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Il cane pastore della Lessinia/Lagorai verso il riconoscimento Enci
(07.05.18)
Il riconoscimento da parte della cinofilia ufficiale di una razza
canina utilizzata a tutt'oggi dai pastori, e malghesi, del Nord Italia
rappreseneta un importante contributo alla valorizzazione del
patrimonio di diversità biologica e culturale associato al pastoralismo
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La festa dei cani pastore (a
Cusio)
(28.08.17)
Agosto è mese di feste in montagna e da diversi anni gli alpeggi sono
protagonisti di iniziative finalizzate ad avvicinare chi fruisce la
montagna per relax, sport, turismo. Tra le varie iniziative vi sono
anche delle gare dedicate ai cani pastore e ai loro conduttori. Gare
particolari, perché la prova di lavoro non è, come di regola con i
cani, su ovini, ma su bovine da latte. Hanno ben poco a che fare
con il mondo della cinofilia, delle competizioni Enci. Occasione per
ricordare il lavoro insostituibile dei cani da conduzione queste gare
sono prima di tutto una festa della montagna, un'occasione per
avvicinare pastori e malghesi di valli vicine e lontane.
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Articoli per argomenti
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Raduno congiunto del cane da pastore di
Oropa, della Lessinia-Lagorai
e del Pastore delle Alpi apuane. Note a margine
(05.06.18) Dal
raduno del 27 maggio scorso, a Fara Gera d'Adda (Bg), sono emerse buone
prospettive per la costituzione di una razza di cane pastore (di nome e
di fatto) del Nord Italia
testo e foto di Matteo Mazzoni
Premessa
Abbiamo avuto civiltà senza cavallo,
persino civiltà senza ruota. Mai civiltà senza cane. Senza cane, niente
uomo (Piero Scanziani).
La
cinofilia è una branca della zootecnia.
Questo
dovrebbe essere abbastanza chiaro, anche se purtroppo i cinofili stessi
tendono a dimenticarselo.
Nelle
zootecnie e nelle agricolture tradizionali, di tipo estensivo, fu in
atto un rapporto uomo-territorio che richiama alla mente una armoniosa
- seppur non certo bucolica né facile - cooperazione tra uomo e
habitat. Le razze animali domestiche sono tra i numerosi frutti di tale
legame.
Si
andò a stabilire un rapporto di simbiosi tra uomo e animale laddove il
primo si garantì sostentamento, il secondo protezione dai predatori,
riparo, cibo. Entrambi si plasmarono l’un l’altro. L’uomo ne ricevette
la possibilità di prosperare, ne fu influenzato inoltre nella sua
cultura; l’animale fu selezionato, sia dall’uomo che dall’ambiente,
perché fosse adatto ad un determinato tipo di territorio e ad una
determinata funzione. Entrambi ci guadagnarono la continuità della
specie: la sopravvivenza.
Qualcosa
poi cambiò e l’uomo, col sopraggiungere del progresso tecnico,
abbandonò gli allevamenti estensivi ed adottò nei confronti del proprio
territorio un atteggiamento differente.
Il
termine italiano “cultura”, deriva dal latino “colere”, ossia
“coltivare”. Il filosofo francese Derrida, affermò che la corretta
origine del termine “cultura” si ritroverebbe invece nel latino “colo”,
da cui deriva anche il termine “colonizzare”. Effettivamente, coltivare
è - anche - un colonizzare. Eppure ai nostri orecchi contemporanei tali
termini appaiono di segno opposto. “Coltivare” significa per noi un
prendersi cura di, un far crescere. Colonizzare è piuttosto un
violentare, uno sfruttare, un distorcere antropocentrico e capriccioso,
spesso anche ideologicamente diretto.
Si
possono dunque identificare due atteggiamenti dell’uomo nei confronti
del proprio territorio: due diversi modi di abitare. Uno, riferentesi
al termine “cultura”, è la strada della co-abitazione con la natura,
anzi, NELLA natura; l’altro, colonizzante, indica la via del dominio su
di essa.
L’astrazione
dell’uomo dal suo territorio ha purtroppo aperto la strada all’idea
deviante di un vivere come cosa astratta, apolide, distaccata da ogni
universo di senso e da ogni sentimento dell’abitare un luogo preciso.
Questa forma ideologica ha investito ogni ambito del vivere umano,
tanto da aprirsi alla prospettiva escatologica del transumanesimo, dove
la relazione stretta tra uomo-territorio-animale viene sostituita
dall’interfaccia uomo-macchina.
L’animale
non risulta più essere un qualcosa di facente parte di un universo
culturale o civile, ma viene percepito invece come un mero strumento di
produzione (allevamento intensivo), come un surrogato emotivo o come
uno status quo (si pensi al moderno business dei “pets”), oppure come
un qualcosa di “altro” intoccabile ed incontaminabile (ideologia della
wilderness).
