(05.03.10) Sull'onda di alcuni tragici fatti di cronaca
ampiamente rimbalzati sui media e delle statistiche
sui suicidi, che vedono in testa alcune provincie montane,
si è rilanciato da parte di alcuni studiosi il cliché
della 'montagna triste'. Dai 'tristi tropici' alle 'tristi
montagne'?
Le montagne? Posti tristi! Ovvero nuove e vecchie forme di colonialismo
culturale
di
Michele Corti
Una volta i montanari erano descritti come miserabili,
sporchi, 'selvatici'. Oggi di fronte all'evidenza del
superamento del gap economico tra la montagna e la pianura
si cerca di dimostrare la perenne condizione di inferiorità
della montagna ricorrendo a considerazioni antropologiche
sul 'malessere alpino'.
«I
contadini della zona alpina sono talvolta in condizione
ben triste, specie nelle valli alte più di 1000
metri (…), sono perciò spesso in nulla dissimili dai
loro confratelli del Mezzogiorno (…). Sudici, ignoranti,
amici del loro campanile soltanto (…) segregati dal
mondo civile (…)» A. Mariani 1910 ( p. 433.)
Non molto è cambiato dal 100 anni a questa parte. Gli intellettuali
urbani hanno dovuto prendere atto che il gap tra il
reddito medio della montagna e della pianura si è enormemente
colmato. Anche nelle località colpite dallo spopolamento
pluriattività, attività stagionali, frontalierato, redditi
dei percettori di pensioni definiscono un quadro in
cui non è certo il fattore economico a rappresentare
un handicap.
Ecco allora che la 'tristezza' della montagna viene attribuita
ad una 'miseria esistenziale' fatta di isolamento, 'controllo
sociale'.
Il fatto è che da tempo i montanari percepiscono sè
stessi e la loro realtà con i filtri di una cultura
urbana interiorizzata. Da ormai diversi anni valori
e disvalori sono valutati con il metro di un riferimento alla
realtà urbana altrettando idealizzato delle visioni
bucoliche della montagna delle 'bianche vette e dei
verdi alpeggi' (sui quali torneremo oltre) che rappresenta
la rappresentazione ad uso turistico. E' una montagna
giudicata dagli stessi montanari con gli occhi della
cultura urbana quella che determina il 'lamento'.
La sensibilità degli antropologi però pare non registrare
il fatto che, mano a mano che la forma di vita urbana
diventa quella assolutamente prevalente (Europa 75%
della popolazione, Mondo ormai oltre 50%) e che,
anche in montagna, tendono a prevalere gli aspetti del
modo di vivere urbano (automobile, ipermercato, internet,
cellulare) l'immagine positiva, privilegiata e
desiderabile della 'superiore' vita urbana si
incrina e, anche nelle aree 'periferiche', si diffonde
la cultura del 'rigetto urbano'. L'immagine di
scarsa vivibilità della città, già associata all' 'aria
cattiva' e al traffico caotico, è ora ulteriormente
compromessa sul piano della scarsa sicurezza con le
immagini che quotidianamente la televisione (You tube
e simili) portano anche nelle case di montagna.
Qualità di vita, disponibilità di servizi, occasioni di
svago e socializzazione nelle periferie urbane (peraltro
caratterizzate da un reddito inferiore alla montagna)
sono quello che sono e oggi anche i montanari lo sanno
per esperienza diretta o indiretta. Quanto alla 'ricchezza
di opportunità' della vita urbana è evidente che riguarda
minoranze più o meno privilegiate. Senza entrare nel
complesso problema dell'immigrazione e dei ghetti etnici
(ormai una realtà del panorama urbano delle nostre città)
e limitandoci alla popolazione 'autoctona' viene immediatamente
da pensare che single, donne separate, giovani
(e non) 'precari', che rappresentano una componente
importante della 'fauna' urbana, non se la passano così
bene. Tempo di lavoro dilatato, stili di vita 'destrutturati'
(a cominciare dai pasti) non delineano quel quadro di
vita 'piena' e 'allegra' contrapposta alla 'tristezza'
del vivere in montagna. I locali trendy pieni di giovani
apparentemente spensierati che si godono l'happy hour
non rappresentano la realtà metropolitana.
