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Lupo

Michele Corti, 28 maggio, 2022

In Svezia il lupo è animale da gestire, in Italia solo ideologia

In concomitanza con gli esiti del "censimento" italico del lupo, che si è fermato a contare 3300 esemplari (hanno mandato in giro tutti orbi?), comunque non pochissimi anche se non se ne parla neppure di attivare le famose "deroghe" e iniziare un contenimento, il governo svedese fa sapere che intende ridurre i "suoi" lupi da 480 a 170, applicando le indicazioni del parlamento. Il confronto tra quello che avviene in Svezia e in Italia in tema di lupo ci consente di analizzare gli aspetti sociali e politici del problema. Dietro il "sacro lupo" c'è evidentemente tanta ideologia e la realtà di un mondo rurale non rappresentato, non tutelato, preso a calci in faccia (in barba alle belle parole dell'uguaglianza dei cittadini, della difesa dei diritti fondamentali ecc.).

L'ambientalismo in salsa italica rappresenta un'infatuazione recente, superficiale, ideologica. Vive di emozioni, di parole d'ordine, di tifoseria. Non ha alle spalle una cultura ecologica radicata e diffusa ma, al contrario, sconta un distacco profondo di larga parte della società dalla realtà ambientale, la perdita dei saperi ambientali. Conseguenze di un'urbanizzazione traumatica, ma anche di un disprezzo radicato per la dimensione rurale, agreste e di una cultura che continua a filtrare la natura con le lenti dell'Arcadia, ovvero operando ricostruzioni immaginarie e di comodo della Natura. 

L'ambientalismo in salsa italica vive di bandiere, di battaglie simboliche che nascondono profonde ipocrisie, collettive e individuali. Nel paese della terra dei fuochi, dei rifiuti tossici sepolti sotto le autostrade, dei valori massimi di legge per la qualità dell'aria e delle acque regolarmente superati, delle mille discariche abusive lungo le strade, degli abusi e dei condoni, delle coste cementificate, dei comportamenti individuali che (per deficit storico e cronico di capitale sociale e civico) tengono molto in conto il vantaggio individuale immediato e poco quello collettivo (lo si vede negli spechi idrici, negli abusi nel riscaldamento e raffreddamento degli ambienti), l'ambientalismo è spesso un modo a buon mercato (e alle spalle degli altri) per lavarsi la coscienza ecologica, per legittimare scelte di comodo, per coprire speculazioni e sostenere strategie lobbystiche. Solo componenti assolutamente minoritarie (vedi Italia Nostra) mantengono posizioni coerenti sui vari problemi ambientali. L'Italia colleziona record negativi in materia ambientale in ogni campo. Solo sulla difesa del lupo è il paese più ambientalista al mondo.

Il confronto con la Svezia

Tutto si può dire della Svezia ma non che sia stato il primo paese al mondo ad introdurre, nel 1967, una legislazione a protezione dell'ambiente. Tutt'oggi gli standard ambientali svedesi sono tra i più rigidi.  In Italia, limitatamente alla protezione delle acque si doveva aspettare la legge Merli, del 1976 (attuata con anni di ritardo), mentre per molti altri aspetti della protezione ambientale si sono dovute aspettare le direttive europee (sistematicamente disattese tanto che paghiamo fior di multe). Così viene da chiedersi:  se il governo svedese, con il consenso del parlamento, che ha fissato il numero di  170 lupi come tetto da non superare per evitare un insostenibile conflitto sociale, decide di ridurre i lupi da 480 a 170 significa che la Svezia è nemica dell'ambiente o che, al contrario, una gestione non ideologica e non demagogica del lupo come quell svedese rappresenta un elemento di una seria politica ambientale? Tenendo conto dell'approccio svedese e italiano all'ambiente la risposta è scontata: l'iper protezione italica nei confronti del lupo (unica tra tutti i paese europei) è frutto di un finto ambientalismo, di un ambientalismo ideologico gestito in modo irresponsabile per finalità politiche e per il vantaggio di gruppi di interesse. Oppio del popolo.

Il conflitto sociale? In Italia non se ne tiene conto: i "villici" sono sempre i servi della gleba da bastonare.

