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Transumanze

Michele Corti, 5 maggio, 2022

Da Folgaria a Montichiari: storie di transumanze (da scoprire)

Le transumanze rappresentato storie ancora in gran parte da scoprire e raccontare. Forse sinora si è solo sfiorata la profondità, la ricchezza, le implicazioni di un tema che aiuta a capire come pochi altri le storie di territori, comunità e famiglie. Per capire le transumanze alpine, insieme di fenomeni diversi che interessano al tempo stesso tutte le alpi (le valli interne ed esterne, le basse e alte pianure, le fasce pedemontane), ma anche comunità e località molto specifiche, bisogna prescindere da confini provinciali e regionali. La transumanza ha rappresentato una rete incredibilmente complessa che teneva insieme tutte le Alpi (anche oltre lo spartiacque alpino) e persino le Alpi con l'Appennino settentrionale. Il tema delle transumanze è affascinante perché, da qualsiasi parte lo si approcci (epoca, ambito geografico), porta inevitabilmente ad aprire nuove piste di ricerca, a risalire a intrecci inaspettati, a... portare lontano travalicando confini di ogni tipo (come in premessa di un fenomeno che mette in relazioni territori diversi, molto lontani o distanti poche decine di chilometri, comunque diversi.  

Sabato scorso ho avuto una conferma di quanto siano intrecciate, affascinanti, capaci di portare alla comprensione di vicende di famiglie, comunità, territori, le storie di transumanza. Mi ero recato al Museo etnografico "Giacomo Bergomi" di Montichiari (un po' pomposamente intitolato ai beni demologici del mondo agricolo alpino e padano). Il museo, parte del sistema museale del comune di Montichiari, rappresenta comunque qualcosa di diverso e di più importante dei tanti "musei della civiltà contadina", nati, dalla buona volontà di appassionati mossi desiderio di sottrarre all'oblio frammenti materiali di un mondo scomparso. Nasce da un progetto di valorizzazione, secondo criteri rigorosi, del lascito (opere pittoriche e collezione etnografica) del pittore Giacomo Bergomi (1923-2003). Bergomi era nato al Barco di Orzinuovi da famiglia di bergamini transumanti della valle di Adrara che, come tanti altri, si erano fermati in pianura come agricoltori. In trent'anni aveva raccolto molto oggetti, provenienti dalle valli bresciane e dalla Bassa, legati alla vita rurale e al lavoro dei campi. Tali oggetti erano spesso utilizzati dal pittore per portare in modo realistico il mondo rurale nelle sue tele. Grazie alla superficie espositiva, inusuale per i musei etnografici lombardi, gli oggetti esposti, raggruppati per ambiti tematici, corredati da didascalie in italiano, inglese e bresciano, sono degnamente valorizzati. Il museo dispone poi anche di una sala conferenze e di un laboratorio didattico.



Il Museo Bergomi dispone, soprattutto, di una conservatrice, la dott.ssa Michela Capra, una studiosa che si è occupata di cultura rurale ma anche di cultura del ferro e ha recentemente pubblicato, frutto di un'ampia ricerca storica, un volume sull'antico Borgo Pile ("Vi sono due fiumi in questa parte di chiusure") che apparteneva all'ex comune di San Bartolomeo, inglobato nel 1880 nel comune di Brescia. Il borgo ha rappresentato un polo paleoindustriale importante, crocevia di esponenti di attività manifatturiere e mercantili. Nella sua ricerca, Michela ha trovato molti personaggi di origine valligiana bergamasca, un fatto sul quale ci siamo confrontati. L'immigrazione a Brescia di bergamaschi era nota (anche se mai approfondita) ma è interessante, come sta facendo Michela - studiando gli estimi (documenti fiscali relativi ai cittadini proprietari) del Quattro e Cinquecento -, ricostruire una geografia dell'origine di questi bergamaschi. Un fatto possibile grazie alla incipiente cognominizzazione di quelle epoche che attribuiva agli immigrati (di prima o seconda generazione) il nome delle località di provenienza. Emerge un gran numero di personaggi di origine brembana e altoseriana. Inevitabile pensare all'intreccio tra transumanza e attività mercantili e artigianali attraverso il commercio del formaggio, dei prodotti lanieri, delle pelli, ma anche della ferrarezza (pascoli, miniere, forni fusori erano spesso degli stessi "originari").  Il Bonvicini (Moretto da Brescia), che era originario di Ardesio, veniva da una famiglia di malghesi transumanti ma era solo uno dei tanti che provenivano dalle numerose contrade del grosso comune altoseriano.