Quanto all'isolamento sociale degli alveari di cemento dove
non si conosce il vicino di pianerottolo è da tempo
che si sa che è più duro di quello del più sperduto
villaggio alpino.
Le statistiche dei suicidi vedono alcune province totalmente
o parzialmente alpine (Sondrio, Belluno, Cuneo) seguire
Trieste nella triste classifica con valori superiori
a 12 suicidi per 100.000 abitanti. Spie di disagio non
c'è dubbio. Non univoche peraltro perché in Trentino
i suicidi sono inferiori alla media. Ma quanti casi
di anziani trovati in casa morti senza nessuno se ne
accorgesse si sono registrati nelle città? Per questo
fenomeno non ci sono statistiche ma è la spia di una
situazione grave. Più che 'tristezza' qui è disperazione.
Tristi
montagne (parafrasando Lévi Strauss)
Christian Arnoldi, autore di 'Tristi montagne' (2009a) e di uno
studio sulle valli trentine al quale faremo di
seguito riferimenti (Arnoldi, 2009b) ha individuato
una serie di determinanti del malessere. Alcune
riconducono alla visione della 'segregazione' altre
sono più legate a sviluppi recenti. Tra i condizionamenti
sociali presi in considerazione da Arnoldi figura la
'rarefazione sociale' «la solitudine, la difficoltà
di incontrarsi e comunicare». Aspetti della 'rarefazione'
sono: l'invecchiamento, lo spopolamento, l'isolamento
(la distanza fisica o meglio i tempi di percorrenza
in auto dai centri dotati di servizi e attrattive),
il 'tempo fermo'. Per valutare l'enfasi di Arnoldi su
certi aspetti e quella che, a nostro parere, è una chiave
di lettura - legittima ma soggettiva e confutabile -
di alcuni fenomeni sono utili alcune citazioni:
«Mancano
novità, di qualunque genere, tanto meno interessanti
o attraenti, in grado di risvegliare una qualche
emozione. Paradossalmente, l'ossessione per
l'ordine, per la pulizia, per la cura e per l'abbellimento
delle abitazioni e dei villaggi e più in generale del
paesaggio, uniche possibilità di sopravvivenza psichica
per gli abitanti di un luogo in continua trasformazione
come la montagna, aumentano la sensazione di immutabilità
delle proprie condizioni esistenziali e accentuano la
percezione del vincolo e del legame con la propria valle,
sino quasi a trasfigurarla in una angosciante impressione
di segregazione, in una inquietudine derivante da
una sorta di progionia»
Sono evidentemente in gioco dei giudizi di valore. Per Arnoldi
tutto ciò che stabilisce un legame con lo spazio o con
la storia (il 'passato che non passa') rappresenta un
vincolo, un impedimento ad deguarsi ai cambiamenti.
Secondo molti, invece, senza un background nessuna comunità
è in grado di 'selezionare' le innovazioni utili al
suo sviluppo. L'incomprensione di questo autore
nei confronti delle dinamiche che interessano le comunità
alpine è evidente nella valutazione delle rievocazioni
della vita rurale del passato viste in chiave di :
«disperato
tentativo di resistere al cambiamento e alle trasformazioni
attraverso la costruzione e ri-costruzione di quel 'piccolo
mondo alpino' idealizzato messo in scena durante le
feste dei paesi e in ogni occasione di aggregazione»
Lettura a dir poco a senso unico. Chi scrive (Corti, 2005), ma
anche una vasta letteratura internazionale, compresi
antropologi come l'inglese Heady (2001), che ha
studiato delle comunità 'tristi' della Carnia, hanno
fornito interpretazioni del tutto diverse dimostrando
che le feste di rievocazione della vita rurale fanno
parte di strategie - più o meno consapevoli e più o
meno efficaci - di creazione di legami comunitari in
funzione di esigenze attuali e non già di mera nostalgia
senza prospettive.