Il contadino è come una pianta di noci, più lo batti più rende. Così recitava un antico proverbio italiano. In nessun altro paese europeo l'odio e il disprezzo per i contadini è stato così forte come in Italia. Ne è stata espressione la forma letteraria della "satira del villano", un risultato dell'urbanizzazione dell'età comunale nell'Italia centro-settentrionale (senza confronto con il resto d'Europa). I "villici" oggetto di pesanti discriminazioni fiscali e giuridiche dovettero cedere le terre ai mercanti, ai più grossi tra gli operatori delle manifatture cittadine, ai notai, gente che si era inurbata per approfittare dei privilegi dei cives e per sfruttare il boom economico. Di qui una secolare e sorda lotta per la spartizione dei proventi della terra tra i proprietari cittadini e i coltivatori. Il contadino che cercava di sottrarsi allo sfruttamento dei cittadini era l'imbroglione, il ladro, l'avido.  Qualcosa di simile avvenne negli anni del boom economico del secondo dopoguerra: gli inurbati, catapultati dalle campagne alla città, si sono identificati con la cultura urbana e del benessere (anche se ne usufruivano solo gli scampoli e le illusioni) maturando un senso di distacco e di disprezzo per la realtà di provenienza. Successivamente, l'espansione degli hinterland, le trasformazioni dell'aspetto urbanistico dei centri un tempo rurali, la concentrazione della popolazione nei fondovalle, sulle coste, nelle aree pedemontane hanno determinato un'urbanizzazione diffusa e una deruralizzazione) anche senza trasferimento nelle grandi città. Così l'Italia rurale che già contava poco perché priva di élites (i comuni medievali costrinsero i nobili a risiedere in città), disprezzata dalla cultura dominante urbana, vista con sospetto dopo i tentativi mussoliniani di ruralizzazione, è diventata debole e inconsistente.

Sembra un paradosso ma nella Svezia "socialmente e ambientalisticamente avanzata" la realtà rurale conta molto più che in Italia.  Il conflitto sociale determinato dalla presenza del lupo assume quindi un peso politico maggiore in Svezia rispetto all'Italia nonostante l'abissale differenza di densità demografica. I lupi in Svezia (carta sotto con i branchi) sono presenti nell'area centrale dove si concentrano le terre arative, in regioni con densità di popolazione "medio-alta" per i parametri svedesi tra 31 e 60 abitanti per kmq. I lupi non si trovano né nelle foreste a Nord né nell'area di agricoltura intensiva all'estremo Sud.


Le cronache di tutti i giorni In Italia il lupo è presente ormai ovunque (tranne nelle isole sino a quando non ce lo porteranno), in aree con densità pari a 10 volte quelle svedesi. Parlano di animali domestici di ogni specie predati, non solo sui pascoli ma sin dentro aree recintate, dentro le stalle, dentro i cortili, dentro i giardini di casa. Tanto che gli "esperti" (i piazzisti dellla lobby del lupo) raccomandano di chiudere in casa i cani o di lasciarli fuori solo se in condizioni di massima blindatura. Non è più il tempo in cui il lupo picchiava duro sull'Appennino spopolato. Ora sono scesi sulle fasce di collina e in pianura. Quanto alla montagna hanno colonizzato aree tutt'altro che depopolate, specie in Veneto. Non diversa la situazione al Sud. Ma la reazione in Italia è minore rispetto a quella nelle aree agricole della Svezia. Il motivo? Un po' è debole la protesta, un po' è sordo l'orecchio politico che dovrebbe ascoltarla. Quando il lupo picchiava nelle valli di Cuneo o sull'Appennino tosco-emiliano la scarsità e la dispersione della popolazione non era in grado di emettere un segnale di una certa forza. Ma anche quando il lupo colpisce in aree fortemente antropizzate la frazione di popolazione che alleva animali, che pratica l'agricoltura è così ridotta in proporzione alla generalità degli abitanti che, ancora una volta, non riesce a emettere un segnale per la politica. L'effetto dell'impatto del lupo su aree ad alta antropizzazione in ogni caso c'è eccome: non solo aumentano le predazioni di cani e gatti ma aumentano anche i fenomeni di ibridazione del lupo.  Per ora solo da aree abbastanza antropizzate di montagna, con attività di allevamento diffuse (imprenditoriale o per passione e integrazione) come la Lessinia, l'Ossola, la Valtellina, la Maremma si sono levate voci di protesta piuttosto vivaci. Ancora isolate perché la politica ritanga opportuno correggere la sua indifferenza alle grida di dolore dei territori.



