L’ organizzazione dell'alpeggio nella storia
Sommario
Primordi
Dall’età
antica al medioevo
La
feudalizzazione
La
formazione della moderna proprietà comunale
Alpeggio
nobiliare e alpeggio contadino
Forme
intermedie
La forme di conduzione degli alpeggi
Modelli
di gestione dell’alpeggio tra passato e presente
Diritti
e doveri
I
sistemi di gestione imprenditoriale basati sull’affitto
I
sistemi di gestione cooperativa degli alpeggi
Gli
“alpeggi a villaggio”: una gestione famigliare e femminile dell’alpeggio
Organizzazione degli uomini e dello spazio
La
gerarchia dell’alpeggio
L’alpeggio:
una realtà strutturata
Uomini e bestie in movimento
La
monticazione
La
trasumanza bovina storica
Migrazioni
intra-alpine
La gestione dell’alpeggio oggi: verso una realtà
famigliare aperta
L’antica origine
degli alpeggi
Primordi
Prima del 4.000 a.C. l’uomo neolitico utilizzava i
pascoli in modo saltuario. In seguito all’aumento dell’importanza
dell’allevamento iniziarono a salire ogni anno su determinati pascoli
le mandrie e le greggi delle tribù. Esse erano affidate ad appositi
pastori consentendo agli altri membri del villaggio di dedicarsi a
valle ai lavori agricoli. Era nato l’alpeggio.
Il raduno delle mandrie/greggi favoriva, però, la
diffusione di malattie e la concupiscenza da parte delle altre tribù.
La storia di Ötzi, morto 3.300 anni fa, è una delle tante di razzie
d’alpeggio e ci fa capire come fare il pastore significò per molto
tempo essere pronti a difendere in armi il bestiame dai razziatori e
dai predatori (ed essere anche guerrieri).
Tra la fine dell’ età del rame e l’età del bronzo antico
(2.200-1.600 a.C.) si accentuano i disboscamenti e migliorano le
tecniche casearie ma il peggioramento climatico rallentò questi
sviluppi. Nell’età del ferro (iniziata verso il 900 a.C. e proseguita
sino alla romanizzazione), la disponibilità di più efficaci strumenti
di taglio e il miglioramento climatico portano a un nuovo sviluppo
dell’alpeggio che assunse caratteristiche molto simili a quelle
attuali. Appaiono costruzioni in pietra a secco e si perfezionano le
tecniche casearie ormai vicine a quelle attuali.
Le ricerche di Francesco Fedele hanno consentito di
documentare la presenza di alpeggi in val S.Giacomo (So) già verso il
3.000 a.c..
La vicende della proprietà degli alpeggi dall’età antica
al medioevo
Attraverso i millenni gli alpeggi hanno conservato la
loro funzione. Sono, però, cambiati i rapporti sociali alla base del
loro sfruttamento.
In epoca romana gli alpeggi sono stati di proprietà
imperiale o di grandi latifondisti. Nell’alto medioevo hanno fatto
parte del demanio regio longobardo. Quest’ultimo era organizzato in
grandi proprietà con al centro una curtis. Sulle terre della curtis i
contadini erano tenuti a prestazioni di lavoro in cambio del diritto di
utilizzare pascoli e boschi. Di fatto, come in età romana, le comunità
rurali continuarono a gestire gli alpeggi in modo autonomo.
Attraverso le donazioni alla Chiesa (iniziate in età
longobarda e divenute più frequenti in quella carolingia) le grandi
proprietà passarono in mano ai vescovi e ai potenti monasteri.
Divennero proprietari di alpeggi non solo i vescovi di Como, Bergamo,
Brescia, ma anche quelli al di Lodi e di Pavia. Possedevano alpeggi
anche i grandi monasteri (S. Ambrogio a Milano, S. Abbondio a Como, S.
Giulia e SS, Faustino e Giovita a Brescia). In un’epoca di forte
riduzione degli scambi l’approvvigionamento di derrate pregiate come
l’olio d’oliva dei laghi o i formaggi egli alpeggi era possibile solo
grazie al possesso di numerose terre distribuite tra la pianura e le
Alpi. I titolari ecclesiastici dei diritti di proprietà o di
sfruttamento degli alpeggi raramente li utilizzavano con loro bestiame
e loro personale. Molto più spesso la gestione era affidata a
concessionari. Questi ultimi erano personaggi potenti che dovevano
anche assicurare una difesa “militare” degli alpeggi. Ancora all’inizio
del XVIII secolo il comune di San Fedele (in val d’Intelvi) affitta
l’alpe comunale a tale Brentano Monticelli della nobile famiglia di
Mezzegra (sul Lago di Como). Ancora nel ‘900, gli affittuari degli
alpeggi della bassa Valtellina erano spesso notai o altri esponenti
della borghesia locale.
Tra il X-XI secolo la proprietà degli alpeggi si trasferì
dalle mani di monasteri e vescovi a quelle di potenti famiglie di
vassalli e amministratori di beni ecclesiastici (es. i Cattanei nelle
valli bergamasche e i Vicedomini in Valtellina). In alcuni casi la
proprietà ecclesiastica si mantenne a lungo. L’Abbazia dell’Acquafredda
(Lago di Como) mantenne sino al XVI la proprietà di diversi alpeggi in
val Lesina e val del Bitto (bassa Valtellina) dopo essere subentrata,
nel XIII secolo, al vescovo di Lodi. Le proprietà ecclesiastiche, che
non erano state acquisite da proprietari laici, passarono gradualmente
alle chiese locali; esse subirono vaste espropriazioni a vantaggio di
privati al tempo della Repubblica Cisalpina e per opera del Regno
d’Italia post-unitario (1866).