Gli altri aspetti della condizione di 'tristezza' individuati
da Armoldi sono il respèt e la 'intermittenza esistenziale'. Il respèt (mix di riservatezza e di gelosia dei propri 'confini')
ha per corollari il campanilismo e l'iper-territorialità
). Retaggio di una condizione in risorse scarse e di
mantenimento di spazi famigliari ed individuali in un
contesto di necessaria cooperazione e vita in comune
fianco a fianco il respèt appare oggi una
condizione disadattativa che frena la socializzazione
accentuando le conseguenze della 'rarefazione sociale'.
A questa analisi condivisibile Arnoldi, però, associa
quella delle conseguenze combinate di respèt e
del controllo sociale (tutti sanno tutto di tutti).
Da questo punto di vista ci pare impossibile che non
si tengano in considerazione le conseguenze dei nuovi
mezzi di comunicazione e di socializzazione. Che
controllo possono esercitare gli adulti sui giovani
che socializzano su Facebook? Viene poi da chiedersi
se questo 'controllo' abbia solo valenze negative. Forse
quei vecchietti che muoiono in casa negli alveari di
cemento megapolitani avrebbero preferito avere un po'
più di 'controllo sociale'.
Schizofrenie
alpine, schizofrenie megapolitane
Quanto alla 'intermittenza esistenziale' si tratta, secondo Arnoldi,
di un elemento chiave per spiegare il 'malessere
alpino' i. E' la schizofrenica condizione dei centri
turistici che vivono in una duplice dimensione: quella
convulsa delle 'alte stagioni' e quella letargica del
'vuoto turistico', accentuata dalla presenza
ingombrante di strutture turistiche più o meno imponenti
e dei condomini di 'seconde case' deserti. Nelle stagioni
'morte' i locali pubblici chiudono e per i residenti
vi sono disagi anche oggettivi. Si tratta di una 'sindrome'
definibile della 'giostra e dei larici d'oro' con riferimento
al volumetto con questo titolo ( Gagliardi, 1974) dedicato alla
nota località sciistica di Madesimo. Le foglie
dei larici ingialliscono dopo che i turisti se ne sono
andati e la 'giostra' turistica si è fermata e prima
che riparta (a Sant Ambröos) la più redditizia 'stagione
invernale'.
Questa 'intermittenza' è però
un fenomeno omogeneo e generalizzato? Ogni località
ha una 'morta' più o meno lunga e un rapporto seconde
case/prime case diverso. E poi questa 'schizofrenia'
turistica non ha corrispondenza e complementarietà con
la dimensione urbana che la genera? Ad agosto il pensionato
della periferia e senz'auto non è in difficoltà peggiori
con la città del commercio 'chiusa per ferie'. Per trovare
la mica e anima viva deve andare al Centro Commerciale.
E il 'nomadismo' turistico dei comunque più privilegiati
turisti è scevto da schizofrenie? Stress da rientro,
code in autostrada. E' una gara a chi vive il turismo
in modo più schizofrenico: i montanari o i cittadini?
La
'tristezza' non è un destino
Come dicevamo all'inizio il cliché
della 'montagna triste' non è nuovo. Il sociologo Aldo
Bonomi nella sua opera su 'Il capitalismo molecolare.
