizione dominante, con lo sguardo è possibile circumnavigare tutta la valle, dai Canti di Fuipiano sino alla chiesetta di San Piro e oltre, seguendo la linea di displuvio che, dal Roccolo degli Zois, disegna una linea obliqua all’orizzonte, secondo il profilo della montagna che si sviluppa sino alla Colèta. Più da vicino, invece, calpestando il terreno di prossimità, in loco dicto de Calvi, è un susseguirsi di prati ancora ordinati, pascoli e boschi, stallette e fienili minori disseminati qua e là, fontane e caselli, staccionate che delimitano sentieri e surtìde. Lì appresso, a un tiro di schioppo verso Sud, c’è persino un antico roccolo, ol Ròcol de Bàle, con tondi e passate, di proprietà dei Nodèr: così è tuttora conosciuta la famiglia Locatelli della Corna, di gentiluomini e letterati, notai e avvocati, sacerdoti e imprenditori. L’insieme di tutti questi principali elementi attribuisce un senso compiuto e organizzato all’unità produttiva di monte, dove più famiglie, un tempo, vivevano tutto l’anno. Quassù, in quest’isola culturale strappata al bosco da tempo immemorabile e messa a coltura, le persone nascevano, vivevano e lavoravano, morivano anche: da contrada abitata tutto l’anno dalle famiglie Moreschi e Cassi, Rota Ghélme e Cuchìne de Saiàcom, negli ultimi due secoli è stata utilizzata solamente durante l’alpeggio estivo, quando ormai la società rurale stava tramontando definitivamente e venivano meno i suoi riferimenti atavici. L’insediamento umano è ripartito in due settori: quello più a Nord è costituito da una serie di case, stalle e fienili allineati sul fronte dell’antica mulattiera selciata che, da Cà Gavaggio, saliva per oltrepassare la montagna e raggiungere così Blello e le valli Brembilla e Taleggio, attualmente ampliata e trasformata in una strada carrale bianca. La maggior parte di tali edifici, accorpati l’uno a ridosso dell’altro con pareti divisorie in comune, è stata ristrutturata negli ultimi decenni e di fatto trasformata in piccole abitazioni di montagna, utilizzate poche settimane durante l’anno, ormai solo l’estate. Purtroppo conservano pochissimi elementi architettonici originari, fatta eccezione per la conformazione urbanistica e la distribuzione degli spazi esterni. All’interno di quegli antichi edifici di pietra, gran parte delle stale de l’vàche sono state trasformate in cucine, mentre i fienili soprastanti in camere da letto. Più sotto, invece, a meno di duecento passi di distanza, separato da un rigoglioso pianoro a prato stabile, resiste, in condizioni di avanzato degrado, il complesso rurale principale, uno dei nuclei più antichi del villaggio di San Simù, risalente al periodo tardo medioevale. È un edificio massiccio, ricco di storia, ancora in piedi, nonostante l’incuria e l’abbandono subiti: il degrado è evidente per le crepe nei muri e il tetto in piode “imbarcato” in diversi punti, il cedimento di alcune travi portanti, attaccate da continue infiltrazioni d’acqua piovana ormai non più sotto controllo. Già di proprietà della famiglia Berizzi, l’edificio è costituito da due corpi in linea, casa a occidente e stalla a oriente, con soprastanti locali adibiti rispettivamente a camere da letto e a fienili. Finestrelle quadrate di piccole dimensioni, contornate da lastre di pietra e dotate di inferriate sulla parte abitativa, mentre sui fienili compaiono solo minute feritorie per l’aerazione, attribuiscono all’edificio le sembianze di un piccolo luogo fortificato. Al centro della facciata dell’antica casa, spicca al piano terra il robusto portale ad arco con i due antoni lignei chiodati di antica fattura. Al livello del solaio, al primo piano, sono ancora evidenti le fessure per l’appoggio delle travi della lòbia, ormai caduta da decenni e mai più ricostruita. I tetti a due falde, su livelli diversi, ricoperti da robuste lastre di pietra locale, attribuiscono al manufatto forza e compattezza non comuni, anche se diverse parti, soprattutto in prossimità della colmégna sono stati temporaneamente ricoperti, a più riprese, da teli di plastica o da lamère, per contenere le infiltrazioni d’acqua.