La feudalizzazione
Alle grandi famiglie subentrarono nella proprietà degli
alpeggi personaggi della nobiltà locale. Il passaggio di mano
avvenne attraverso le vendite, ma soprattutto le investiture “a
livello” (una forma di affitto perpetuo che prevedeva il riscatto). La
nobiltà locale mantenne la proprietà degli alpeggi sino al XIII secolo,
quando si affermarono i comuni rurali, ma, in alcuni casi, anche più a
lungo. La piccola nobiltà locale – con l’eccezione di alcune alte valli
- incise sulla gestione degli alpeggi in modo più profondo che i
proprietari che si erano succeduti dall’antichità. Essa usava gli
alpeggi per sé e per la propria clientela, ma vi mandava anche a
pascolare bestiame forestiero e, cosa fortemente invisa alle comunità
contadine, non si faceva scrupolo di cederne il possesso a forestieri.
Nel XIII secolo, grazie al “riassorbimento” del ceto nobiliare locale
nell’ambito di un’unica comunità territoriale, sorsero i comuni rurali.
Essi, vuoi per via “politica” che attraverso gli acquisti, riuscirono
ad assumere il possesso della maggior parte degli alpeggi che, da
allora, furono goduti senza distinzioni dalle famiglie “originarie”.
Per reazione alle tendenze disgregatrici i comuni non solo vietarono la
presenza di bestiame forestiero sugli alpeggi e la cessione dei diritti
di pascolo ma limitarono anche i diritti di successione delle donne
sposate. La gelosa difesa dei propri alpeggi dai “forestieri” resterà
nelle regole dei comuni sino al ‘900.
La formazione della moderna proprietà comunale
Una circostanza apparentemente strana è costituita dalla
frequenza con la quale i comuni, in quanto proprietari fondiari,
posseggono alpeggi nel territorio di altri comuni amministrativi.
La ragione va cercata nel passaggio di proprietà dalle
comunità di valle ai comuni più piccoli costituiti in seguito alla loro
divisione. Le “spartizioni” degli alpeggi dovettero tenere conto delle
esigenze delle comunità con numerosa popolazione e numeroso bestiame,
ma scarsamente dotate di pascoli. Ad esse vennero assegnati alpeggi
siti anche a notevole distanza. Un caso emblematico è quello della val
di Mello alla testata della val Masino. Essa assunse tale nome in
quanto, nelle divisioni dei beni del vecchio comune di Traona, venne
assegnata ai “terrieri” di Mello, località di mezza costa del versante
retico della bassa Valtellina.
La divisione in comuni più piccoli non comportò sempre la
spartizione degli alpeggi. “Diritti di compascuo” o “promiscuità d’uso”
sopravvissero a lungo divenendo causa di liti. Ancora nel XIX secolo,
in alta val Brembana, valeva il “diritto di compascuo” e i “terrieri”
potevano utilizzare gratuitamente i pascoli degli altri comuni della
vecchia comunità di valle. In Valsassina, fino al XVIII secolo, i
boschi e i pascoli della Squadra del Conseil vennero goduti
in consorzio dai comuni di Barzio, Cremeno, Cassina, Moggio e
Concenedo. Nella comunità di Lecco, i conceliba (antichi beni
comuni) furono divisi tra il borgo e i comuni limitrofi solo alla fine
del XIX secolo!
I processi di divisione delle antiche proprietà
collettive assegnarono spesso la titolarietà dei diritti d’alpeggio ad
unità minori rappresentate da gruppi di famiglie “originarie” di
determinate borgate o frazioni (vicìnie). Nel sistema della vicínia il
diritto d’alpeggio è legato alla residenza e si perde trasferendola
altrove. Le vicìnie e le ulteriori suddivisioni della vicìnia,
(malghe a Ponte Valtellina, colondelli altrove)
utilizzavano di frequente gli alpeggi con un sistema a rotazione. Era
un sistema per non scontentare nessuno ma anche per mantenere dei
legami tra piccole comunità.
La vicìnie in Lombardia decaddero in larga
misura in forza dal Decreto n. 225 del 25.11.1806. Sopravvissero qua è
la nelle valli bergamasce e in Valcamonica. In Canton Ticino le vicínie (patriziati)
restano ancora oggi proprietarie dei beni silvo-pastorali e, in primo
luogo, degli alpi.
Le vicende storiche illustrate spiegano perché gli
alpeggi di proprietà comunale rappresentano il 55% del totale (con
oltre il 60% delle superfici). La proprietà comunale prevale quasi
ovunque ma con significative eccezioni. Nella bassa Valtellina la
proprietà privata ha una notevole importanza; qui la nobiltà mantenne
più a lungo il possesso degli alpeggi, cedendoli poi gradualmente ad
elementi della borghesia. Ancor oggi i conti Caccia Dominioni di
Morbegno sono proprietari di alpeggi nelle valli del Bitto. Qui
l’alpeggio ha sempre rappresentato, oltre che un’importante realtà
economica, anche un elemento di prestigio tanto che alcuni facoltosi
imprenditori hanno acquistato alpeggi anche in anni recenti.
Altrove, all’opposto, prevalgono forme di proprietà
privata “sociale”. E’ la situazione tipica di tutta la Valchiavenna ma
anche di alcune zone della Valtellina e delle province di Bergamo e
Brescia. Queste proprietà sono divise in quote che danno diritto a
caricare un’unità di bestiame grosso. Le quote (“vaccate”, “erbate”)
possono essere vendute, affittate e trasmesse in eredità come un
qualsiasi titolo di proprietà.
Gli alpeggi condominiali a volte rappresentano una
sopravvivenza delle vicínie, in altri casi sono semplicemente il
risultato delle successioni ereditarie. In Valchiavenna le comproprietà
traggono origine dall’assegnazione di diritti di uso perpetuo ed
ereditario (“diritto d’erba”) su determinati alpeggi. Nel ‘900 questi
condomìni hanno assunto la veste giuridica del Consorzio. Il numero dei
soci è molto elevato; nel 1907 si contavano 220 comproprietari all’Alpe
Andossi (360 “vaccate”) e 150 all’Alpe Borghetto (195 “vaccate”). In
diversi alpeggi più piccoli il numero dei soci era spesso superiore a
quello delle quote. L’Alpe Corte Terza, in comune di Gordona, nel 1972,
era utilizzata da 150 ditte individuali, un numero enorme se si
considera che un’indagine di qualche anno dopo censiva 83 Uba (unità
bovino adulto). Oggi, i titolari di quote sono spesso interessati solo
alle abitazioni, trasformate in seconde case, mentre i pascoli sono
utilizzati dai pochi comproprietari che allevano ancora il o da un
affittuario.