La transumanza dei malghesi a Brescia (sino a pochi anni fa)

La transumanza attraversa i confini spaziali ma anche quelli temporali. Discutendo con Michela di antiche e nuove transumanze, la studiosa bresciana mi ha fatto sapere che avrei potuto intervistare il sig. Guerino Toninelli, che, per lunghi anni, ha condotto l'azienda agricola della Badia in comune di Brescia. I Toninelli non solo erano malghesi, originari di Dorga in comune di Castione della Presolana ma, diventando agricoltori, hanno ospitato nella loro cascina diverse famiglie di transumanti. Sino agli anni '90. L'intervista con il Toninelli mi ha procurato molte informazioni interessanti sulle quali avrò modo di ritornare. Il fatto interessante, però, è che, nella stessa occasione ho potuto intervistare anche il sig. Mauro Cuelli che, da volontario, presta la sua opera al Museo Bergomi. L'intervista non era programmata ma non mi sono fatto sfuggire l'occasione. In realtà Michela Capra mi aveva anticipato una storia di transumanti, i Cuelli (anticamente Cùel,) provenienti dalla trentina Folgaria, che si erano insediati a Montichiari. Che dal Trentino calassero nella bassa bresciana oltre a bergamaschi e valligiani bresciani anche i trentini è noto; la cosa interessante è che dall'indistinto "Tirolo" (parliamo di storie ottocentesche quando la Lombardia era parte dell'Impero asburgico) è emersa una (prima?) località precisa: Folgaria. L'intervista con Mauro si è svolta in due tempi. Durante la pausa pranzo Mauro si è recato dallo zio Adolfo (classe 1937) che ricorda meglio, come è ovvio trattandosi di una generazione precedente, le storie di famiglia. Nel pomeriggio Mauro Cuelli ha così potuto riferirmi circostanze più precise e ne è emerso un quadro molto interessante. Per capire come mai da Folgaria i Cùel, ma anche altre famiglie - come vedremo dopo - sono arrivate a Montichiari e dintorni, è necessario parlare della brughiera, della Montichiari dei pastori.

Montichiari: una storia di pastori

Oggi Montichiari è nota per la fiera (che ospita anche il Museo Bergomi), per l'aeroporto e, purtroppo, per le discariche della "terra dei buchi" (prima le cave, poi i rifiuti, anche tossici ma mezza Italia).  Tutto è legato alla "brughiera" che, nel bene e nel male ha segnato la storia del territorio e che ha determinato un salto brusco: una realtà pastorale catapultata nelle dimensioni più dinamiche ma anche brutali della modernità. Dall'antichità alla definitiva bonifica di un territorio arido e ghiaioso (ovvero nel Novecento), il territorio è stato connotato in senso pastorale, una distesa quasi sterile poteva essere messa a frutto grazie alle pecore che qui affluivano in gran numero da lontano e che rendevano alla comunità locale importanti cespiti (attraverso la produzione e il commercio della lana e di altri prodotti ovini).

Lo storico Gabriele Rosa scriveva (1880) che Montichiari, dopo Rovato, rappresentava il mercato principale per i bovini  quando il genere più trattato erano i buoi da lavoro (importati dal Sud Tirolo). Si era molto ridotto, invece, il mercato delle pecore con il restringimento della brughiera. Il centro pastorale delle pecore ne' secoli passati era Montichiari, dove, nei tavolieri che la cingono, ora in parte dissodati, pascolavano quattro qualità di pecore, ora ridotte alle sole bergamasche. delle quali alla fiera di S. Pancrazio (11, 12 e 13 maggio) intorno l'antica Pieve, se ne vendono tante, che, unite a quelle de' mercati settimanali, danno il numero di cinque mila. Secondo Rosa il culto di S. Pancrazio (chiesa isolata sul colle) si era sovrapposto a quello di Pan, proprio dei pastori denotando l'antichità del centro pastorale monteclarense.



