Le
transumanze rappresentato storie ancora in gran parte da scoprire e
raccontare.
Forse sinora si è solo sfiorata la profondità, la ricchezza, le
implicazioni di un tema che aiuta a capire come pochi altri le storie
di territori, comunità e famiglie. Per capire le
transumanze alpine, insieme di fenomeni diversi che interessano
al tempo stesso tutte le alpi (le valli interne ed esterne, le basse e
alte pianure, le fasce pedemontane), ma anche comunità e località molto
specifiche, bisogna prescindere da confini provinciali e regionali. La
transumanza ha rappresentato una rete incredibilmente complessa che
teneva insieme tutte le Alpi (anche oltre lo spartiacque alpino) e
persino le Alpi con l'Appennino settentrionale. Il tema delle
transumanze è
affascinante perché, da qualsiasi parte lo si approcci (epoca, ambito
geografico), porta inevitabilmente ad aprire nuove piste di ricerca, a
risalire a intrecci inaspettati, a... portare lontano travalicando
confini di ogni tipo (come in premessa di un fenomeno che mette in
relazioni territori diversi, molto lontani o distanti poche decine di
chilometri, comunque diversi.
Sabato scorso ho avuto una
conferma di quanto siano intrecciate, affascinanti, capaci di
portare alla comprensione di vicende di famiglie, comunità, territori, le storie
di transumanza. Mi ero recato al Museo etnografico "Giacomo Bergomi" di
Montichiari (un po' pomposamente intitolato ai beni demologici del mondo agricolo alpino
e padano). Il museo, parte del sistema museale del comune di
Montichiari, rappresenta comunque qualcosa di diverso e di più
importante dei tanti "musei della civiltà contadina", nati, dalla buona
volontà di appassionati mossi desiderio di sottrarre all'oblio
frammenti materiali di un mondo scomparso. Nasce da un progetto di
valorizzazione, secondo criteri rigorosi, del lascito (opere pittoriche
e collezione etnografica) del pittore Giacomo Bergomi (1923-2003).
Bergomi era nato al Barco di Orzinuovi da famiglia di bergamini
transumanti della valle di Adrara che, come tanti altri, si erano
fermati in pianura come agricoltori. In trent'anni aveva raccolto molto
oggetti, provenienti dalle valli bresciane e dalla Bassa, legati alla
vita rurale e al lavoro dei campi. Tali oggetti erano spesso utilizzati
dal pittore per portare in modo realistico il mondo rurale nelle sue
tele. Grazie alla superficie espositiva, inusuale per i musei
etnografici lombardi, gli oggetti esposti, raggruppati per ambiti
tematici, corredati da didascalie in italiano, inglese e bresciano,
sono degnamente valorizzati. Il museo dispone poi anche di una sala
conferenze e di un laboratorio didattico.
Il Museo Bergomi
dispone, soprattutto, di una
conservatrice, la dott.ssa Michela Capra, una studiosa che si è
occupata di cultura rurale ma anche di cultura del ferro e ha
recentemente pubblicato, frutto di un'ampia ricerca storica, un volume sull'antico Borgo Pile
("Vi sono due fiumi in questa parte di chiusure") che apparteneva all'ex comune di San
Bartolomeo, inglobato nel 1880 nel comune di Brescia. Il borgo ha
rappresentato un polo paleoindustriale importante, crocevia di
esponenti di attività manifatturiere e mercantili. Nella sua ricerca,
Michela ha trovato molti personaggi di origine valligiana bergamasca,
un fatto sul quale ci siamo confrontati. L'immigrazione a Brescia di
bergamaschi era nota (anche se mai approfondita) ma è interessante,
come sta facendo Michela - studiando gli estimi (documenti fiscali
relativi ai cittadini proprietari) del Quattro e Cinquecento -,
ricostruire una geografia dell'origine di questi bergamaschi. Un fatto
possibile grazie alla incipiente cognominizzazione di quelle epoche che
attribuiva agli immigrati (di prima o seconda generazione) il nome
delle località di provenienza. Emerge un gran numero di personaggi di
origine brembana e altoseriana. Inevitabile pensare all'intreccio tra
transumanza e attività mercantili e artigianali attraverso il commercio
del formaggio, dei prodotti lanieri, delle pelli, ma anche della
ferrarezza (pascoli, miniere, forni fusori erano spesso degli stessi
"originari"). Il Bonvicini (Moretto da Brescia), che era
originario di Ardesio, veniva da una famiglia di malghesi transumanti
ma era solo uno dei tanti che provenivano dalle numerose contrade del
grosso comune altoseriano.