Le comproprietà bergamasche erano molto più diffuse in
passato. Qui, però, a differenza della Valchiavenna, dove ogni
comproprietario saliva in alpe, i titolari davano in affitto le loro
quote. Il loro minor coinvolgimento spiega perchè le hanno gradualmente
cedute e la proprietà si è concentrata in capo a uno o pochi
proprietari.
Forme intermedie
Oltre alla situazioni “tipiche” di proprietà,
rappresentate dalla proprietà comunale, da quella privata e da quella
“sociale”, vanno registrate delle forme “ibride”.
Nel tempo alcuni “particolari” edificarono delle baite e
si ritagliarono delle proprietà private ai margini inferiori del
pascolo comunale. Si tratta di una situazione presente sia in zone
prealpine, con pascoli a quote piuttosto basse, che all’interno del
massiccio alpino, dove le baite private sono collocate a 1.800-2.000 m.
Il diritto di pascolo è così legato al possesso (o alla
conduzione in affitto) delle baite private adiacenti ai pascoli
comunali. E’ quindi cosa diversa dall’ “uso civico” (a favore della
generalità degli abitanti). A volte il pascolo esercitato dai
proprietari di queste baite si sovrapponeva con la conduzione degli
alpeggi comunali. Quesa “promiscuità” si registrava in alta
Valcamonica. Anche nel Lario Intelvese gli affittuari degli alpi
comunali dovevano ammettere sul pascolo il bestiame proveniente dai
sottostanti muunt e “cassinaggi”. Nel passato le forme di
utilizzo promiscuo dello stesso bene erano normali e non era raro che
le comunità mantenessero persino quote di diritti su alpeggi di
proprietà privata.
La situazione attuale si è in larga misura semplificata;
nonostante ciò le forme di proprietà degli alpeggi sono ancor oggi
numerose e sopravvivono forme di proprietà “mista” (Tabella 1).
Tabella. 1 – Distribuzione degli alpeggi per forma
di proprietà e provincia al censimento degli alpeggi
|
Bergamo
|
Brescia
|
Como
|
Lecco
|
Sondrio
|
Regione
|
Persona singola
|
34
|
16
|
10
|
15
|
101
|
176
|
Comproprietari parenti
|
4
|
8
|
1
|
-
|
5
|
18
|
Società di fatto
|
3
|
4
|
-
|
-
|
4
|
11
|
Comunanza o proprietà
indivisa
|
10
|
9
|
-
|
-
|
3
|
32
|
Consorzi
|
-
|
-
|
1
|
-
|
13
|
14
|
Cooperativa o simile
|
0
|
2
|
-
|
-
|
2
|
4
|
Società per azioni o di
altro tipo
|
3
|
1
|
-
|
-
|
2
|
6
|
Ente morale, ass., osp.
|
2
|
2
|
-
|
-
|
-
|
4
|
Ente ecclesiastico
|
4
|
-
|
-
|
-
|
7
|
11
|
Demanio statale
|
-
|
-
|
-
|
-
|
1
|
1
|
Demanio regionale
|
1
|
10
|
3
|
2
|
11
|
27
|
Provincia
|
1
|
-
|
-
|
-
|
-
|
1
|
Comunità Montana
|
1
|
1
|
2
|
-
|
-
|
4
|
Comune
|
101
|
166
|
42
|
42
|
124
|
475
|
Proprietà mista
|
27
|
18
|
3
|
6
|
26
|
80
|
La forme
di conduzione degli alpeggi
Modelli di gestione dell’alpeggio tra passato e presente
Oggi, nel 70% dei casi, gli alpeggi sono concessi in
affitto a uno o pochi “caricatori”. Le tantissime piccole “aziende” di
sussistenza con pochi capi di bestiame sono scomparse e, al loro posto,
sono rimaste poche aziende professionali con decine di capi bovini.
Queste ultime, con il loro bestiame o, al massimo, con quello affidato
loro da pochi altri allevatori, riescono a “caricare” facilmente un
alpeggio. Molti alpeggi che, in passato, erano utilizzati dalle
“società d’alpeggio” o direttamente dai tanti piccoli proprietari
(mediante “uso civico” o il versamento di una tassa di pascolo) sono
stati affittati ai pochi allevatori del posto o, in mancanza, a quelli
di altre località.
Le forme di gestione degli alpeggi erano – a differenza
di oggi - molto differenziate ma potevano essere ricondotte a due
modelli: quello dell’alpeggio gestito come un’unità produttiva unica e
quello dello sfruttamento “dissociato”.
Va subito detto il sistema della gestione unitaria è il
più antico. Gli statuti comunali della montagna bresciana e della
Valtellina illustrano un sistema di “far malga” che equivale ad una
gestione cooperativa del pascolo e della lavorazione del latte. Alcuni
incaricati, eletti dall’assemblea dei capifamiglia, assumevano i
pastori e tutti i proprietari di bestiame erano tenuti a condurlo
sull’alpe comunale (dove si formava una sola malga) e a
partecipare, proporzionalmente al bestiame caricato, alle spese della
gestione. Si tratta di sistemi che sono sopravvissuti sino a pochi anni
fa.
Lo statuto di Cimmo (val Trompia), del 1373, prevede
delle disposizioni articolate circa la gestione dell’alpeggio. I
proprietari delle pecore da latte (le mucche e le capre restavano “a
casa”) dovevano nominare tre officiales: il casaro (casarius), che
riceveva un salario, e tre “anziani”. Ad essi era assegnato il compito
di riscuotere la “tassa”, costruire le cascine e curarne la
manutenzione, assumere i pastori, procurare sale e pane e occuparsi del
trasporto dei prodotti. Essi erano responsabili anche per la custodia
delle pecore e del formaggio.