La società al lavoro nel Nord Italia' (1997) delineava
7 'Nord'. Tra questi le 'aree tristi'. Queste aree coincidevano
nella classificazione dell'autore con aree di montagna:
valli di Cuneo, vallate laterali valtellinesi, alto
Lario, Valcamonica, Valsugana, Carnia, alto Friuli,
aree confinarie goriziane. L'analisi di Bonomi, però,
coglie - almeno in parte - come la 'tristezza' non rappresenti
un elemento assoluto, irreversibile ma si inserisca
in una realtà di opportunità e conflitti almeno laddove
non si è superata una 'soglia di non ritorno'. In questo
Bonomi si dimostrava molto meno unilaterale e meno condizionato
da 'paraocchi interpretativi' di Arnoldi. Scriveva Bonomi:
« Il
nodo sta nel rapporto tra le risorse locali (prima di
tutto il territorio e l'intensificazione degli scambi
economici, sociali e culturali mediati dall'intensificazione
del turismo) con altre aree più forti e dinamiche. In
questo rapporto, quello che va indagato è il conflitto
innescato dai processi di resistenza rispetto a fenomeni
come la grande distribuzione, il turismo di massa, la
parchizzazione del territorio: tutti fenomeni con cui
si presenta la modernizzazione, percepita spesso come
distruzione di forme di lavoro e di attività produttive
piccole e lente ma consolidate nel tempo»
Analisi
che a distanza di 13 anni possiamo dire confermate come
dimostrano vicende come quella del Bitto storico in
cui la 'resistenza' ai meccanismi delll'economia industriale
ha proiettato in una dimensione di ammirazione e rispetto
internazionali (con interessanti implicazioni per un
turismo 'alternativo' e 'sostenibile' l'esperienza di
un gruppo di 'trogloditi' difensori della tradizione.
A conferma di queste tendenze possiamo citare i segni
di rinascita nelle valli di Cuneo legati ad una
economia identitaria tutt'altro che 'residuale' che
coniuga valori culturali, gastronomici, ambientali .
Qua e là nelle Alpi mentre vanno in crisi i modelli
a rimorchio della pianura e dell'industria recuperano
visibilità e spazio nuovi-vecchi modelli che fanno leva
sulle risorse umane delle 'aree tristi'. Anche l'idea
di un destino irreversibile è messa in discussione da
nuovi insediamenti di neo-contadini e neo-allevatori
che qua e là hanno ripopolato villaggi fantasma ( sarebbero
di più se sostenuti da una volontà politica e da una
clima culturale favorevole).
Bonomi nella sua per altri versi lucida analisi non rinunciava
alla tentazione di avventurarsi sul terreno vischioso
della sociologia politica e di mettere in relazione
'aree tristi' e fenomeni politici notando una forte
correlazione tra 'tristezza' e voto 'leghista'. Una
linea di stigmatizzazione politico-ideologica delle
espressioni di identità culturale o politica da parte
delle comunità alpine che, purtroppo, ha avuto diversi
emuli.
Bianche vette, verdi alpeggi, camicie brune (!?)
E' il titolo di un saggio di Stefano Fait (2009). Una provocazione
eccessiva e dichiarata ma indicativa di un atteggiamento
diffuso tra gli intellettuali liberal. Fait ha il merito
della 'trasparenza', dichiarando apertamente la sua
propensione cosmopolita, la sua devozione senza se e
senza ai valori borghesi dell'individuo.
Così come non dissimula la sua avversione per qualsiasi
cosa che abbia vago sentore di 'comunitarismo', 'etnicismo',
'diritti collettivi', 'identità'. I suoi strali
sono contro la 'proporzionale etnica' (il clima di presunta
apartheid imposto a Bolzano dallo statuto di autonomia) ma l'analisi si
estende al 'populismo alpino' (dichiaratamente contro
Heider, implicitamente contro la Lega).
Ci sarebbe molto da dire sui precedenti storici che hanno portato
allo statuto autonomistico. La rigida difesa attuale
della propria identità, lingua, cultura da parte della
locale maggioranza di lingua tedesca è motivata da interessi
politici ed economici ma non è comprensibile
se non si fa riferimento al drammatico tentativo
di 'pulizia etnica' intrapreso dal fascismo contro il
popolo sudtirolese (per chi non ricorda l'alternativa
era: assimilazione sino alla italianizzazione del cognome
o espulsione verso la Germania; era il 1938, poi c'è
stato altro cui pensare).