La
transumanza dei malghesi a Brescia (sino a pochi anni fa)
La transumanza attraversa i
confini spaziali ma anche quelli temporali. Discutendo con Michela di
antiche e nuove transumanze, la studiosa bresciana mi ha fatto sapere
che avrei potuto intervistare il sig. Guerino Toninelli, che, per
lunghi anni, ha condotto l'azienda agricola della Badia in comune di
Brescia. I Toninelli non solo erano malghesi, originari di Dorga in
comune di Castione della Presolana ma, diventando agricoltori, hanno
ospitato nella loro cascina diverse famiglie di transumanti. Sino agli
anni '90. L'intervista con il Toninelli mi ha procurato
molte informazioni interessanti sulle quali avrò modo di ritornare. Il
fatto interessante, però, è che, nella stessa occasione ho potuto
intervistare anche il sig. Mauro Cuelli che, da volontario, presta la
sua opera al Museo Bergomi. L'intervista non era programmata ma non mi
sono fatto sfuggire l'occasione. In realtà Michela Capra mi aveva
anticipato una storia di transumanti, i Cuelli (anticamente Cùel,)
provenienti dalla trentina Folgaria, che si erano insediati a Montichiari.
Che dal Trentino calassero nella bassa bresciana oltre a bergamaschi e
valligiani bresciani anche i trentini è noto; la cosa interessante è
che dall'indistinto "Tirolo" (parliamo di storie ottocentesche quando la
Lombardia era parte dell'Impero asburgico) è emersa una (prima?)
località precisa: Folgaria. L'intervista con Mauro si è svolta in due
tempi. Durante la pausa pranzo Mauro si è recato dallo zio Adolfo
(classe 1937) che ricorda meglio, come è ovvio trattandosi di una
generazione precedente, le storie di famiglia. Nel pomeriggio Mauro
Cuelli ha così potuto riferirmi circostanze più precise e ne è emerso
un quadro molto interessante. Per capire come mai da Folgaria i Cùel,
ma anche altre famiglie - come vedremo dopo - sono arrivate a
Montichiari e dintorni, è necessario parlare della brughiera, della
Montichiari dei pastori.
Montichiari: una storia di pastori
Oggi Montichiari è nota
per la fiera (che ospita anche il Museo Bergomi), per l'aeroporto e,
purtroppo, per le discariche della "terra dei buchi" (prima le cave,
poi i rifiuti, anche tossici ma mezza Italia). Tutto è legato
alla "brughiera" che, nel bene e nel male ha segnato la storia del
territorio e che ha determinato un salto brusco: una realtà pastorale
catapultata nelle dimensioni più dinamiche ma anche brutali della
modernità. Dall'antichità alla definitiva bonifica di un
territorio arido e ghiaioso (ovvero nel Novecento), il territorio è
stato connotato in senso pastorale, una distesa quasi sterile poteva
essere messa a frutto grazie alle pecore che qui affluivano in gran
numero da lontano e che rendevano alla comunità locale importanti
cespiti (attraverso la produzione e il commercio della lana e di altri
prodotti ovini).
Lo storico Gabriele Rosa scriveva (1880) che Montichiari, dopo Rovato,
rappresentava il mercato principale per i
bovini quando il genere più trattato erano i buoi da lavoro
(importati dal Sud Tirolo). Si era molto ridotto, invece, il mercato
delle pecore con il restringimento della brughiera. Il centro pastorale delle pecore ne'
secoli passati era Montichiari, dove, nei tavolieri che la cingono, ora
in parte dissodati, pascolavano quattro qualità di pecore, ora ridotte
alle sole bergamasche. delle quali alla fiera di S. Pancrazio (11, 12 e
13 maggio) intorno l'antica Pieve, se ne vendono tante, che,
unite a quelle de' mercati settimanali, danno il numero di cinque mila.
Secondo Rosa il culto di S. Pancrazio (chiesa isolata sul colle) si era
sovrapposto a quello di Pan, proprio dei pastori denotando l'antichità
del centro pastorale monteclarense.