Ai tempi del Rosa, però: cessate le gentili, e anche le bastarde d'anno in anno scemando, la fiera di Montichiari non è più di lana ma di oggetti domestici. Il Rosa riferiva anche che, nel Cinquecento, le pecore che pascolavano nella brughiera di Montichiari ammontavano a 5000. In realtà questo numero è quello consentito da un privilegio ducale del 1657 finalizzato a impedire l'inondazione di pecore e capre ma al tempo stesso a impedire quei bandi proibizionisti che, all'epoca, erano stati emessi per il Cremonese. Così nelle campagne o campanee (brughiere) di Montichiari e di Rovato era consentito trattenersi e pascolare a benefizio delle Comunità medesime a, rispettivamente, cinque mila e quattro mila pecore.

Transumanze orizzontali

La natura arida dei terreni faceva sì che la pastorizia transumante rappresentasse il mezzo più idoneo a ricavare reddito per le comunità alimentando i mercati locali. Solo il pastoralismo (compreso quello dei malghesi) poteva, in secolo passati, trasformare in ricchezze gli svantaggi naturali della pianura. Oggi vediamo una pianura uniformemente coltivata. In passato non era così: vi erano fasce aride, fasce fertili, fasce dal terreno poverissimo, fasce umide, fasce paludose. La transumanza, nelle diverse stagioni, e sfruttando le diverse categorie di animali (ovino e bovino) riusciva a sfruttare in modo complementare non solo il differenziale pianura - montagna ma anche quello pianura secca - pianura umida. In entrambe l'agricoltura era difficile, il pastoralismo possibile. Queste considerazioni ci spiegano perché, con l'aiuto dei transumanti, gradualmente la pianura si è trasformata in un territorio uniformemente fertile (la famosa "natura artificiale" della pianura lombarda di Cattaneo). Ma vale la pena svolgere anche qualche considerazione sociale. I transumanti non scendevano in pianura spinti dalla fame (se non quella di erba delle loro bestie) ma dall'intraprendenza; non erano dei poveracci, dei marginali (anche se una minoranza che aveva poche pecore o capre e praticava una transumanza di sopravvivenza poteva esserlo), erano dei competenti in materie (allevamento e caseificio) per le quali in pianura le competenze scarseggiavano. Avevano oltre a un capitale bestiame che sino a tempi non lontani (metà Novecento) era ragguardevole, anche risorse monetarie perché la loro attività implicava il commercio e la disponibilità di capitale monetario per far fronte a imprevisti (epizoozie, guerre).  Noi siamo abituati (ci ha abituato l'ideologia della modernità urbanocentrica e pianuracentrica) a considerare le montagne "naturalmente svantaggiate". Niente di più falso. Se consideriamo la situazione della bassa bresciana è facile capire che era la montagna avvantaggiata. Quando gli scrittori e i governanti parlano di montagna povera, che non riesce a coprire che per pochi mesi il fabbisogno di cereali, lo fanno dal punto di vista dell'élite terriera. L'abbondanza di grani delle pianure era abbondanza di magazzini delle grandi aziende aristocratiche e il frutto di politiche annonarie che, per evitare sommosse in città, affamavano le campagne. Dal punto di vista del contadino della pianura la montagna era ricca: le comunità disponevano di beni collettivi (pascoli, boschi ma anche miniere e forni fusori), beni che le comunità di pianura si erano visti espropriati nel medioevo. In caso di carestia la montagna, con manifatture e traffici poteva far fronte alle difficoltà temporanee anche in forza delle tante esenzioni e privilegi strappati al potere centrale che facevano di parecchie terre delle "terre separate" sottratte al dominio della città. Ma non era solo in termini di accesso alle risorse alimentari che il contadino di pianura era svantaggiato. Godeva anche di istruzione e condizioni igienico-sanitarie pessime (infinitamente peggiori della montagna). A parte la modestia del reddito, legata allo sfruttamento (che costringeva ad abitare in spazi molto ridotti) vi era anche la malaria. Se la brughiera di Montichiari era un territorio desolatamente arido, ad essa facevano contrappunto territori bassi e argillosi dove l'acqua ristagnava. Si pensi alle numerose "lame": di Leno, di Bagnolo Mella, di Poncarale, di Montirone, di Ghedi. Queste lame (zone paludose) erano aree malariche e, prima che le bonifiche furono completate la pellagra e la malaria rappresentavano piaghe. Certo che, se si guarda alle ville sontuose, alle rendite delle grandi famiglie, la pianura era ricca, ma quale squilibrio sociale nascondeva questa ricchezza?