Per
reazione a questo stato di cose, ad oggi da più parti si cerca di
preservare quel patrimonio di biodiversità domestica che in così poco
tempo è stato brutalmente abbandonato, lasciato sulla via
dell’estinzione per inseguire logiche economicistiche o ideologiche.
Purtroppo,
tra le varie specie e razze delle quali si è tentata la tutela, pare
che per molto tempo le popolazioni canine non comparissero. Eppure, lo
si è detto, la cinofilia è zootecnia… Evidentemente il carico simbolico
che la cultura e l’immaginario collettivo attribuisce al cane è
rapidamente mutato di segno.
Il
cane è visto come cosa altra rispetto alle altre specie allevate; ed in
parte a ragione, in quanto esso non può esser definito un “animale da
reddito” a pieno titolo. Eppure il legame delle razze canine, specie
quelle pastorali, con il proprio territorio, con le razze bovine ed
ovine in funzione delle quali sono state selezionate, dovrebbe essere
evidente a chiunque abbia un minimo di onestà intelettuale.
Scrive
infatti Vladimir Beregovoy, studioso cinofilo:
ogni
razza aborigena (cioè autoctona n.d.a.) è meglio caratterizzata per la
sua capacità di fare un lavoro specifico localizzato nei suoi unici
areali geografici, insieme al posto che occupa nella cultura di un
determinato gruppo etnico con cui essa vive (…).
Ma
per quale motivo dunque, oggi, parlare della preservazione delle razze
autoctone bovine, ovine ecc… rappresenta un argomento di fronte al
quale l’opinione pubblica si rivela tutto sommato sensibile, mentre le
tesi sostenute da chi vorrebbe difendere le razze canine autoctone,
vengono bollate come “campanilismo”?
Eppure
”abbiamo avuto civiltà senza cavallo…ma mai civiltà senza cane”…
E’
davvero possibile separare con un taglio netto, ad esempio, i legami
che stringono le Alpi biellesi, la vacca Razzetta d’Oropa, la pecora
biellese ed il cane da pastore d’Oropa?
E’
possibile separare quella che qualcuno ha definito “la civiltà dei
bergamini” ed il cane da pastore bergamasco? E’ così difficile
comprendere che senza il cane da pecore d’Abruzzo, quella civiltà,
nonché quella economia pastorale, non avrebbe mai potuto esserci? O
almeno: non senza l’armoniosa e reciproca interconnessione e la
dinamica modificazione perpetua tra l’uomo, l’animale ed il territorio…
Come
non comprendere il miracolo rappresentato dall’associazione mimetica di
colori del manto di un cane da pastore della Sila e di quello delle
capre di cui è custode?
Che
la cinofilia contemporanea sia colma di difetti e distorsioni, questo è
sotto gli occhi anche dei meno esperti. Non è il caso qui di
approfondire tale argomento. Basta considerare il crescente grado di
“urbanizzazione”, come la definirebbe G. Colombo, delle razze canine.
Gigantismi,
cani da borsetta, eccessi ipertipici, canne nasali sempre più corte,
rappresentano l’azione selettiva di un uomo non più interessato ad un
cane “utile”, ad un cane cioè che accompagni l’uomo nel suo abitare un
territorio, ma piuttosto al capriccio estetico. Qui sta tutta la
differenza tra le “razze naturali”, meglio da definirsi “aborigene”,
strettamente legate ad una specifica etnia, ad uno specifico
territorio, ad una specifica economia, e quelle iperselezionate “a
tavolino” e trasformate in prodotti di mercato.
Scrisse
giustamente ancora Giulio Colombo, altro grande cinofilo:
Sul
posto, a contatto severo e costante con la funzione, collaudo
perentorio di attitudini che si affinano con l’esperienza, patrimonio
che si fa spontaneo e trasmissibile, si addestrano da sé, autodidatti
magnifici di un’arte antica, si rafforzano con la fatica, si fanno
belli, funzionalmente belli (…) Poi i cinofili, distogliendoli dalle
loro mansioni, che vuol dire: da se stessi, li uniformeranno al
carattere generico del cane da esposizione. Nobile tentativo di non
lasciar estinguere una razza (…). Il pastore tedesco impera oggi
egregiamente nel favore universale come ausiliare sociale: ma il cane è
rimasto pastore? Probabilmente ogni razza vive la propria epoca e non
oltre. Poi sopravvive a testimoniare di sé, malinconicamente, perché a
far la razza non è l’aspetto soltanto, ma la funzione…
E’
a partire da questa consapevolezza che piccoli gruppi di cinofili,
hanno iniziato autonomamente ed indipendentemente tra loro, a pensare
che fosse necessario proteggere le popolazioni canine locali
dall’invasione di razze estere che la globalizzazione ed insieme la
moda commerciale rischiavano di travolgere ed estinguere; seppur
cominciando contemporaneamente una battaglia culturale contro lo
sradicamento dei cani dalla loro funzione lavorativa. E così negli
ultimi anni sono nati numerosi club che si proponevano di raccogliere
quanto rimasto delle popolazioni canine autoctone italiane, per tentare
di intavolare progetti di tutela, culminanti nella richiesta di
riconoscimento nei confronti dell’Ente Nazionale della Cinofilia
Italiana.