Diritti e doveri
Il diritto all’alpeggio era garantito attraverso norme
che escludevano i “forestieri” e il bestiame “forestiero”. Dove vi
erano pascoli in eccedenza ai fabbisogni della comunità alcuni alpeggi
venivano però affittati ai “forestieri”. Lo statuto di Teglio, per
esempio, prevedeva che “qualora le alpi avranno malghe o diritti di
malga in eccedenza, tali alpi siano cedute in nome del comune di Teglio
al miglior offerente, con ricavato che andrà al comune di Teglio”. Il
diritto d’alpeggio era bilanciato da precisi doveri. In diversi casi,
gli statuti dissuadono con pene pecuniarie i proprietari del bestiame a
portare le bestie altrove (si sarebbero sottratti al dovere di
contribuire al mantenimento degli alpeggi). L’alpeggio era obbligatorio
in quanto le bestie rimaste “a casa”, o nei maggenghi, avrebbero potuto
sconfinare nei prati, negli orti, nei campi seminati o utilizzare quei
pascoli che dovevano restare a beneficio di tutti in autunno. Erano
previste deroghe solo a determinate condizioni. Lo statuto di Bianzone
(Valtellina) esonera dall’alpeggio gli animali da lavoro ma concede:
“chi avrà para uno de vacche, o manze da lavoro non possa
tenere altre vacche da latte, ne capre, eccetto una capra da latte in
caso di lattare fìgliolini per necessità, della quale sia data
informazione al Decano, e suoi ai quali s’habbia licenza
(autorizzazione) e quali conosciuta sian tenuti a darla “.
Nessuno, senza particolari motivi poteva scaricare il
proprio bestiame prima del termine dell’alpeggio. L’apertura
dell’alpeggio doveva essere rispettata scrupolosamente. Se ciascun
contadino-allevatore avesse fatto a gara per ‘anticipare’ gli altri
avrebbe potuto compromettere la produzione del pascolo. Gli statuti
pertanto stabiliscono date precise di carico e scarico degli alpeggi
coincidenti con feste religiose o con apposita deliberazione. A Tirano
il
“Tempo dell’estate quando si monta nelle Alpi (...) sarà
a quel Tempo giudicherà espediente il Decano ò gli Uomini del
Consiglio, però che detto termine non passi la Festa di S.to Gio.
Battista” mentre “non era possibile descendere dalle Alpi sé non doppo
la Festa di S. Lorenzo de ciascun anno, e più presto ancora secondo
verrà disposto nel Consiglio del dedeci considerata la qualità de
Tempi”.
Il diritto di mandare all’alpe comunale il proprio
bestiame era bilanciato da ben precisi doveri che riguardavano la
prestazione di giornate di lavoro ma anche limitazioni all’utilizzo dei
beni privati “complementari”. La conduzione di cascine limitrofe ai
pascoli d’alpe dava diritto, come già osservato, di “spingere” al
pascolo un numero di capi proporzionale alla produzione foraggera dei
fondi. Questi prati privati erano però sottoposti a servitù a favore
della “mandra comunale” che poteva pascolarvi nei tempi consuetudinari
(diritto di traso).
Tra le antiche norme che regolavano l’alpeggio vale la
pena segnalare anche l’obbligo della noda. Si trattava di quei
segni particolari di riconoscimento degli animali dei diversi gruppi
famigliare (tramandati di padre in figlio) che gli allevatori
applicavano al bestiame al fine diprevenire l’abigeato.
I sistemi di gestione imprenditoriale
I sistemi basati sull’affitto e su una gestione
imprenditoriale vedevano in passato quali protagonisti i mandriani
transumanti o ricchi personaggi locale. Il proprietario dell’alpe
(privato o comune che fosse) puntava in questo caso a riscuotere canoni
di affitto elevati e non poneva vincoli “sociali” alla gestione.
Molti comuni hanno per secoli ricavato la maggior parte delle proprie
entrate dall’affitto degli alpeggi. Avveniva così in val Taleggio, ma
anche nei comuni vicini della valle Imagna e della Valsassina dove,
a partire dal XVI secolo, gli alpeggi precedentemente utilizzati
direttamente dagli abitanti, vennero affittati ai “bergamini”. Nel
XIX secolo il comune di Breno, in Valcamonica, affittava a “malghesi”
20 alpeggi su 25, quello di Bagolino affittava gli oltre 20 “monti” ai
“malghesi” riservando solo il Monte di Vaja (attuale Malga Vaia) ai
piccoli proprietari del comune.
“L’affittuario dovrà mantenere nel Comune di Mezzegra un
buon Toro da tenersi dal 15 Maggio al 30 Settembre sull’Alpe e dal 1°
Ottobre al 15 Maggio a Casa, e ciò sotto la pena della multa di £ 40 e
della rifusione di tutti i danni derivanti ai proprietari delle bovine
per la sua mancanza. Detto Toro dovrà tenersi nella località dove abita
l’affittuario, e se sarà un forestiere, in una delle Frazioni del
Comune, ma mai in cascinali sparsi e lontani dall’abitato. […] Per il
mantenimento di detto Toro l’affittuario non avrà diritto a compenso,
ma potrà esigere centesimi 40 per ogni monta fuori dei mesi di Giugno,
Luglio, Agosto e Settembre, nei quali trovandosi all’Alpe il servizio
sarà gratuito.”
Il corrispettivo dell’utilizzo del latte prodotto dalle
bestie dei “comunisti” era stabilito dal comune e basato sulla “misura”
del latte prodotto dalle bestie di ciascuno di essi. Il
capitolato dell’Alpe di Lenno del 1813 precisava che:
“Il conduttore dell’alpe sarà obbligato a pagare ai
rispettivi particolari dai quali riceve le bestie lirette nove once 12
butirro, e libbre di once 30 nove formaggio all’anno per ogni boccale
di latte di cui viene tassata ciascuna vacca; ben inteso che la
predetta mercanzia debba essere di buona qualità mercantile”.