Gli svedesi non sono pazzi ossessionati dalle favole del lupo cattivo;  sono gli italiani (governo, parlamento, regioni, istituzioni di ogni tipo) a subire l'incantesimo di una lobby del lupo che riesce a imporre il folle obiettivo della proliferazione senza limiti del loro totem. Il fatto che l'anomalia sia rappresentata dall'Italia (in funzione di un rapporto distorto con la realtà ambientale, di un antiruralismo inveterato, di pulsioni ideologiche riaffioranti, di un'emotività non controllata (il "mammismo" che in presenza del crollo demografico si trasferisce sugli animali) lo conferma quanto avviene in Francia. Se in Svezia si vogliono ridurre drasticamente i lupi a meno della metà, in Francia , dove essi sono stimati (2020/2021) in numero di 620, si pratica comunque un discreto contenimento (se ne abbattono legalmente 120 all'anno). Ma in Francia un lupo ha a disposizione, sulla carta, 877 kmq, in Italia, stando alle stime ufficiali (che palesemente li sottostimano), i 3307 lupi (stimati sempre nel 2020/2021) avrebbero a disposizione (Sicilia e Sardegna comprese) 91 kmq. Ci si dovrebbe già chiedere: come mai con una densità dieci volte quella della Francia, in Italia non si ritiene di dover operare neppure un minimo contenimento dei lupi? Aggiungasi che la densità umana italiana è di 189 abitanti per kmq contro i 121 della Francia. Da noi ci sono molti più lupi per unità di superficie, e più umani. Come mai il lupo continua a essere intoccabile? C'è forse un miracolo alla San Francesco per il quale il lupo ex italico in Italia è mansueto? Per nulla. Ne combina di ogni, anche perché, a differenza della Francia, è sempre intoccabile, frequanta sempre più gli ambiti abitati e ha perso timore nei confronti dell'uomo. Ma la favola del "lupo che non è più cattivo" è smentita ogni giorno dalle crude notizie di predazioni e persino di attacchi all'uomo, per quanto confinate nei meandri delle cronache locali o anche solo dei social.


Lupi urbani: normale!

L'aumento del numero dei lupi, è tale che oggi non vengono colonizzate solo aree di pianura ad agricoltura intensiva ma anche le aree urbane. nelle mappe di Life Wolf Alps di solo pochi anni fa si escludeva la pianura piemontese dalle "aree vocate" e si considerava che la capienza massima di lupi in Piemonte fosse di 350 capi. Oggi la mappa della pianura piemontese, dove il lupo non avrebbe dovuto esserci, è piuttosto colorata (e lo sarebbe di più se si tenesse conto delle tante segnalazioni fatte dai cittadini). Il lupo non doveva venire in pianura ma è venuto (per forza, la montagna scoppia). La lupologia è una "scienza" flessibile.


Se la pianura (non solo piemontese) da "area non vocata" è diventata, di fatto, area di presenza stabile di branchi, persino i centri abitati sono diventati un territorio "normale" per i lupi. In recenti webinar della Piattaforma Locale Grandi Carnivori, una delle tante sigle del lupismo (frotte di gente che ci campa), si è teorizzato che la presenza dei lupi in aree urbane deve essere considerata un fatto normale, che non necessariamente un lupo che frequenta, di notte ma anche di giorno, le periferie urbane deve essere considerato "problematico" e tanto meno "potenzialmente pericoloso". dal momento che è una specie "opportunista" non c'è meravigliarsi se viene in città. Il punto è: ma è giusto lasciargli fare quello che vuole, lasciarlo andare dove vuole e costringere la gente a chiudersi in casa? Dove sta scritto nella costituzione che "la libertà di movimento dei cittadini è garantita se non interferisce con la superiore libertà di movimento del lupo"?  Come al solito la "convivenza" è possibile e se sorgono problemi è sempre colpa dell'uomo che lascia i rifiuti, che non blinda gli animali domestici ecc. Ancora una volta se si considera la differenza tra l'Italia e altri paesi c'è da restare sconcertati. In Svizzera il protocollo Ufam (l'Ufficio federale per l'ambiente, sorta di ministero) considera pericoloso e da abbattere il lupo che  frequanta i centri abitati, segue le persone, uccide un cane da compagnia in un insediamento. L'intensificazione del monitoraggio (IN) implica che si osservi l'animale. Se si allontana e non reitera i comportameti è salvo, se continua a frequentare il centro abitato viene abbattuto. In Italia si continua a monitorare all'infinito. Va precisato che le regole svizzere sono adottate anche in alcuni land tedeschi ed austriaci.


Tentiamo di arrivare a delle conclusioni (o quantomeno a degli spunti di analisi politica)

Escluso che (solo) in Italia i lupi siano diventati vegani, constatato che - per quanto soffocate e non ampiamente diffuse - le notizie dai territori ci dicono che il lupo in Italia impatta eccome si deve concludere che lo stesso danno sociale che in altri paesi mette in moto delle azioni di contrasto a danno del lupo, in Italia non smuove nulla. La bilancia pesa in modo molto differente. Il valore del lupo è infinito, quello dell'interesse dei sudditi, dei "villici" leggero come una piuma. Scelte politiche, scelte ideologiche, scelte che fanno a pugni con la democrazia e l'equità sociale (a qualcuno, che decide a vantaggio di sé stesso solo vantaggi, a gente che non ha diritto di dire la sua, solo svantaggi). Scelte infami di cui qualcuno dovrà rendere conto.