Le pecore tesine (una lunga storia di transumanza dal Trentino)

Rosa precisa che i quattro tipi di pecore presenti a Montichiari prima dell'affermazione della bergamasca erano: le "nostrane", a lana ruvida, le "tesine" di lana lunga, le "bastarde", alte e robuste (simili quindi alla bergamasca), le "gentili"  a lana finissima tosate una volta sola che fornivano solo 1,5 kg di lana onde si tessevano panni che si mandavan sino in Fiandra; nè si mungeano. Tutte le altre si mungevano e con il latte si confezionavano formaggelle, e davano quattro kg di lana. le "gentili" erano, evidentemente, pecore stanziali. In analogia con il Veneto valgono, per la bassa bresciana, le considerazioni sulle differenze tra la padovana (a lana fine, stanziale) e le razze della transumanza (Lamon del Feltrino, Vicentina, dell'altopiano di Asiago). Tra le pecore transumanti quelle "tesine" erano evidentemente quelle provenienti dal Trentino, le "nostrane" dalle valli bresciane e bergamasche. Il termine "tesino" va ricondotto all'omonima conca del Trentino orientale ma è stato utilizzato anche per indicare i pastori dell'altopiano di Asiago e pastori di altre aree del Trentino. I "tesini" scendevano ogni anno a pascolare gli incolti lungo il Po, l'Oglio, il Mincio. Il periodo di svernamento dei greggi nel mantovano era stabilito da Federico Gonzaga, che rivide le norme precedenti nel 1478 dal 20 settembre al 5 aprile. Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara manteneva "a guardia" presso pastori transumanti proprie pecore "tesine" sulle vaste aree paludose del ferrarese. Nel mantovano
Durante le stagioni d'autunno, inverno e primavera procedenti dalle montagne del Tirolo e Veronese vengono al pascolo e per svernarsi particolarmente nel comune di Marmirolo numerosi  mandre di vacche e di pecore, in queste stagioni si fabbricano tutti gli oggetti di latte, i quali per una piccola parte si consumano in luogo e nel circondario e per la maggior parte vengono venduti nelle città di Mantova e di Verona (Regione Lombardia, Agricoltura e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi: 1835-1839. Inchiesta di Karl Czoernig, 1986 p. 41.). Melchiorre Gioia riferiva che me dipartimento del Mincio dall'attuale Trentino provenivano per svernare nella zona a nord di Mantova 1300 vacche da latte, come le pecore, le vacche scendevano lungo l'Adige che consentiva il pascolo durante la transumanza (Le vacche stanno sul Mincio e vanno sull'Adige come le pecore.  (M. Gioia, Statistica del dipartimento del Mincio, Milano, 1838, p. 152).

Da Napoleone alle discariche

I ritmi lenti della brughiera sono sconvolti, nel 1805, da Napoleone. I suoi generali ebbero l'intuizione di utilizzare quest'area "sterile" (ma in realtà utilizzata dalle pecore) per creare un grande campo militare, capace di ospitare migliaia di uomini per esercitazioni e parate.


Distrutto dagli austriaci, quanto rimaneva del campo militare fu inglobato nella Cascina Casermone (sulla quale torneremo) e, negli anni '60 il terreno divenne una grande cava. Scavare la ghiaia nella ex brughiera rappresentava un affare perché ciò che rendeva sterile, dal punto di vista agricolo, la landa era il grande spessore del deposito glaciale ghiaioso portato sin qui dal grande ghiacciaio del lago di Garda. Il business chiama il business e, quando l'estrazione di ghiaia cessò, restò disponibile un grande e profondo "buco" che poteva accogliere una montagna di rifiuti. In realtà, se non una montagna, è sorta una collina.