Un ulteriore obbligo consisteva nel portare sulla piazza
del paese ogni settimana una data quantità di burro da vendere al
prezzo stabilito dalla Giunta comunale:
“Il conduttore dell’alpe prima di estrarre butirro dalla
comunità dovrà provvedere dell’occorrente tutti i comunisti nel
quantitativo che loro abbisogna […] al quale effetto dovrà in ogni
giovedì di ogni settimana nei mesi di giugno, luglio portare sulla
piazza di Lenno lirette duecento di butirro di perfetta qualità
mercantile. […] Prima della vendita del butirro da farsi sulla piazza
di Lenno come sopra dovrà premettersi il suono della campana maggiore
per un buon quarto d’ora e dovrà pesarsi alla presenza della
municipalità o da persona dalla medesima delegata. La quantità di
butirro di sopra espressa dovrà il conduttore venderla ai comunisti
predetti al prezzo di soldi dieci di Milano per ogni liretta di once
12” .
Oltre a questi obblighi gli affittuari dovevano accettare
sul pascolo un certo numero di bestie dei “comunisti” che risiedevano
nei maggenghi limitrofi. Ad Ossuccio:
“Ciascun comunista ha diritto di mandare una vacca e due
allievi al vago pascolo nell’alpe, anche nel trimestre di alpeggio,
ritirandoli ogni sera nella stalla propria: paga allora al comune L. 6
per vacca e L. 1 per allievo. Per le bestie che i comunisti mandano
nell’alpe in più delle tre indicate, pagano all’affittuario L. 12 per
vacca e L: 6 per allievo, pel trimestre di alpeggio. Se il pascolo si
estende a maggio e settembre, le tasse raddoppiano”.
I sistemi di gestione cooperativa degli alpeggi
Questi sistemi traggono origine dal sistema di “far malga
insieme” che abbiamo rinvenuto negli antichi statuti dei comuni. Erano
frequenti sia in Valtellina che in Valcamonica, dove sono sopravvissuti
sino a pochi anni fa. Stefano Jacini (noto uomo politico ed esperto di
agricoltura) alla metà del XIX secolo osservava come:
“[…] e quei comunisti che possiedono in prossimità del
pascolo cascine e prati conducono essi stessi, ognuno per conto
proprio, di giorno , il loro bestiame al pascolo, ritirandolo la sera
nelle cascine. Ma gli altri comunisti consegnano il loro bestiame
a guardiani nominati da loro stessi in apposita assemblea. e pagati a
spese comuni. Il bestiame è così riunito in mandra, il latte lavorato
in comune da un casaro stipendiato, i prodotti divisi in proporzione
del latte fornito dalle vacche di ciascun utente. […] Tutti i comunisti
pagano indistintamente al comune una tassa di erbatico di L. 3 per ogni
paga bovina, L. 1,5 per ogni mezza paga ovina, L. 25 per ogni capo
equino”.
Gli “alpeggi a villaggio”: una gestione famigliare e
femminile dell’alpeggio
Le baite costituivano insediamenti più frequentemente
accentrati, collocati alle quote inferiore dell’alpe ma non mancano
esempi di “villaggio sparso”, costituito da baite isolate o da piccoli
nuclei disseminati sui pascoli (val S. Giacomo).
Le alpi-villaggio sono presenti in tutta la Valchiavenna,
nella media e alta Valtellina (val Malenco, val Grosina, val di
Rezzalo), in alta Valcamonica, in val Marcia e val Varrone (Lc). Casi
sporadici si registrano in Tremezzina (Alpe di Tremezzo), Valgerola
(val Vedrano), Val Veddasca (Alpe di Monterecchio) e Valmasino.
In diversi casi la gestione dell’alpe presentava aspetti
parzialmente cooperativi che prevedevano l’uso comune di ricoveri per
glii animali e/o per la lavorazione del latte. La lavorazione del latte
era realizzata in forma comune, mediante sistema turnario o anche
mediante l’assunzione di un casaro. La lavorazione in comune del latte
in alpeggio, praticata anche in Valcamonica, ha aperto la strada alla
realizzazione (a fine XIX secolo) delle latterie sociali o turnarie nei
villaggi. A Premana (Lc) le alpi comunali erano utilizzate mediante uso
civico; qui, oltre alla latteria comunale, erano presenti anche dei
dormitori per le ragazze e le donne nubili.
“Sul Varrone un parroco, che le madri di allora
benedicevano, aveva voluto che il Comune costruisse in ogni alpeggio un
fabbricato destinato alle ragazze, perché nessuno scandalo accadesse:
lo chiamavano casina di lecc. Quando le fanciulle vi si ritiravano era
tutto un trillar di risa e il capo alpe aveva il suo daffare a
impedire, come obbligavano le clausole dei list [regolamenti
d’alpeggio n.d.a.], che i giovanotti vi si avvicinassero” (Pensa, 1977).
Nelle alpi a villaggio la socialità era intensa e vedeva
spesso le donne protagoniste, rovesciando il modello di società
maschile proprio dell’alpe a gestione unitaria (dove, anzi, la donna
era tabù). Le operazioni di caseificio erano spesso gestite dalle donne
che potevano avvalersi dell’aiuto di pastori per la conduzione della
mandria.
Organizzazione
degli uomini e dello spazio
La gerarchia dell’alpeggio
Negli alpeggi più grandi, organizzati al fine del
profitto d’impresa, vi erano molte figure e molti ruoli. Vengono di
seguito descritte sulla scia di osservazioni relative alla val Tartano,
ma applicabili alle valli limitrofe (Bianchini,1985).
Caricatore (cargamuunt). E’l’imprenditore
che affitta l’alpeggio e vi conduce capi di sua proprietà ed altri
presi a custodia. Egli si assume gli oneri e i rischi della
gestione.