In
particolar modo, nel Nord Italia, nacquero club di tutela per il Cane
da Pastore d’Oropa, per il Cane da Pastore delle Alpi Apuane e, per
ultimo, per il Cane da Pastore della Lessinia e del Lagorai.
A
compimento degli sforzi indipendenti di queste associazioni, l’ENCI ha
organizzato un raduno congiunto, lo scorso 27 maggio a Fara Gera d’Adda
(BG), al fine di permettere una valutazione incrociata di queste
popolazioni, evidentemente imparentate, e di compiere valutazioni
morfologiche e ricerche genetiche allo scopo di poter avere un quadro
completo della situazione in vista di un possibile riconoscimento
ufficiale.
Oltre
150 cani (in prevalenza netta Lessinia/Lagorai) sono stati valutati da
giudici ENCI, misurati, schedati. Sono inoltre stati eseguiti prelievi
di sangue allo scopo di organizzare una ricerca genetica.
Solo
a partire dai risultati di queste ricerche sarà possibile stabilire se
ci si trova di fronte a popolazioni con una omogeneità tale da potersi
costituire in razze, e soprattutto se, di conseguenza, si dovrà parlare
concretamente di tre razze differenti, oppure di varianti locali di una
razza unica, come ci sembra evidente.
Il
cane da pastore delle Alpi
Non
è questa la sede per impegnarci in una dissertazione storica sulla
domesticazione del cane oppure sulla nascita del cane pastorale nei
suoi ruoli distinti di guardiano e conduttore. Vorremmo invece provare
a chiederci, pur sapendo che le fonti storiografiche sono piuttosto
scarse, quale sia l’origine dei cani da conduzione alpini.
Secondo
alcuni autori, l’origine dei cani da conduzione portatori del gene
“merle”, tipici sulle nostre alpi, sarebbe da ricercare nell’Europa
occidentale: penisola iberica e probabilmente isole britanniche. Da qui
questi cani sarebbero giunti in Italia al seguito delle greggi (oltre
che in Francia, Germania e così via), nel tardo medioevo.
Ipotesi
da non scartare, ma che deve essere assolutamente integrata con le
testimonianze sulla presenza di cani impegnati in una cultura rurale ed
agropastorale già in epoche di molto antecedenti.
Porteremo
alcuni esempi.
Come
dimostrano alcune incisioni su situle (manufatti in lamina di bronzo),
i popoli paleoveneti, allevatori di bestiame ed artigiani, stanziatisi
nel nord Italia già dal II millennio a.c., utilizzavano già il cane da
conduzione. In effetti questi popoli, giunti dall’Anatolia, ebbero
probabilmente modo di conoscere, più o meno direttamente, essendo parte
di una delle numerose ondate di conquista da parte dei popoli
indoeuropei, la culla stessa dell’allevamento di bestiame: la
Mesopotamia.
La
situla Benvenuti ad esempio, ritrovata ad Este, è un contenitore a
secchiello in bronzo sulla quale sono raffigurate diverse scene e, tra
esse, pare essere rappresentata la figura di un uomo che, tenendo un
cane al guinzaglio, incita un bue. Prova questa dell’utilizzo del cane
in ambito agricolo in quell’area, già nel VII secolo a.c.
A
Monzambano (Mantova), nell’area archeologica della Tosina, è stato
portato alla luce lo scheletro di un cane, risalente a 6.000 anni fa.
Un cane dall’aspetto lupoide, mesomorfo, alto meno di 50 cm al garrese,
con una frattura cicatrizzata ad una vertebra: il che indica che i
contadini, allevatori e artigiani che abitarono il villaggio che è oggi
area archeologica, se ne presero cura, nonostante la disabilità. Un
rapporto di mutua assistenza che è comprovato dal ritrovamento nel
vicino sito archeologico di Valdaro, di un uomo sepolto con il proprio
cane, forse di piccola taglia o forse un cucciolo.
