(05.09.09)
Da un incontro tecnico in un
alpeggio del demanio regionale lombardo emerge quanto
sia difficile utilizzare il pascolo come mezzo
di 'manutenzione ambientale'
Troppe normative,
troppe competenze, troppi 'piani' e autorizzazioni.
Come è difficile la gestione multifunzionale dello
spazio silvopastorale
Negli ultimi anni la produzione
normativa in materia forestale in Lombardia è stata
'rigogliosa'. E' vero che alcune norme abrogano quelle
vecchie, ma in pochi anni leggi, regolamenti, circolari
sono stati prodotti a raffica e gli stessi addetti ai
lavori fanno fatica a raccapezzarsi.
Le deleghe agli 'enti forestali'
(provincie, comunità montane, enti gestori di aree protette),
la possibilità di applicare le norme generali regionali
in modo (teoricamente) flessibile attraverso i 'piani
di indirizzo forestale' sono tutte cose sulla carta
positive. Si fatto, però, sono molti gli enti delegati
con competenze in materia e molti gli enti gestori dello
spazio silvopastorale. La normativa poi cambia (e anche
i soggetti
responsabili della sua attuazione e controllo)
se il territorio è compreso entro i limiti della
ormai estesa rete di Parchi, Riserve e siti Natura 2000 (SIC e ZPS).
Di fronte a tutto ciò vi è il disorientamento
dei soggetti chiamati concretamente a gestire la materia
come si è potuto verificare il giorno 3 alla Malga
Rosello (sede del Centro faunistico della Provincia
di Brescia) in occasione della giornata di Forestry
Education organizzata da Ersaf (Ente regionale per
i servizi agricoli e forestali) con il titolo:
'I miglioramenti ambientali a scopo faunistico;
il recupero funzionale delle aree pascolive marginali'.
Va premesso che lo scopo dell'iniziativa
era quello di verificare le possibilità di una
gestione del pascolo finalizzata anche a precisi obiettivi ambientali,
in vista di un rapporto tra esigenze faunistiche, forestali,
pastorali che vada al di là della mera 'convivenza'.
Il sito dove si è svolta la Giornata è stato scelto
in quanto ricade all'interno del grande comprensorio della
Foresta Val Grigna del Demanio regionale (gestito da
Ersaf). La pproprietà regionale comprende 22.000 ha distribuiti in 9 comuni
della Valle Camonica e della Val Trompia. Numerose sono
le malghe ancora caricate dove si producono pregiati
prodotti caseari. Il comprensorio ha anche un grande
valore faunistico (presenza di Gallo cedrone) e sono
in atto, o in procinto di essere attivati, diversi progetti
per valorizzarlo dal punto di vista turistico,
storico-culturale, naturalistico; il tutto senza
ovviamente dimenticare la centralità dell'attività pastorale
che da millenni ha plasmato il paesaggio.
Nella fattispecie presso la Malga
Rosello sono stati attivati degli interventi di miglioramento
ambientale a fini faunistici consistenti nell'effettuazione
di operazione di taglio di Ontano alpino all'interno
di dense formazioni arbustive. Di questo e altro si
è discusso in occasione delll'incontro.
Tra gli addetti ai lavori c'è
perplessità e pessimismo
Da parte delle decine di tecnici
ed esperti convenuti si è concordato che gli interventi
di tipo meccanico ai fini del ripristino di formazioni
vegetali più 'aperte' sono estremamente onerosi e possono
essere attuati solo in combinazione con l'attività di
pascolo (specie ai fini del mantenimento delle superfici
'pulite'). A questo proposito, però, le difficoltà non
sono poche, sia di ordine economico che normativo e
si scontrano con il ginepraio burocratico e la
poca coerenza di certe norme.
Vediamone alcune considerazioni
emerse nell'incontro tecnico a Malga Rosello:
1) i contributi previsti dal
Piano di sviluppo rurale per il pascolo escludono le
superfici boscate e cespugliate e questo disincentiva
i pastori dal mantenere le aree marginali degli
alpeggi promuovendo la graduale perdita di superfici
per espansione dei cespuglieti e neoformazioni;
2) la Rete Natura 2000 ha posto
sotto tutela tutta una serie di formazioni vegetali;
ciò in aggiunta alle previsioni normative precedenti
(tipo rododendro 'pianta protetta') rendono impossibile
intervenire con il taglio o il pascolo;
3) la legge forestale (L.R. 31/2008)
all'art 51, comma 4 consente il pascolo in bosco con
la finalità di 'prevenzione di incendi boschivi e di
conservazione del paesaggio rurale' (l'idea che gli
animali pascolino in bosco per alimentarsi - come avviene
da millenni - è evidentemente considerata eresia) ma lo
condiziona ai piani di indirizzo forestale e, in mancanza di
essi,
ad apposita autorizzazione dell'ente competente in materia
forestale e, in ogni caso al rispetto delle norme forestali.