Ai tempi del Rosa, però: cessate le gentili, e anche le bastarde d'anno in anno scemando, la fiera di
Montichiari non è più di lana ma di oggetti domestici. Il Rosa
riferiva anche che, nel Cinquecento, le pecore che pascolavano nella
brughiera di Montichiari ammontavano a 5000. In realtà questo numero è
quello consentito da un privilegio ducale del 1657 finalizzato a
impedire l'inondazione di pecore e
capre ma al tempo stesso a impedire quei bandi proibizionisti
che, all'epoca, erano stati emessi per il Cremonese. Così nelle campagne o campanee (brughiere) di Montichiari
e di Rovato era consentito trattenersi e pascolare a benefizio
delle Comunità medesime a, rispettivamente, cinque mila e quattro mila
pecore.
Transumanze orizzontali
La natura arida dei terreni faceva sì che la pastorizia transumante
rappresentasse il mezzo più idoneo a ricavare reddito per le comunità
alimentando i mercati locali. Solo il pastoralismo (compreso quello dei
malghesi) poteva, in secolo passati, trasformare in ricchezze gli
svantaggi naturali della pianura. Oggi vediamo una pianura
uniformemente coltivata. In passato non era così: vi erano fasce aride,
fasce fertili, fasce dal terreno poverissimo, fasce umide, fasce
paludose. La transumanza, nelle diverse stagioni, e sfruttando le
diverse categorie di animali (ovino e bovino) riusciva a sfruttare in
modo complementare non solo il differenziale pianura - montagna ma
anche quello pianura secca - pianura umida. In entrambe l'agricoltura
era difficile, il pastoralismo possibile. Queste considerazioni ci
spiegano perché, con l'aiuto dei transumanti, gradualmente la pianura
si è trasformata in un territorio uniformemente fertile (la famosa
"natura artificiale" della pianura lombarda di Cattaneo). Ma vale la
pena svolgere anche qualche considerazione sociale. I transumanti non
scendevano in pianura spinti dalla fame (se non quella di erba delle
loro bestie) ma dall'intraprendenza; non erano dei poveracci, dei
marginali (anche se una minoranza che aveva poche pecore o capre e
praticava una transumanza di sopravvivenza poteva esserlo), erano dei
competenti in materie (allevamento e caseificio) per le quali in
pianura le competenze scarseggiavano. Avevano oltre a un capitale
bestiame che sino a tempi non lontani (metà Novecento) era
ragguardevole, anche risorse monetarie perché la loro attività
implicava il commercio e la disponibilità di capitale monetario per far
fronte a imprevisti (epizoozie, guerre). Noi siamo abituati (ci
ha abituato l'ideologia della modernità urbanocentrica e
pianuracentrica) a considerare le montagne "naturalmente svantaggiate".
Niente di più falso. Se consideriamo la situazione della bassa
bresciana è facile capire che era la montagna avvantaggiata. Quando gli
scrittori e i governanti parlano di montagna povera, che non riesce a
coprire che per pochi mesi il fabbisogno di cereali, lo fanno dal punto
di vista dell'élite terriera. L'abbondanza di grani delle pianure era
abbondanza di magazzini delle grandi aziende aristocratiche e il frutto
di politiche annonarie che, per evitare sommosse in città, affamavano
le campagne. Dal punto di vista del contadino della pianura la montagna
era ricca: le comunità disponevano di beni collettivi (pascoli, boschi
ma anche miniere e forni fusori), beni che le comunità di pianura si
erano visti espropriati nel medioevo. In caso di carestia la montagna,
con manifatture e traffici poteva far fronte alle difficoltà temporanee
anche in forza delle tante esenzioni e privilegi strappati al potere
centrale che facevano di parecchie terre delle "terre separate"
sottratte al dominio della città. Ma non era solo in termini di accesso
alle risorse alimentari che il contadino di pianura era svantaggiato.
Godeva anche di istruzione e condizioni igienico-sanitarie pessime
(infinitamente peggiori della montagna). A parte la modestia del
reddito, legata allo sfruttamento (che costringeva ad abitare in spazi
molto ridotti) vi era anche la malaria. Se la brughiera di Montichiari
era un territorio desolatamente arido, ad essa facevano contrappunto
territori bassi e argillosi dove l'acqua ristagnava. Si pensi alle
numerose "lame": di Leno, di Bagnolo Mella, di Poncarale, di Montirone,
di Ghedi. Queste lame (zone paludose) erano aree malariche e, prima che
le bonifiche furono completate la pellagra e la malaria rappresentavano
piaghe. Certo che, se si guarda alle ville sontuose, alle rendite
delle grandi famiglie, la pianura era ricca, ma quale squilibrio
sociale nascondeva questa ricchezza?