Soci (sòci). Coloro
che dividevano con il caricatore i rischi dell’impresa; di regola
lavoravano come gli altri pastori.
Capo-alpe (cap/regidúr).
Ruolo rivestito dal caricatore, da uno dei soci, dal casaro o
anche da uno dei pastori esperti; al capo compete il piano di
pascolamento (dàa l’erba) e la gestione del personale. Solitamente
esegue anche le operazioni manuali.
Casaro (casèr).
La figura del casaro coincideva con quella del direttore tecnico e del
responsabile amministrativo. A volte partecipava anch’egli alla
mungitura e allo spostamento della mandria.
Aiuto-casaro (cassinèr). Era un
salariato che eseguiva le stesse operazioni degli altri pastori, ma che
doveva anche fare da garzone al casaro (taglio della legna, trasporti,
preparazione dei pasti).
Pastori (pastúr).
Personale che esegue tutte le operazioni di mungitura, governo della
mandria, manutenzioni, trasporti. Ai più anziani sono risparmiati i
lavori più faticosi.
Pastorelli (cascìi/famèj).
Hanno l’incarico di spostare il bestiame e di eseguire le incombenze
più leggere; possono anche partecipare alla mungitura.
Capraio (caurèr/cavrée).
Giovane o anziano che fosse il capraio aveva (e ha tutt’ora)
particolare dimestichezza con le capre; riesce a richiamarle con
vocalizzazioni, fischi, somministrazione di sale.
Pecoraio (pegurée).
Figura scomparsa. Si occupava della custodia del gregge evitando che
esso invadesse i pascoli destinati alle vacche da latte; spesso
utilizzava come ricovero un baitél posto a quote elevate. E’
una figura oggi scomparsa perché i pastori si devono occupare anche
della cura delle manze.
Proprietari del bestiame (lacèr/casàlin). Piccoli allevatori
che affidano ad altri il loro bestiame e restano a valle per eseguire
il taglio del fieno e altri lavori agricoli. Essi salivano in alpe per
consegnare le bestie a inizio alpeggio e per prenderle in consegna alla
fine. Salivano anche per la pìsa. La pìsa (o “misura”)
rappresentava un avvenimento chiave dell’alpeggio; avveniva spesso al
28° giorno di alpeggio, ma, a volte, era eseguita più volte nel corso
della stagione. Non mancavano le occasioni per contestazioni e liti.
L’alpeggio: una realtà strutturata
Gli alpeggi a gestione unitaria possono essere costituiti
da diverse stazioni, ciascuna dotata di fabbricati per la lavorazione
del latte. Sono denominatemudate, corti o cambi.
Spesso gli alpeggi sono suddivisi in 2-3 stazioni, ma ve ne possono
essere anche 5 o più (sino a una decina nelle valli dell’alto Lario
Occidentale). La stazione di “cima” è utilizzata una sola volta, le
altre per la “salita” e la “discesa” (quest’ultima, di norma, più
breve). Il centro dell’alpeggio, dove sorge la casera per la
maturazione del formaggio, spesso coincide con il “piede” (o “fondo”)
dell’alpe. In funzione delle possibilità di accesso la casera può però
sorgere in corrispondenza della “cima” o alla stazione di “mezzo”.
Il dislivello tra le stazioni è di norma di 100-150 m, ma può
arrivare anche a 700 m. Quando l’alpe si articola in due stazioni è
frequente distinguerle in casera/baita/malga “bassa” e “alta”. Se sono
tre di solito vi è quella di “cima”, di “fondo”, e di “mezzo”. Non
tutti gli alpeggi sono dotati di casera e, a volte, si dovevano
avvalere di casere comuni.
Del tutto particolare risulta la suddivisione in stazioni
nelle alpi delle valli del Bitto. Qui si trovano disseminati sui
pascoli sino a una ventina di caléc’. Il calec’può
essere considerato una “stazione d’alpeggio” con la differenza che ogni
anno si utilizzano solo alcuni calec’. Il caléc’ consiste
in una costruzione molto primitiva formata da bassi muretti a secco; è
una “capanna casearia” e, al tempo stesso, un rustico ricovero per il
personale. Quando la malga (la mandria) raggiunge una
determinata zona di pascolo, con al centro il suo bravo caléc’, si
provvede a dotarlo di una copertura provvisoria. A tal fine si
utilizzavano in passato tavole di legno o coperte di lana; oggi, si
utilizzano i più leggeri teloni impermeabili sostenuti da pertiche di
legno. Nel calec’ si trasferiscono lacaldéra e gli altri
attrezzi del caseifico. Qui si resta per alcuni giorni, fintanto che la malga ha
“mangiato” l’erba e si lavora il latte delle vacche e delle capre munte
sul posto. I caléc’ sono tutt’ora utilizzati. Va aggiunto che
dove si usa ilcalec’ vi sono anche casere particolarmente ben
strutturate. Questo sistema si sfruttamento dell’alpeggio si configura
quindi come tutt’altro che “primitivo”.
Uomini e bestie in
movimento
La monticazione
L’alpeggio implica sempre la “monticazione”. Essa
rappresenta uno spostamento in verticale; cui si associa una componente
“orizzontale” più o meno importante. In alcuni casi gli spostamenti per
l’alpeggio implicano il trasferimento da una valle all’altra e persino
lo spostamento tra la pianura e le valli. Si tratta di fenomeni con
diversi significati socio-economici (e culturali) rispetto alla
semplice “monticazione”.