Ribadiamo che l'impatto sociale del lupo non si limita alle predazioni ma anche delle conseguenze indirette non meno gravi dal punto di vista sociale: aziende che chiudono, aziende che si trasformano da estensive in intensive alla faccia della sostenibilità e del benessere animale, giovani che vedono spezzati i loro sogni , frustrati nella loro passione , pastori costretti a sacrifici immensi (trasportare a spalla reti e sacchi di crocchette su per ripidi pendii, non rientrare a casa la notte per restare a guardia del gregge), piccole aziende che devono vendere gli animali. In più c'è il clima di insicurezza, la paura a portare a spasso il cane, la paura ad andare nel bosco, la paura che i turisti scappino, la paura di trovarsi il lupo nel cortile dell'azienda o della casa privata con il bambino che gioca. Per i lupisti tutto ciò non ha nessuna importanza. Anzi, se gli allevatori gettano la spugna per i lupisti è tutto di guadagnato, cessa un "disturbo" all'ambiente e può tornare la natura "incontaminata" (gestita da loro, dagli ecoburocrati). Ma poi su quale pianeta vale la regola che il grado di allarme sociale, di impatto economico, di sofferenza morale, di danno psicologico e biologico alle persone, alle comunità, alle categorie sia valutato da dei lupologi o, al meglio, dai santoni dell'ISPRA? Assurdo ma oggi se la suonano e se la cantano loro come vogliono nella totale autoreferenzialità loro concessa dall'ignavia della politica.

Siccome il lupismo è il solo ad avere la sola voce in capitolo ed è il solo a farsi ascoltare dalle istituzioni sul tema, ll conflitto sociale viene semplicemente celato, ignorato. Anche perché i canali che dovrebbero rappresentare la sofferenza dei territori e delle categorie (istituzioni locali, sindacati agricoli) rinunciano a impegnarsi su un tema "scabroso" (salvo con parole che non costano nulla).  Il conflitto c'è ma non trova canali per farsi sentire.  Ma significa che non esiste, che una politica del bene comune può esimersi dal tenerlo in considerazione? Diverso il peso del mondo agricolo e rurale in Francia e in Svezia. Non solo perché le campagne hanno mantenuto meglio la loro identità sociale e culturale, non fagocitate da modelli e stili di vita urbani come in Italia, ma anche perché all'interno dell'orizzonte culturale la realtà rurale è meno marginalizzata, più legata ad aspetti della cultura nazionale. Come ricordavano all'inizio, la stessa cultura ambientalista è ben diversa rispetto a quella italiana.  Solo in Italia l'ambientalismo criminalizza l'attività venatoria e divinizza il lupo. Un estremismo che con l'ecologia non c'entra nulla. E' un ambientalismo (o, meglio, un animal-ambientalismo) quello italico sostanzialemente e pesantemente ideologico, slegato dalla cultura ecologica e vicino alle modalità del tifo e della partigianeria politica che fanno leva sulle emozioni, sulla creazione del "nemico", su bandiere e parole d'ordine (e che il lupo sia una "bandiera" l'hanno sempre teorizzato lor signori).

Si tratta, come appare evidente, di una situazione di pesante difficoltà per chi intende, sul tema lupo, ma anche su altri operare la difesa degli interessi e dei valori rurali.  Una difficoltà, uno svantaggio, che si rimontano solo in termini politici. Non è facile ma si parte da una situazione talmente negativa che conseguire qualche risultato, qualche miglioramento, è relativamente facile. La realtà in sofferenza (per il lupo ma anche per il cinghiale, i cervidi, i corvidi, le nutrie, i cormorani) è molto ampia, non comprende solo imprese agricole ma tanti soggetti  che vivono nelle aree rurali, in montagna, che praticano all'aperto le loro attività preferite (caccia, pesca, equitazione, attività sportive). Indirettamente riguarda chi vive di turismo e di servizi, quindi tante imprese di altri settori. Tutte queste realtà sono state tenute separata quando non contrapposte le una dalle altre da politiche corporative sia per interesse della politica che di altri mediatori. Ora si tratta di ricomporre un interesse rurale che esiste oggettivamente. Le minacce sono infatti oggettive, ma vanno riconosciute e fatte riconoscere a dispetto di un sistema che distrae, depista, addormenta.  Va tolto il diaframma ideologico che fa credere a molti che gli "ultimi trogloditi" (contadini, pastori, boscaioli) siano i soli "rurali" (modello negativo da rifuggire), che fa autoidentificare in una cultura urbana subalterna da tv e centro commerciale tanti che pure sono legati da passioni, interessi, legami alla realtà della montagna e delle aree interne, dei paesi, che non fa vedere il modello positivo rurale (relazioni calde, circolarità, recupero di forme di scambio e mutualismo, azioni collettive su recuperati beni comuni materiali e simbolici), il privilegio di non vivere in una periferia.  Vi è la possibilità di aggregare tante energie che esistono ma sono fortemente disperse, non solo per difendersi dalle minacce ma anche intorno a progetti in positivo. Non ci sono ricette pronte. Ma c'è un immenso lavoro da fare.

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