Le pecore tesine (una lunga storia di
transumanza dal Trentino)
Rosa precisa che i quattro tipi di pecore presenti a Montichiari prima
dell'affermazione della bergamasca erano: le "nostrane", a lana ruvida,
le "tesine" di lana lunga, le "bastarde", alte e robuste (simili quindi
alla bergamasca), le "gentili" a
lana finissima tosate una volta sola che fornivano solo 1,5 kg di lana
onde si tessevano panni che si mandavan sino in Fiandra; nè si mungeano.
Tutte le altre si mungevano e con il latte si confezionavano
formaggelle, e davano quattro kg di lana. le "gentili" erano,
evidentemente, pecore stanziali. In analogia con il Veneto valgono, per
la bassa bresciana, le considerazioni sulle differenze tra la padovana
(a lana fine, stanziale) e le razze della transumanza (Lamon del
Feltrino, Vicentina, dell'altopiano di Asiago). Tra le pecore
transumanti quelle "tesine" erano evidentemente quelle provenienti dal
Trentino, le "nostrane" dalle valli bresciane e bergamasche. Il termine
"tesino" va ricondotto all'omonima conca del Trentino orientale ma è
stato utilizzato anche per indicare i pastori dell'altopiano di Asiago
e pastori di altre aree del Trentino. I "tesini" scendevano ogni anno a
pascolare gli incolti lungo il Po, l'Oglio, il Mincio. Il periodo di
svernamento dei greggi nel mantovano era stabilito da Federico Gonzaga,
che rivide le norme precedenti nel 1478 dal 20 settembre al 5 aprile.
Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara manteneva "a guardia" presso
pastori transumanti proprie pecore "tesine" sulle vaste aree paludose
del ferrarese. Nel mantovano Durante
le stagioni d'autunno, inverno
e primavera procedenti dalle montagne del Tirolo e Veronese vengono al
pascolo
e per svernarsi particolarmente nel comune di Marmirolo numerosi
mandre
di vacche e di pecore, in queste stagioni si fabbricano tutti gli
oggetti di
latte, i quali per una piccola parte si consumano in luogo e nel
circondario e
per la maggior parte vengono venduti nelle città di Mantova e di Verona
(Regione Lombardia, Agricoltura e condizioni di vita dei
lavoratori agricoli
lombardi: 1835-1839. Inchiesta di Karl Czoernig, 1986 p. 41.).
Melchiorre Gioia riferiva che me dipartimento del Mincio dall'attuale
Trentino provenivano per svernare nella zona a nord di Mantova 1300
vacche da latte, come le pecore, le vacche scendevano lungo l'Adige che
consentiva il pascolo durante la transumanza (Le
vacche stanno sul Mincio e vanno sull'Adige come le pecore. (M. Gioia, Statistica del
dipartimento del Mincio, Milano, 1838, p. 152).
Da Napoleone alle discariche
I ritmi lenti della brughiera sono sconvolti, nel 1805, da Napoleone. I
suoi generali ebbero l'intuizione di utilizzare quest'area "sterile"
(ma in realtà utilizzata dalle pecore) per creare un grande campo
militare, capace di ospitare migliaia di uomini per esercitazioni e
parate.
Distrutto dagli
austriaci, quanto rimaneva del campo militare fu inglobato nella
Cascina Casermone (sulla quale torneremo) e, negli anni '60 il terreno
divenne una grande cava. Scavare la ghiaia nella ex brughiera
rappresentava un affare perché ciò che rendeva sterile, dal punto di
vista agricolo, la landa era il grande spessore del deposito glaciale
ghiaioso portato sin qui dal grande ghiacciaio del lago di Garda. Il
business chiama il business e, quando l'estrazione di ghiaia cessò, restò
disponibile un grande e profondo "buco" che poteva accogliere una
montagna di rifiuti. In realtà, se non una montagna, è sorta una
collina.