La “monticazione” non avveniva quasi mai mediante
trasferimento diretto dal villaggio all’alpeggio. Tale circostanza si
verificava solo dove la distanza tra il villaggio e l’alpeggio era
molto ridotta come in alcune zone prealpine o all’interno del massiccio
alpino. Quasi ovunque, però, esisteva una realtà intermedia tra il
villaggio e l’alpeggio: i maggenghi. Sui maggenghi ci si trasferiva con
il loro bestiame in primavera (e in autunno) per produrre fieno da
utilizzare in larga misura sul posto e, in parte, destinato ad essere
trasportato al villaggio come scorta invernale. Dal maggengo si saliva
all’alpeggio alle date stabilite e si tornava a fine alpeggio (tranne
coloro che affidavano ad altri il proprio bestiame). Oggi i maggenghi,
spesso scomodi da raggiungere, non dotati di stalle di sufficiente
capienza e con prati inadatti per la raccolta meccanizzata del fieno,
sono stati quasi ovunque abbandonati e, nella maggior parte dei casi,
si sale direttamente all’alpeggio.
La vita alpestre del passato si basava su continui
spostamenti “in verticale” (come evidenziato dal Pracchi,1942). A volte
una famiglia possedeva più maggenghi e ci si spostava da uno
all’altro per “mangiare” il fieno (e pascolare i ricacci).
Nel periodo tra la fine del maggengo e l’inizio
dell’alpeggio spesso i montanari scendevano con il bestiame al seguito
in paese per partecipare alle feste patronali. Lo stesso avveniva anche
al termine dell’alpeggio quando poteva essere celebrata la festa di
fine alpeggio.
L’incessante mobilità verticale di uomini e bestie era
spesso integrata da discese autunnali o primaverili verso la pianura o
i fondovalle. Questi ultimi, a causa delle esondazioni, erano incolti e
rappresentavano aree di pascolo. Oltre ai transumanti, che scendevano
in pianura per tutto l’inverno, alcuni allevatori stanziali delle valli
bergamasche e bresciane scendevano in autunno per pascolare la quartiröla (l’erba
autunnale dei prati). Tornavano a casa prima di Natale. Quando le
scorte invernali di foraggio scarseggiavano gli allevatori potevano
scendere in pianura anche in primavera, prima dell’alpeggio.
Figura 1. a): lo schema classico “di base” dei
trasferimenti stagionali del bestiame su tre livelli altimetrici:
villaggio, maggengo, alpeggio; b): lo schema a due soli livelli
(villaggio e alpeggio), oggi prevalente, ma molto raro in passato.
Figura 2. I piccoli proprietari di bestiame prima
di portare le loro bestie in alpeggio scendevano a volte di maggenghi
in paese con il bestiame al seguito per partecipare a feste patronali e
fare il fieno; lo stesso avveniva al termine dell’alpeggio e prima del
periodo autunnale di soggiorno sui maggenghi.
Figura 3. Spesso lo schema degli spostamenti era molto
più complesso di quello “di base”. Non solo i maggenghi erano più di
uno ma spesso alla migrazione verticale verso l’alto si aggiungeva una
migrazione verso il basso che prevedeva – anche al di fuori della vera
transumanza verso le pianure – dei periodi di permanenza al piano in
autunno e in primavera (il “piano” poteva essere rappresentato o dalla
pianura, nel caso delle vallate prealpine o dal fondovalle).
Transumanza e migrazione alpina
Il concetto di transumanza andrebbe riservato a quegli
spostamenti tra le valli e la pianura che sfruttano con movimenti
stagionali la complementarietà ecologica (ma anche economico-sociale)
dei due diversi ambienti. Gli spostamenti all’interno del massiccio
alpino vanno più propriamente inquadrati nel fenomeno della migrazione
intra-alpina; quest’ultima poteva comportare lunghi percorsi ma aveva
un significato diverso della transumanza (in definitiva era solo un
modo di praticare l’alpeggio un po’ più lontano).
Le zone di destinazione delle mandrie provenienti “da
fuori” sono quelle dove si trovano numerosi ed estesi pascoli: l’alta
Valtellina, la val S .Giacomo, le alte valli orobiche (Brembana,
Seriana, di Scalve, val Tartano, val Gerola), la Valsassina, la media
Valcamonica, l’alta val Caffaro, l’alta Valcamonica. Le valli orobiche
e quelle bresciane erano facilmente raggiungibili dalla pianura ed
erano quindi interessate alla vera e propria transumanza, quelle più
addentro nel massiccio alpino (alta Valcamonica, Bormiense, Val S.
Giacomo) erano raggiunte in estate da allevatori che provenivano dalle
basse valli.
I pascoli alpini della val S.Giacomo sono tutt’ora
caricati con bestiame proveniente dalla zona delle basse valli
dell’Adda e della Mera, nel Bormiese salgono ancora allevatori di
Grosio e di comuni limitrofi, in alta e media Valcamonica diversi
allevatori della bassa valle.
La trasumanza bovina storica
La transumanza tra le montagne bergamasche e la pianura
prende inizio verso il XII secolo. Diversi contratti dell’inizio del
XIII secolo stabiliscono le condizioni alle quali il vescovo e i
feudatari di Lodi e di Codogno concedevano aherbaticum (tassa di
pascolo) fondi per il pascolo a malghesi della val Seriana
proprietari di capre e pecore da cui si ricavavano formaggi che
dovevano essere corrisposti come parte dell’herbaticum utilizzando
capanne in legno con il tetto di paglia. Verso la fine del XIV secolo
si affermò la transumanza “moderna”. Quest’ultima si basava su un
rapporto organico tra gli allevatori di vacche da latte transumanti
(“bergamini” o “malghesi”) e i conduttori delle nuove cascine che
sorgevano numerose dotate di stalle e caseifici nonché di scorte di
fieno prodotte grazie allo sviluppo dei sistemi di irrigazione Tale
rapporto era basato sull’acquisto del fieno per l’alimentazione
invernale della mandria. Esso dava diritto all’uso di edifici per la
lavorazione del latte, delle stalle e dei locali di abitazione nonché a
determinate quantità di legna e farina.
Da allora in poi la transumanza ovina si separerà
da quella bovina mantenendo il carattere “vagante” e continuando ad
utilizzare le golene, gli incolti aridi, le zone paludose. La
transumanza bovina interesserà tra il XV e il XX secolo vaste aree di
pianura comprese tra il vercellese e la bassa bresciana,svolgendo un
ruolo essenziale per il progresso dell’economia agricola. Dal punto di
vista del rapporto tra questo sistema di allevamento e l’alpeggio va
precisato che non tutti i malghesi salivano d’estate in
montagna preferendo spostarsi da una cascina all’altra della pianura.