Nel tempo tutta la brughiera è stata bonificata. C'è voluta una fatica particolare ma le "armi" della bonifica (acqua, prato, concime organico) alla fine l'hanno avuta vinta. Va precisato che il restringimento graduale della brughiera era stato ottenuto, nei secoli passati, anche grazie alle pecore. E' destino delle greggi, spesso, creare le condizioni per essere scacciate. Grazie alla loro presenza il processo di umificazione, di creazione di un sottile strato di terreno fertile capace di trattenere un po' d'acqua (e di fornire nutrimento a corte erbe dal breve ciclo stagionale) aveva cambiato gradualmente l'aspetto della brughiera e creato le premesse per la bonifica (con l'irrigazione). Ancora agli inizi del Novecento, però, l'area intorno all'ex campo militare, e sino a Ghedi, presentava terreni che parevano refrattari alla bonifica e si ebbe una seconda irruzione di modernità, dopo quella delle truppe napoleoniche, con l'aviazione e le corse automobilistiche.


Con il 1909 (primo circuito aereo internazionale di Brescia) vennero realizzate piste di volo e hangar, primo embrione delle future strutture aeroportuali. L'aeroporto di Montichiari non nasce quindi dall'aereoporto militare (già attivo nella Prima guerra mondiale) ma ha origini civili. Nel 1921 si corse a Montichiari il primo Gran Premio automobilistico d'Italia su un circuito realizzato nella brughiera che comprendeva anche una curva parabolica. Monza, però, riuscì ad accaparrarsi la seconda edizione e le successive. sarebbe stato molto meglio avere il Gran Premio che le discariche.


E con questo abbiamo concluso la digressione sulla storia della brughiera e torniamo ai pastori di origine trentina.

Da Folgaria a Montichiari: una traiettoria esemplare di transumanza

La storia di Valentino Cùel di Folgaria, mette in luce le tante correnti della transumanza e i loro intrecci. Ce la racconta Mauro Cuelli, nato nel 1960 a Montichiari. Per ricostruire la storia di famiglia Mauro, durante l'intervallo di pranzo è andato dallo zio Adolfo (nato a Montichiari nel 1937) a chiedere dei particolari. Tornato al Museo Bergomi me li ha riferiti. Insieme al padre di Mauro, Giuseppe (nato a Montichiari nel 1931 e morto nel 2005), Adolfo era figlio di Silvio, a sua volta figlio di Giuseppe (nato nel 1854) che era uno de sette figli di Valentino Cùel (cognome italianizzato in Cuelli) e di Maddalena Scalmana (cognome valsabbino) di Bedizzole, comune sul fiume Chiese, come Montichiari. I figli di Valentino e Maddalena nascono tutti a distanza di tre anni l'uno dall'altro. Un particolare cruciale, che nemmeno lo zio Adolfo è riuscito a sapere dai vecchi, riguarda il tipo di transumanza praticata da Valentino Cùel prima di stabilirsi in pianura come agricoltore. Aveva pecore o vacche? Sappiamo che nel Mantovano svernavano con le vacche da latte non solo i veronesi della Lessinia (i "Cimbri") ma anche i malghesi delle valli del Pasubio e i trentini. Quindi non è impossibile che Cùel fosse un malghese che si spostava lungo il Chiese (dove vi sono prati umidi). Quando acquistò l'azienda a Montichiari intraprese subito (così almeno riferisce Adolfo Cuelli) l'allevamento di vacche da latte. Avrebbe potuto farlo se fosse stato un pastore? O piuttosto lo era veramente e con la vendita del gregge e delle proprietà in montagna (che gli consentirono di raggranellare il gruzzolo) decise di dare una svolta alla storia famigliare? D'altra parte, il Cùel aveva una "borsa" del denaro molto particolare, usata solo dai pastori e ricavata con lo scroto di ariete conciato. L'acquisto della proprietà a Montichiari rappresenta per la famiglia Cuelli un mito fondativo e i particolari si sono tramandati sino ad oggi. Mauro riferisce che lo zio mima ancora la scena dell'orgoglioso pastore/malghese di Folgaria. Dal momento che la parte venditrice non si fidava molto dello straniero chiese in che modo il Cuel volesse pagare. E, di rimando, rispose: come volete voi.