Ricordiamoci che nel vigente regime
burocratico ottenere autorizzazioni significa pagare
un tecnico progessionista, produrre mappe, citare parcelle
catastali ecc.
E cosa dicono le norme forestali?
Che il pascolo è consentito solo
nelle fustaie mature con altezza media delle piante
superiore a 10 metri e, nei cedui, solo dopo 10 anni dall'ultima
ceduazione. Che è vietato nelle fustaie disetanee ed
irregolari, che è vietato nei boschi percorsi dal fuoco
da meno di 10 anni, che è vietato ... nei boschi di
neoformazione sino allo stadio di perticaia
(ovvero i 10 m di cui sopra).
Ma almeno
nei cespuglieti si può pascolare? Macchè. Posto che
se sono compresi nell'ambito
della Rete Natura 2000 si ricade nei vincoli di cui
sopra, è l'assurda definizione di 'bosco' della legge
forestale a precludere anche questa possibilità. Che
cosa dice, infatti, la 'definizione di bosco' (Art.
42 legge forestale regionale). A leggere tutto l'articolo
viene da ridere. Praticamente dove c'è un fazzoletto
di terra con quattro cespugli è bosco e va tutelato
come tale. Tanto è vero che per dire cosa non è
bosco si arriva a sfiorare il ridicolo precisando che
('non sono bosco le coltivazioni di alberi di Natale).
Veniamo
all'articolato. Sono considerati bosco:
a) le formazioni
vegetali, a qualsiasi stadio di sviluppo, di origine naturale o artificiale,
nonché i terreni su cui esse sorgono, caratterizzate simultaneamente dalla
presenza di vegetazione arborea o arbustiva, dalla copertura del suolo,
esercitata dalla chioma della componente arborea o arbustiva, pari o superiore
al venti per cento, nonché da superficie pari o superiore a 2.000 metri
quadrati e larghezza non inferiore a 25 metri;
b) i rimboschimenti e
gli imboschimenti; c) le aree già boscate
prive di copertura arborea o arbustiva a causa di trasformazioni del bosco non
autorizzate.
La colonizzazione spontanea di
specie arboree o arbustive su terreni non boscati dà origine a bosco solo
quando il processo è in atto da almeno cinque anni.
E'evidente
che è una norma superprotezionista che eredita definizioni
che andavano bene 60 anni fa quando i boschi
erano stati decimati ma che ora è assurda dal momento
che, come dovrebbero capire tutti,
la montagna va difesa dall'avanzata del bosco. E'
bosco anche un terreno che era pascolato sino a 5 anni
prima e che ora è invaso per il 20% da cespuglietti (non
da alberi, attenzione). Altre regioni almeno definiscono
un minimo di sviluppo in altezza di questi arbusti.
La legge lombarda no. E' radicalmente boschista, boscofila
(nel disinteresse dei politici per simili quisquiglie
non ritenute abbastanza 'politiche'). Sappiamo bene con quale velocità
gli arbusti (rododendro, ontano vere, ginepro, rosa
canina, rovo, lampone, ginestra ecc.) invadano prati
e pascoli (specie a quote non elevate in condizioni
climatiche insubriche). Se per pochi anni un pascolo non viene utilizzato
diventa bosco e non si può più pascolare.
Può succedere semplicemente perchè l'alpeggio 'salta' un contratto
di affitto, perché una zona del pascolo non viene utilizzata,
perché - con la compiacenza degli organi di controllo
- i pascoli vengono affittati ad aziende della
pianura che non mandano in alpeggio bestiame e pagano
l'affitto solo per avere i contributi e ridurre
il carico di Uba ... e il pascolo di incespuglia).
Le
norme forestali dicono poi che il pascolo delle capre
nel bosco è vietato. Considerato cosa si intende per
bosco e considerato che la capra è l'animale più utile
per 'pulire' le boscaglie e contenere l'avanzata delle
neoformazioni di piante legnose
non
si può non concludere che si vuole caparbiamente, ostinatamente
restare fermi ai pregiudizi
di secoli fa. Inoltre
gli animali che pascolano nel bosco devono essere custoditi
confinandoli con recinzioni elettriche (una previsione
che non tiene conto che il pastore con i cani anche
se non è costantemente presente sul posto può benissimo
'controllare' il gregge e che posare le recinzioni implica
un notevole aggravio di manodopera).