Nel tempo tutta la brughiera è
stata bonificata. C'è voluta una fatica particolare ma le "armi"
della bonifica (acqua, prato, concime organico) alla fine l'hanno avuta
vinta. Va precisato che il restringimento graduale della brughiera era
stato ottenuto, nei
secoli passati, anche
grazie alle pecore. E' destino delle greggi, spesso, creare le
condizioni per essere scacciate. Grazie alla loro presenza il processo
di umificazione, di creazione di un sottile strato di terreno fertile
capace di trattenere un po' d'acqua (e di fornire nutrimento a corte
erbe dal breve ciclo stagionale) aveva cambiato gradualmente l'aspetto
della brughiera e creato le premesse per la bonifica (con
l'irrigazione). Ancora agli inizi del Novecento, però, l'area intorno
all'ex campo militare, e sino a Ghedi, presentava terreni che parevano
refrattari alla bonifica e si ebbe una seconda irruzione di modernità,
dopo quella delle truppe napoleoniche, con l'aviazione e le corse
automobilistiche.
Con il 1909 (primo
circuito aereo internazionale di Brescia) vennero realizzate piste di
volo e hangar, primo embrione delle future strutture aeroportuali.
L'aeroporto di Montichiari non nasce quindi dall'aereoporto militare
(già attivo nella Prima guerra mondiale) ma ha origini civili. Nel 1921
si corse a Montichiari il primo Gran Premio automobilistico d'Italia su
un circuito realizzato nella brughiera che comprendeva anche una curva
parabolica. Monza, però, riuscì ad accaparrarsi la seconda edizione e
le successive. sarebbe stato molto meglio avere il Gran Premio che le
discariche.
E con questo abbiamo concluso
la digressione sulla storia della brughiera e torniamo ai pastori di
origine trentina.
Da Folgaria a Montichiari: una traiettoria
esemplare di transumanza
La storia di Valentino Cùel di Folgaria, mette in luce le tante
correnti della transumanza e i loro intrecci. Ce la racconta Mauro
Cuelli, nato nel 1960 a Montichiari. Per ricostruire la storia di
famiglia Mauro, durante l'intervallo di pranzo è andato dallo zio
Adolfo (nato a Montichiari nel 1937) a chiedere dei particolari.
Tornato al Museo Bergomi me li ha riferiti. Insieme al padre di Mauro,
Giuseppe (nato a Montichiari nel 1931 e morto nel 2005), Adolfo era
figlio di Silvio, a sua volta figlio di Giuseppe (nato nel 1854) che
era uno de sette figli di Valentino Cùel (cognome italianizzato in
Cuelli) e di Maddalena Scalmana (cognome valsabbino) di Bedizzole,
comune sul fiume Chiese, come Montichiari. I figli di Valentino e
Maddalena nascono tutti a distanza di tre anni l'uno dall'altro. Un
particolare cruciale, che nemmeno lo zio Adolfo è riuscito a sapere dai vecchi,
riguarda il tipo di transumanza praticata da Valentino Cùel prima di
stabilirsi in pianura come agricoltore. Aveva pecore o vacche? Sappiamo
che nel Mantovano svernavano con le vacche da latte non solo i veronesi
della Lessinia (i "Cimbri") ma anche i malghesi delle valli del Pasubio
e i trentini. Quindi non è impossibile che Cùel fosse un malghese che
si spostava lungo il Chiese (dove vi sono prati umidi). Quando acquistò
l'azienda a Montichiari intraprese subito (così almeno riferisce Adolfo
Cuelli) l'allevamento di vacche da latte. Avrebbe potuto farlo se fosse
stato un pastore? O piuttosto lo era veramente e con la vendita del
gregge e delle proprietà in montagna (che gli consentirono di
raggranellare il gruzzolo) decise di dare una svolta alla storia
famigliare? D'altra parte, il Cùel aveva una "borsa" del denaro
molto particolare, usata solo dai pastori e ricavata con lo scroto di
ariete conciato. L'acquisto della proprietà a Montichiari rappresenta
per la famiglia Cuelli un mito fondativo e i particolari si sono
tramandati sino ad oggi. Mauro riferisce che lo zio mima ancora la
scena dell'orgoglioso pastore/malghese di Folgaria. Dal momento che la
parte venditrice non si fidava molto dello straniero chiese in che modo
il Cuel volesse pagare. E, di rimando, rispose: come volete voi.