La frazione Cuel a Folgaria

Il venditore allora espresse la preferenza per le monete d'oro e il Cùel, estraendole dalla sua borsa, una ad una, picchiandole rumorosamente sul tavolo (con evidente soddisfazione). Scopo di Valentino, il capostipite, era quello di sistemare i figli. In realtà solo due si sposarono (vigeva una sorta di maso chiuso?) e proseguirono, indivisi, l'attività agricola sino al 1902. Quando Giuseppe Cuelli si divise dal fratello aveva già nove figli. Gli ultimi due nacquero ai Campagnoli, altra frazione di Montichiari dove la famiglia Cuelli risiede tutt'ora. I Cuelli erano ben consapevoli delle origini a Folgaria. Il nonno e il padre di Mauro si erano recati più volte a Folgaria (per fare un giro, per villeggiatura, dice Mauro) e, al cimitero, avevano potuto riscontrare come i Cuel fossero numerosi.  Nella località trentina, abitata da una comunità di origine bavarese (assimilata ai "cimbri" della Lessinia) che vi si insediò nel XIII secolo chiamata dal vescovo di Trento a ripopolare l'area, vi è una frazione Cùel o Cueli che viene fatta derivare da quelle (sorgente in tedesco).



I coloni bavaresi che si insediarono in Lessinia, altopiano di Asiago, valle del Fersina (valle dei Mocheni) erano al t
empo stesso pastori, minatori, boscaioli e non sorprende che tutt'oggi da queste aree provengano pastori transumanti. Sia le comunità di lingua tedesca che quelle venetofone e lombardofone dell'area in esame (ma il discorso potrebbe estendersi a ovest e a est verso il Piemonte e il Friuli) che praticano la transumanza sono comunità specializzate. Non tutte le valli, non tutti i comuni, non tutte le frazioni sono sedi di comunità e "clan" di transumanti. Il che rafforza la considerazione che la transumanza non è un fatto di poveracci, una forma di emigrazione sotto fattori "di spinta" (push), costrizione. La storia famigliare dei Cuelli lo dimostra. Non solo il trisavolo picchia sul tavolo le monete d'oro ma i suoi discendenti negli anni acquistarono oltre alle proprietà già citate anche un'altra azienda, sempre a Montichiari, a Verziano. Il padre di Mauro, però, che aveva studiato perito agrario, all'età di 22 anni divenne direttore dell'azienda Cascina Casermone, dove sorgeva il campo militare napoleonico. Ai tempi in cui Giuseppe Cuelli dirigeva l'azienda 8e mauro era un ragazzo) era possibile vedere ancora su un arco una piastrella con la N di Napoleone, le cucine dell'acquartieramento militare erano divenute silos di foraggi. L'azienda era di proprietà della Federconsorzi e ne seguì le cattive sorti: venduta a un bergamasco, che diceva di voleva creare un allevamento di cavalli, fu tosto rivenduta con lauto guadagno per realizzare, su una parte della superficie aziendale, una cava. Poi la cava fu riempita come già sappiamo.
La storia dei Cuelli non è, però, una storia isolata. Mauro Cuelli cita come famiglie di origine pastorale e da Folgaria che praticano ancora la pastorizia a Montichiari e originarie di Folgaria quella degli Uber (frazione Novagli). Presenti nella zona di Montichiari ma anche altrove nel bresciano e mantovano sono i Rech (come da rapida indagine su registri anagrafici online). Sui registri anagrafici se ne trovano parecchi. Vi sono anche più matrimoni Cuelli - Rech, segno che - almeno per qualche generazione - i transumanti praticano ancora l'endogamia di gruppo anche dopo la stanzializzazione. E' interessante notare come i Rech siano fortemente presenti a Seren del Grappa, un polo forte del pastoralismo feltrino (insieme a Lamon) e anche a Mussolente (Vi) vicinissimo a Bassano del Grappa e a Segusino (Tv), sul Piave, in collocazione strategica rispetto allo sbocco in pianura. Altre famiglie citate dal Cuelli come originarie di Folgaria e presenti a Montichiari e dintorni sono i Cappelletti, cognome molto diffuso in Trentino ma comunque riconducibile a Folgaria. Ci sono molti spunti per approfondimenti. Non è difficile comunque concludere osservando che lo studio delle transumanze riserva sempre sorprese, specie riguardo agli intrecci tra le diverse correnti di transumanza. Pare evidente che senza un approccio sistematico (sia in termini temporali che geografici) ogni indagine con prospettiva localistica rischia di restare condannata all'anedottica.


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