Sulla
seconda stele ritrovata a Bagnolo, nel comune di Mignone, in
Valcamonica, si trovano rappresentati, tra le altre figure, anche un
cane d’aspetto lupoide ed un uomo con un aratro. Segno, anche qui, che
le popolazioni indoeuropee stabilitesi in quella zona nel III millennio
a.c. ben contemplavano la presenza dei cani anche in seno a società a
vocazione contadina.
Perciò,
se non è possibile, per assenza di fonti, affermare che i cani
conduttori alpini siano radicalmente autoctoni del Nord-Italia da
millenni, è ragionevole immaginarli come il prodotto di numerose ondate
migratorie di popoli che, recando con sé i propri cani, diedero vita a
un quadro secondo il quale a più riprese diverse popolazioni canine
antiche, d’aspetto lupoide, poterono sovrapporsi ritrovandosi inserite
in civiltà che conoscevano sia l’agricoltura che l’allevamento.
Un
recentissimo studio genetico, svolto negli Stati Uniti ma con la
partecipazione di diverse università italiane, ha permesso la
compilazione di uno schema filogenetico, calcolato in base alla
distanza genetica tra le razze canine, secondo il quale un antico
antenato ignoto sarebbe stato progenitore del Cane da Pastore
Bergamasco, che risulterebbe il più antico tra i cani alpini, e poi di
tutte le altre popolazioni alpine oggi esistenti: Oropa,
Lessinia/Lagorai, Apuano. Ovviamente questo studio è stato condotto con
un limitato numero di campioni genetici disponibili, purtroppo.
Perciò,
sia gli studi storici che quelli genetici in materia sono tutti da
sviluppare, e ci auguriamo che la richiesta di riconoscimento ufficiale
per le nostre razze alpine possa condurre a nuovi approfondimenti e
nuovi studi.
Ciò
che ci sentiamo di poter dire è che, al netto dell’interferenza
genetica di popolazioni esotiche che la globalizzazione ha introdotto
in Italia, le nostre razze canine hanno origini antichissime, e d’altro
canto il motivo è ben immaginabile, se è vero come è vero che nel
Nord-Italia, seppure in diverse forme a seconda del luogo e del tempo,
la pastorizia è certamente molto antica, ed i cani hanno vissuto in
queste comunità agro-pastorali già da molto tempo prima del recente
arrivo di border collie o di altre razze di gran moda, dalle quali
qualche malalingua vorrebbe far discendere i “nostri”.
Conclusioni.
Un appello
In
attesa del responso dell’ENCI riguardo al riconoscimento delle nostre
razze autoctone, vorremmo fare un appello.
Le
razze pastorali non possono che trovare la loro miglior conservazione
che in ambito pastorale. L’eventuale riconoscimento ufficiale di queste
razze, che siano tre, o che siano varianti di una razza unica, col
tempo consentirà che queste possano venire allevate come tutte le
razze, e che possano partecipare a esposizioni e gare di valutazione
morfologica. Ciò potrebbe condurre all’aberrazione di una selezione
unicamente mossa da criteri morfologici e non funzionali, cosa che non
è affatto nei piani di chi in questi anni si è impegnato per la tutela
di questi cani, essendo lo scopo primario della richiesta di
riconoscimento quello di evitare l’estinzione.
Se
è vero che i club di razza potranno imporre il superamento di
determinati test attitudinali su bestiame almeno per i campioni
riproduttori, è altrettanto vero che niente e nessuno potrà impedire un
domani di allevare questi cani senza che essi siano nemmeno mai entrati
a contatto col bestiame, col rischio di depauperare un patrimonio
attitudinale che va invece difeso con le unghie e con i denti…
E
se resta vero che lo sheepdog (competizioni tra cani conduttori) è
comunque estremamente utile per poter valutare l’attitudine dei cani, e
lo dimostrano gli ottimi successi che il Pastore Bergamasco sta
ottenendo, rivelandosi poi efficace anche introdotto al lavoro vero e
proprio, è altrettanto vero che la vita pastorale vera resta ben altra
cosa.
Motivo
per il quale il destino di queste razze, se riconosciute ed una volta
riconosciute, sarà di nuovo nelle mani dei pastori, o comunque del
mondo rurale. Bisogna comprendere che l’allevamento cinofilo, se fatto
rispettando criteri etici, morfologici, sanitari ecc… può diventare,
oltre che la salvezza delle nostre razze, anche una buona opportunità
economica complementare per chi alleva ovini o bovini. Un cliente
correttamente informato e club di razza efficaci potrebbero
accompagnare il pastore verso un allevamento cinofilo coscienzioso.
Perciò amici pastori: non abbandonate le nostre razze autoctone! Voi
siete la loro salvezza, e loro per voi possono rappresentare, oltre che
un motivo di vanto, anche una opportunità!
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