Quanto
alla possibilità degli 'enti forestali' di applicare
deroghe e forme di 'flessibilità' ai piani di indirizzo
si deve purtroppo osservare che nessuno ha osato sfidare
il conformismo. La cultura 'forestalista' dei tecnici
addetti ai piani (spesso estranei all'ambiente locale
e quindi operanti molto a tavolino) è sempre quella
e non ci si poteva aspettare molte novità. Politici e amministratori
locali delegano agli 'esperti' e gli 'esperti' ragionano
in modo settoriale applicando i criteri delle loro
discipline consolidate (altro che multifunzionalità
e ruralismo!).
Dalla
'tolleranza' al riconoscimento del ruolo di pubblico
servizio del pascolo estensivo
Si
dirà (ed è stato osservato anche all'incontro a Malga
Rosello) che tutte queste prescrizioni e il sostanziale
conformismo forestale nella realtà dei fatti non vengono
fatti osservare e che c'è 'tolleranza'. A parte che
non si capisce perché si debbano mantenere norme anacronistiche
per poi disattenderle quello che non si vuole capire
è che il pascolo nelle aree marginali è esercitato non
solo per reperire risorse foraggere a basso costo e
avvantaggiare gli allevatori/pastori, ma anche per 'tutelare
il paesaggio e la biodiversità'. Ma mantenere gli animali
in zone a forte pendenza, cespugliate, di difficile
accesso implica un forte impegno da parte dei conduttori
delle greggi/mandrie. Come è possibile che questo tipo
di pascolo multifunzionale sia esercitato 'di sfroso'?
Deve, al contrario, essere riconosciuto e prevedere
una integrazione di reddito. Esso è, almeno in
parte, 'pascolo di servizio' ovvero esercitato in modo
produrre pubbliche utilità. E perché questo 'servizio
pubblico' non dovrebbe essere riconosciuto e remunerato?
Se
non si risolvono questi problemi continueremo a vedere
buttare via i soldi in 'interventi ambientali'
del tutto inutili. Mantenere le praterie aride ricche
di biodiversità con i decespugliatori, tagliare
le ceppaie di ontano o di altri arbisti con la motosega,
entrare con le frese e le trince a 'pulire' i terreni
inarbustiti non serve a nulla. L'animale è dal neolitico
l'alleato naturale dell'uomo nel 'gestire' la vegetazione.
Solo la supponenza della nostra epoca tecno-scientifica
che crede di sostituire con i saperi 'esperti'
, le tecnologie, l'uso concentrato e dissipatorio dell'energia
la saggezza accumulata dall'uomo pastore-contadino può
pensare di fermare i boschi con le macchine e non
con gli animali e con il fuoco (proibitissimo in Lombardia,
utilizzato legalmente in Svizzera ai nostri confini).
Se non c'è il morso dell'animale
che bruca i ricacci le azioni di taglio meccanico
sono inutili, le piante arbustive ricrescono più vigorose.
E poi (come dice proprio oggi sulla stampa il Ministro
Zaia a proposito delle greggi impiegate per 'manutenzione
ambientale') gli animali solo 'operai a buon mercato'.
Nell'incontro
di Malga Rosello si è anche detto che il pascolo estensivo,
invece che essere ostacolato, dovrebbe essere incoraggiato
al massimo in quanto forma altamente ecologica di produzione
(sia pure in quantità limitate) di alimenti sani ottenuti senza
usare combustibili fossili. Scarsamente efficiente dal
punto di vista della economia di mercato delle commodities
il sistema di pascolo estensivo, che non 'ruba alimenti'
alla disponibilità delle popolazioni umane, è estremamente
efficiente in termini energetici in quanto converte
l'energia solare in carne e latte di alta qualità. Le
deiezioni degli animali vengono sparse sul pascolo e
riciclate dalla vegetazione evitando accumuli, perdite
e lisciviazioni massive come nel caso della zootecnia
intensiva che produce latte e carne a prezzo di un forte
impego di cereali, ottenuti con grande dispendio
di carburanti, acqua di irrigazione, concimi chimici
e pesticidi.
Servirebbe
una svolta culturale. Il pastoralismo è oggi una cenerentola,
un figlio di nessuno. Il settore agricoltura ragiona
sempre (erroneamente) in termini di efficienza aziendale
e di mercato, quello foreste in termini di prevalente
'protezionismo'. Due logiche opposte che non si incontano.
Il pastoralismo ne fa le spese.
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