Per i 'liberal' come Fait questi sono dettagli; contano solo
i sacri principi della libertà individuale : la memoria
storica collettiva è 'invenzione', l''identità' una truffa.
Ma la tanto venerata libertà si è storicamente
tradotta nella trasformazione dei piccoli produttori
(contadini e artigiani) in salariati sottoposti
ad un controllo personale senza precedenti sull'insieme
della vita delle persone in forza di un « volume
senza precedente di repressione» e «per
disporre liberamente del loro lavoro i lavoratori dovevano
essere privati quindi della loro libertà» (lo dice il noto sociologo di sinistra Bauman -
2005 - distaccandosi non poco dalle 'classiche'
analisi marxiane).
Parallela alla 'liberazione del lavoro' che significò la semi-schiavitù
degli operai fu la 'liberazione' dei beni e dei diritti in
possesso delle comunità rurali e alpine (due processi
interrelati: senza beni collettivi il montanaro è spinto
all'emigrazione definitiva e alla proletarizzazione).
Dove è arrivato Napoleone alle comunità sono stati sottratti
boschi, pascoli e altri beni di cui disponevano
quale proprietà collettiva (privata) trasferendole
al comune politico, articolazione dello stato, e
divenendo quindi di proprietà pubblica. Quando non vennero
ceduti a speculatori. A Zermatt, dove Napoleone e la
liberté non sono arrivate la Bürgergemeinde (collettività degli antichi originari, corrispondente ad istituzioni
ovunque presenti sull'Arco Alpino) ha mantenuto la proprietà
dei pascoli. Così oggi gli impianti da sci e gli alberghi
appartengono alle famiglie originarie del posto
.
Dove è arrivata la libertà (ovvero la dissoluzione dei vincoli
che tenevano 'schiavo' l'individuo rispetto alle organizzazioni
comunitarie) gli impianti di risalita e gli alberghi
sono di società di capitali con sede nelle città ('colonialismo
economico').
La
montagna ha sempre torto
E' interessante notare che, laddove le comunità montanare subiscono
l'assimilazione alla cultura urbana, viene loro
rinfacciata la 'perdità di valori e identità', si parla
di 'spaesamento' e di 'anomia' (che condurrebbe a disagio
sociale e psichico ecc.). Quando, invece, le comunità
cercano in modo più o meno coerente di far valere una
propria autonomia (ricorrendo, in mancanza di meglio, a
immagini convenzionali che indulgono a rappresentazioni
stereotipate della montagna) gli si rinfaccia o di voler
riproporre visioni anacronistiche, inautentiche, 'per
i turisti' o - in alternativa - di peccare di esclusivismo
etnico, populismo, chiusure egoistiche.
Poco ci manca che chi non si conforma al paradigma della
'montagna triste' e 'osa' entusiasmarsi per i 'verdi
alpeggi' sia etichettato dai custodi liberal del politically
correct come 'camicia bruna' (dimenticando che il socialismo
nazionale aveva come riferimenti il militarismo, lo
stato, le masse, l'industria e che la il folkish e il ruralismo erano accessori).
Per i difensori dei sacri principi dell'universalismo, delle
libertà individuali, della nazione dei cives (apparentemente
forniti di uguali diritti e doveri) ogni accenno
a far valere particolarità linguistiche evoca lo spettro
della 'balcanizzazione' delle 'pulizie etniche' delle
fosse comuni. Non è difficile dimostrare che così facendo
essi difendono lo status quo e una situazione in cui molto spesso si difende l'egoismo
di 'maggioranze etniche' e l'esclusivismo degli stati
nazionali.