Sino ai primi lustri della seconda metà del secolo scorso, l’edificio, massiccio, è stato utilizzato e abitato dagli ultimi bergamini del villaggio, ol Valentino Ghélmo e ol Giulio, allevatori di vacche bruno-alpine e produttori di stracchini. Essi si trasferivano lassù almeno tre volte durante l’anno: in primavera per il primo alpeggio, l’estate per la fienagione e durante l’autunno, portando al pascolo le rispettive “bergamine” nell’ultima erba fresca di stagione, tersöl e röböt. Nel frattempo raccoglievano castagne e noci e Giulio si dedicava all’altra grande passione della sua vita, la caccia, andando a pastüre, costruendo improvvisati froscadì, oppure attendendo dalla bösaröla söl pòrtech dol fé, con lo schioppo a portata di mano, il sopraggiungere di mèrle, dùrcc e eschère. Sono stati due degli ultimi depositari delle conoscenze e dei segreti di quei luoghi, che per essi hanno rappresentato spazi vitali irrinunciabili, parti integranti della loro stessa esistenza: non potevano fare a meno di quegli ambienti, come delle loro vacche e degli stracchini. Essi stessi facevano parte, senza saperlo, della medesima unità ambientale e umana, protagonisti del loro tempo ed espressione viva e concreta di una storia assai più grande, primi attori e artefici di un modello di vita durato secoli e giunto con loro a conclusione. Un tutt’uno inscindibile tra natura, uomo e ambiente, tra il creato e l’evoluto, costruito da uomini e donne coraggiosi e di grandi vedute e speranze.
Assieme con Mirella, mia moglie, e con d’ü brassöl de pechècc sö i spàle, prima di fare ritorno a casa, abbiamo girato intorno all’antico complesso abbandonato, un gigante d’altri tempi rispetto alle architetture moderne, ancora ben “piantato” per terra da profonde radici che ripercorrono le vicende passate di quel luogo. Una folta vegetazione, soprattutto ìrne, ha ormai assalito completamente il lato occidentale, ricoprendo tutto il timpano, ed ora sta invadendo buona parte delle pareti rivolte a Nord, dalle quali si accede ai fienili. I portoni delle stalle e dell’abitazione sono chiusi da tempo con catene e lucchetti arrugginiti. C’è la sensazione di trovarsi di fronte a un gigante “imprigionato”, che sta morendo, o resiste alla gogna di una lenta e dolorosa agonia. Un gigante di architettura rurale, nato dalla pietra e “fecondato” dall’uomo, costruito illo tempore perché durasse e attraversasse indenne i secoli della storia, dotato di statura e forza straordinarie, cocciuto come i montanari e resistente, capace di imprese eroiche e di accogliere la vita di generazioni di valligiani. Cosa sono, in confronto, le pretenziose architetture dei nostri giorni, destinate non a durare nel tempo, bensì ad essere presto consumate? Abbiamo ascoltato in silenzio il pianto di quelle vecchie pietre, testimonianza di un’antica civiltà rurale, posate e riempite di significati da uomini coraggiosi, indomiti, predisposti al lavoro, per i quali la vita di quel luogo coincideva con la loro stessa esistenza. Pietre che da decenni stanno combattendo una battaglia impari contro il tempo e l’oblio degli uomini nel presente. Sono ormai prive di vita o in procinto di morire: non una morte gloriosa, sotto i colpi demolitori di una grossa pala meccanica, o in forza di un progetto arrogante di ristrutturazione edilizia, ma, molto peggio, colpite dalla noncuranza degli uomini. È, forse, la fine peggiore, quella dell’indifferenza, senza gloria, né rispetto,… come se nulla di quel contesto ordinato di pietre fosse mai esistito, o fosse oggi di interesse per qualcuno. Preceduta da una lunga e sofferta agonia, provocata, giorno dopo giorno, dalle radici dell’edera e di altre piante infestanti che s’insinuano nelle varie pieghe del muro e scalzano le pietre, finchè alcune di esse si staccano dalla tessitura del muro e cadono a terra, provocando ferite laceranti nella struttura, che si indebolisce e pian piano cede e cade su se stessa, non essendo più in grado di sostenere il suo peso. Come un viaggiatore che proviene da lontano, con un grosso fardello sulle spale, reduce da un viaggio importante, il quale, sdernàt dai fadìghe, stöf e sguaràt, e l’sé làga dó. Così le piode del tetto, sollecitate in continuo dagli eventi atmosferici, dalla neve e dal vento, dalla pioggia e dal sole, dal caldo e dal freddo, si scompongono e scivolano a valle, aprendo all’acqua facili pertugi per entrare - scivolosa come una biscia - e attaccare dapprima l’orditura del tetto, tempièr e traèi, tersére e raìs, persino la colmégna, per giungere al primo solaio, poi al secondo, sino a provocare il marcimento di tutto il legname interno. È un processo di disfacimento complessivo che dura da anni, anzi decenni, e produce nel bene danni irreparabili. Sin tanto che l’edificio collassa, col crollo improvviso del tetto, lo sfondamento dei solai e lo “spanciamento” all’esterno dei muri perimetrali già indeboliti. È la fine non solo di un edificio, ma di un mondo, della cultura della montagna. È la nostra sconfitta, la fine di una civiltà millenaria di abili costruttori e montanari, il venir meno di edifici plurisecolari di indubbio fascino e ad elevato valore identitario, la mancata tenuta di relazioni operose con ambienti e luoghi della storia e della civiltà lombarda. Con essi se ne vanno valori, significati, esperienze, competenze, abilità, saperi straordinari. Una sconfitta per tutta la montagna e le sue infrastrutture rurali oggi a rischio di scomparsa. Che con questo inchiostro nero suoni almeno l’anguanéa per un gigante di pietra che se ne sta andando definitivamente, sotto il nostro sguardo sì consapevole, ma impotente… Con buona pace dei modernisti.


















Articoli ruralpini su temi connessi



Il Natale dei contadini. Un rito che non scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18) Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori.  Quella che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza della macellazione con qualche immagine di insaccatura. leggi tutto



contatti: Whatsapp  3282162812    redazione@ruralpini.it

 

 

counter customizable
View My Stats

 Creazione/Webmaster Michele Corti