Per secoli, però, alcune famiglie (in special modo dell’alta val
Brembana) hanno continuato ad esercitare anno dopo anno (tranne che in
caso di guerra) la transumanza tra gli alpeggi orobici e la “Bassa”. Va
segnalata anche una transumanza caprina. legata sia alla vendita di
latte (munto direttamente nelle strade o neglio ospedali) sia alla
necessità di trasferire in pianura greggi numerosi non mantenibili in
inverno con le scorte foraggere disponibili. Questa transumanza, ancora
poco indagata, è attestata tra alcune località della Valcamonica e la
pianura bresciana e bergamasca.
Migrazioni intra-alpine
In alcuni casi la migrazione intra-alpina era collegata
alla presenza di antichi legami tra determinate comunità ed alpeggi
siti a notevoli distanze. In val S. Giacomo il bestiame alpeggiato
proviene tradizionalmente dal Pian di Spagna (Co), da Colico, dalla
bassa Valchiavenna e da alcuni comuni della bassa Valtellina.
L’alpeggio non si basava sull’affitto ma sul possesso di quote di
diritto di pascolo e sullo sfruttamento diretto famigliare
dell’alpeggio.
Gli allevatori delle basse valli della Mera e dell’Adda
possedevano questi diritti in quanto discendenti dei montanari
dell’alta val S. Giacomo che, in passato, scendevano per lo svernamento
nelle piane. Ne derivava una forma di nomadismo messa in evidenza da
Melchiorre Gioia (1804):
“In alcune comuni, come nella valle S. Giacomo, il cui
raccolto non basta per due mesi all’anno, quasi tutto il popolo esce
dal paese, e ad imitazione d’Abramo e di Lot cacciando avanti il
bestiame, va errando per le comuni vicine, e gran parte ne viene sul
territorio Lombardo”
Con le bonifiche dei Piani di Chiavenna, di Spagna e di
Colico si crearono le condizioni per lo sviluppo e dell’allevamento
stanziali e la migrazione stagionale assunse il carattere dell’alpeggio
(sia pure a notevole distanza e con una sosta obbligata a Chiavenna).
Anche altrove i percorsi per raggiungere gli alpeggi potevano essere
altrettanto lunghi. Dalla media Valtellina alcuni allevatori
percorrevano oltre 60 km (che richiedevano due tappe di sosta).
La
gestione dell’alpeggio oggi: verso una realtà famigliare aperta
Al giorno d’oggi l’alpeggio conserva una funzione
economica, sociale e culturale rilevante. Nel 2001 erano quasi 3.500 le
aziende zootecniche che inviavano bestiame all’alpeggio mentre erano
1.800 gli addetti impegnati nel lavoro dell’alpe.
Tabella 2 – Censimento alpeggi Regione Lombardia,
2001
Provincia
|
Alpi |
Aziende conferenti |
Addetti
|
Uba bovini |
Uba totali |
Sup. pascolabile |
Sup.
totale
|
Bergamo
|
126 |
632 |
343 |
7.386 |
12.401 |
18.119 |
41.183 |
Brescia
|
176 |
869 |
401 |
9.860 |
13.431 |
24.812 |
57.501 |
Como
|
51 |
202 |
137 |
2.108 |
2.663. |
5.243 |
11.339 |
Lecco
|
45 |
226 |
146 |
1.789 |
2.646 |
2.847 |
10.591 |
Sondrio
|
264 |
1.542 |
777 |
11.677 |
13.614 |
32.43 |
10.1286 |
Varese
|
3 |
7 |
5 |
120 |
170 |
40 |
505 |
Totale
|
665 |
3.478 |
1.809 |
32.940 |
22.830 |
83.866 |
222.405 |
Uba = Unità bovino adulto
Una delle trasformazioni più profonde subite dal sistema
d’alpeggio è consistita nella semplificazione della sua organizzazione
in “stazioni”.Le norme igienico-sanitarie che hanno comportato costosi
adeguamenti strutturali dei locali adibiti alla lavorazione del latte
che si sono stati concentrati sulle casere principali. Questa tendenza
è stata rafforzata dalla disponibilità di mezzi di trasporto meccanico
e dalla realizzazione di una migliore viabilità interna all’alpeggio.
Molto spesso piccoli alpeggi contigui sono stati
aggregati in una gestione unica con gli alpeggi più grandi e meglio
dotati di fabbricati e infrastrutture.
Vi è, però, una trasformazione ancora più profonda in
atto da diversi anni; essa consiste nell’ affermazione di un sistema
d’alpeggio famigliare. La difficoltà di reperimento di manodopera, e
l’aumento dei relativi costi, hanno indotto diverse famiglie a gestire
l’alpeggio senza ricorrere a personale esterno. E’ una scelta che
coinvolge famiglie con una lunga tradizione d’alpeggio ma anche una
forte passione per questa attività che ha contagiato le nuove
generazioni.
In questo modo si unisce il calore dei rapporti umani dei
vecchi alpeggi-villaggio con lo spirito di imprenditorialità dei grandi
alpeggi “unitari”. Grazie alle presenza dell’elemento femminile e
giovanile è possibile allargare l’attività dell’alpeggio in direzione
di quei “servizi multifunzionali” così importanti per garantire la
redditività dell’alpeggio e per giustificare gli investimenti degli
enti pubblici.
Al di là di queste dinamiche crediamo che l’alpeggio
possa ritrovare anche una dimensione sociale, in grado di coinvolgere
giovani provenienti dalle città e tante altre persone disposte a vivere
esperienze autentiche di formazione e di lavoro in montagna. Ci sono
buone ragioni per credere che gli alpeggi torneranno ad essere luoghi
molto vitali.
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