Con i 'sacri principi' di 'una testa un voto', inserendo la montagna
in collegi elettorali in cui è minoritaria, facendo
valere la massa (che è il contraltare dell'individuo
atomizzato), si è 'elegantemente' tolto peso e potere
politico alla montagna ('colonialismo politico'). Ma
la vera egemonia si ottiene stabilmente solo esercitando
il potere culturale. Gli schiavi devono applicarsi da
soli le proprie catene ed essere consenzianti a portarle.
Una
inferiorità storicamente determinata e reversibile
Che la montagna sia 'inferiore', 'segregata dal consorzio civile',
'triste', 'chiusa nell'immobilismo, nelle gelosie e
nella diffidenza reciproche' deve affermarsi come assioma,
dato indiscusso, tanto da influenzare l'autorappresentazione
degli stessi montanari e paralizzarli. Ottenuto lo scopo
e definitivamente convinti dei loro cronici limiti i
montanari non oseranno esprimere qualcosa di diverso,
di autonomo, e si conformeranno ai valori e agli
interessi urbani dominanti. Un meccanismo culturale
che ci sembra pertinente definire 'colonialismo culturale'.
Tutto ciò è basato sull'assolutizzazione del punto di vista
della pianura, delle città. La segregazione della montagna
è frutto dei confini politici moderni, dello sviluppo
delle moderne reti di comunicazione in funzione degli
interessi urbani dominanti. Nella storia millenaria
delle Alpi vi sono state epoche in cui le montagne erano
solcate da vie di transito mentre le pianure erano 'segregate',
spezzate dai fiumi che scendevano dalle Alpi, divise
da paludi impraticabili. I traghetti (chiamati 'porti'
esistevano ma c'era un dettaglio, costavano parecchio
e i fiumi che scendono dalle Alpi sono tanti).
Quando ci si spostava a piedi o, al massimo, a dorso di mulo
la differenza tra pianura e montagna era meno evidente.
Su un sentiero si va alla stessa velocità. Se invece
confrontiamo lo spostamento a piedi con lo sfrecciare
in auto su un'autostrada le cose cambiano.
Vi sono state epoche, non lontane (parliamo del XIX secolo) in
cui le percentuali più elevate di persone in grado di
leggere e scrivere si trovavano sulle Alpi, in cui l'apertura
al mondo era maggiore da parte dei montanari. Essi giravano
l'Europa come maestranze specializzate, artisti, commercianti.
Quanto alla noia, al 'non succede niente' non è tanto difficile
dimostrare che è l'uomo di città che, spostato dal suo
habitat, non si accorge di cose che non rientrano
nella dimensione del suo mondo artificiale. Ma è la
sua 'inferiorità' a cogliere la variabilità ambientale
che è in gioco.
Oggi con una dimensione di vita trascorsa troppo spesso
in casa, davanti alla TV, o comunque alle prese sempre
con qualche 'elettrodomestico', la vita montanara si
è appiattita in una dimensione spazio-temporale che
non conosce la ricca successione di eventi del passato,
scanditi dai prevedibili ritmi del sole e della luna,
dai ritmi biologici di animali e piante ma anche da
eventi non prevedibili, da momenti di socializzazione,
riti, pellegrinaggi. Ma questa involuzione, forse positiva dal
punto di vista della fatica fisica, deprivante
da punto di vista degli stimoli emozionali e cognitivi,
è qualcosa di insito nella montagna? Per nulla. Alla
noia, al vuoto è possibile reagire, innescare dinamiche
di aggregazione, mobilitazione sociale intorno ai tanti
problemi della montagna. Non è facile, ma è possibile.
Esperienze come il recupero di vecchie coltivazioni in forma
'civica', l'attività degli ecomusei, il coinvolgimento
di scuole e anziani in progetti culturali insegnano
che l'apatia, l'immobilismo, la noia non sono una condanna
definitiva e irreversibile per la montagna.
Quanto poi alla letteratura portata a supporto della tesi
della 'dimensione immobile' e 'triste' della montagna
viene da dire: ma Rigoni Stern l'avete letto?
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