La frazione
Cuel a Folgaria
Il venditore allora espresse la preferenza per le monete d'oro e il
Cùel, estraendole dalla sua borsa, una ad una, picchiandole
rumorosamente sul tavolo (con evidente soddisfazione). Scopo di
Valentino, il capostipite, era quello di sistemare i figli. In realtà
solo due si sposarono (vigeva una sorta di maso chiuso?) e
proseguirono, indivisi, l'attività agricola sino al 1902. Quando
Giuseppe Cuelli si divise dal fratello aveva già nove figli. Gli ultimi
due nacquero ai Campagnoli, altra frazione di Montichiari dove la
famiglia Cuelli risiede tutt'ora. I Cuelli erano ben consapevoli delle
origini a Folgaria. Il nonno e il padre di Mauro si erano recati più
volte a Folgaria (per fare un giro,
per villeggiatura, dice Mauro) e, al cimitero, avevano potuto
riscontrare come i Cuel fossero numerosi. Nella località
trentina, abitata da una comunità di origine bavarese (assimilata ai
"cimbri" della Lessinia) che vi si insediò nel XIII secolo chiamata dal
vescovo di Trento a ripopolare l'area, vi è una frazione Cùel o Cueli
che viene fatta derivare da quelle
(sorgente in tedesco).
I coloni bavaresi che si insediarono in Lessinia, altopiano di Asiago,
valle del Fersina (valle dei Mocheni) erano al tempo stesso pastori, minatori,
boscaioli e non sorprende che tutt'oggi da queste aree provengano
pastori transumanti. Sia le comunità di lingua tedesca che quelle
venetofone e lombardofone dell'area in esame (ma il discorso potrebbe
estendersi a ovest e a est verso il Piemonte e il Friuli) che praticano
la transumanza sono comunità specializzate. Non tutte le valli, non
tutti i comuni, non tutte le frazioni sono sedi di comunità e "clan" di
transumanti. Il che rafforza la considerazione che la transumanza non è
un fatto di poveracci, una forma di emigrazione sotto fattori "di spinta"
(push), costrizione. La storia famigliare dei Cuelli lo dimostra. Non
solo il trisavolo picchia sul tavolo le monete d'oro ma i suoi
discendenti negli anni acquistarono oltre alle proprietà già citate
anche un'altra azienda, sempre a Montichiari, a Verziano. Il padre di
Mauro, però, che aveva studiato perito agrario, all'età di 22 anni
divenne direttore dell'azienda Cascina Casermone, dove sorgeva il campo
militare napoleonico. Ai tempi in cui Giuseppe Cuelli dirigeva
l'azienda 8e mauro era un ragazzo) era possibile vedere ancora su un
arco una piastrella con la N di Napoleone, le cucine
dell'acquartieramento militare erano divenute silos di foraggi.
L'azienda era di proprietà della Federconsorzi e ne seguì le cattive
sorti: venduta a un bergamasco, che diceva di voleva creare un
allevamento di cavalli, fu tosto rivenduta con lauto guadagno per
realizzare, su una parte della superficie aziendale, una cava. Poi la cava fu riempita come già sappiamo.
La storia dei Cuelli non è, però, una storia isolata. Mauro Cuelli cita
come famiglie di origine pastorale e da Folgaria che praticano ancora
la pastorizia a Montichiari e originarie di Folgaria quella degli Uber
(frazione Novagli). Presenti nella zona di Montichiari ma anche altrove
nel bresciano e mantovano sono i Rech (come da rapida indagine su registri anagrafici online). Sui
registri anagrafici se ne trovano parecchi. Vi sono anche più matrimoni
Cuelli - Rech, segno che - almeno per qualche generazione - i transumanti
praticano ancora l'endogamia di gruppo anche dopo la stanzializzazione.
E' interessante notare come i Rech siano fortemente presenti a Seren
del Grappa, un polo forte del pastoralismo feltrino (insieme a Lamon) e
anche a Mussolente (Vi) vicinissimo a Bassano del Grappa e a Segusino
(Tv), sul Piave, in collocazione strategica rispetto allo sbocco in
pianura. Altre famiglie citate dal Cuelli come originarie di Folgaria
e presenti a Montichiari e dintorni sono i Cappelletti, cognome molto
diffuso in Trentino ma comunque riconducibile a Folgaria. Ci sono
molti spunti per approfondimenti. Non è difficile comunque concludere
osservando che lo studio delle transumanze riserva sempre
sorprese, specie riguardo agli intrecci tra le diverse correnti di
transumanza. Pare evidente che senza un approccio sistematico (sia in
termini temporali che geografici) ogni indagine con prospettiva
localistica rischia di restare condannata all'anedottica.