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[Il ritorno delle vendite dirette]

 


La "filiera corta" del latte non è utopia. Nel 1988/89 le vendite dirette rappresentavano il 7,6% del totale commercializzato, nella seconda metà degli anni '90 erano scese all' 1,5%, nel 2007/2008 siamo risaliti al 2,7% (15.02.09)

La crescente polarizzazione tra zootecnia da latte industriale e artigianale deve spingere subito allevatori e politici a scelte chiare e coraggiose

Allevatori, politica, "agenzie" devono rendersi conto che i "circuiti brevi" di commercializzazione non sono una moda ma una necessità

E' ancora modesta la quota delle vendite dirette, ma da alcune campagne lattiere in qua essa ha cominciato a risalire, grazie anche al latte crudo e alla diffusione dei "mini caseifici" aziendali.

Dietro questi numeri si scorgono dei fenomeni di ampia portata che riguardano non solo il mondo della produzione zootecnica ma, più in generale, quello dell'agricoltura e lo spazio rurale.

La ripresa delle vendite dirette è il riflesso di una polarizzazione sempre più evidente che la prossima liberalizzazione delle quote latte non farà che esasperare: resteranno i piccoli allevamenti di qualche decina di capi orientati alla vendita diretta e alla trasformazione e quelli di parecchie centinaia (o persino migliaia) di capi.

 

Le aziende che producevano latte erano in Italia ben 181mila nel 1988/89; sono calate a 81mila dieci anni dopo e, nel 2007/08, ne restavano solo 44mila. La produzione media commercializzata per azienda lattiera nel frattempo è passata da 60 a 253 tonnellate. Questi dati, però,  non rispecchiano l'abisso che esiste tra la montagna (e le altre zone svantaggiate) e la pianura. In pianura le aziende rimaste sono 21mila e la produzione media è di 450 t. Il processo di "concentrazione", infatti, è stato molto più forte in pianura. Mentre la produzione media per azienda in pianura triplicava quella nella montagna e nelle zone svantaggiate cresceva solo del 50%. Come è noto, però, anche in montagna e nelle zone svantaggiate accanto a piccoli allevamenti che hanno chiuso ve ne sono altri che sono assurti a una dimensione "media" e che, nei fondovalle e negli altipiani  - con le condizioni più favorevoli - hanno a volte raggiunto anche dimensioni "da pianura" (con 100 e oltre vacche in lattazione).

 

Con l'abolizione delle quote latte e la possibilità di utilizzare per la fabbricazione dei formaggi sino al 10% di caseinati (provenienti da Australia, Argentina, dove il prezzo del latte è molto più basso che in Europa) le prospettive sono di sicura flessione del prezzo del latte. Ciò porterà alla crisi di quella fascia di allevamenti "medi" che ora riescono ancora a garantirsi una discreta redditività. Le consegne di latte si concentreranno in larghissima misura in poche migliaia di allevamenti.

 

Se la caveranno meglio i piccoli

 

Le aziende che dipendono dalle consegne (e che producono troppo per poter pensare di entrare nelle "filere corte" )si troveranno di fronte all'alternativa tra la chiusura e una difficile "conversione".

Molto meglio andranno le cose per le piccole aziende di montagna (10-30 capi in lattazione) che già ora stanno collaudando le possibilità della filiera corta e non si faranno cogliere impreparate. Da questo punto di vista va osservato che esiste anche una notevole disparità tra le diverse aree geografiche. Limitandoci all'Arco alpino si nota (vedi tabella a fianco) come si va da una situazione con vendite dirette "da prefisso" (Bolzano) e comunque molto limitate (Trento e Belluno) ad altre (Sondrio e Aosta) dove le vendite dirette hanno continuato a rappresentare una quota consistente. Mentre a Bolzano la situazione è particolare, e non c'è da dubitare che le piccole e piccolissime aziende saranno sostenute, ci si chiede cosa succederà altrove. E' sufficiente, come fa il presidente del Trentino, Dellai, appellarsi al consumatore locale perché "compri trentino"? Se i prodotti caseari trentini sono di tipo industriale (vedi mozzarella di Fiavé) o comunque molto standardizzati la concorrenza sul mercato nazionale e internazionale sarà durissima. L'appello al "buy local" diventa credibile quando un prodotto porta impressa l'impronta del territorio, ne trasmette l'identità alimentare e culturale in genere. Cosa che non funziona con la mozzarella di Fiavé, ma neppure con il Trentingrana/Grana padano. Un problema che ovviamente, non è solo trentino  considerato che anche altrove troviamo produzioni che di legame con il territorio e di "qualità di montagna" hanno mantenuto ben poco (basti pensare all'inflazione delle tome industriali in Piemonte, all'Asiago, al Casera valtellina ecc.).

 

Filiere corte sul serio

 

La prospettiva di sopravvivenza della zootecnia da latte nella montagna alpina, ma anche in ampie altre zone del paese, è legata da una parte alla capacità degli allevatori di cogliere questa evoluzione e di agire con la propria testa, dall'altra a politiche che assumano in modo un po' più coerente gli slogan sulla "sostenibilità" e il "km0".

Per gli allevatori si tratta di emanciparsi  dalla sudditanza (anche psicologica) agli apparati tecnoburocratici che li hanno spinti a diventare dei "mungitori" (si sperava "di lusso, almeno).

Dare la medaglietta di imprenditore non serve a molto se poi questo "imprenditore" non ha libertà di scelta. Il latte deve consegnarlo per forza a un grosso caseificio, la "genetica" (il tipo di animali allevati) è quella che offre il mercato, la stalla la deve costruire in un certo modo (altrimenti non si usufruisce di contributi). Si potrebbe andare avanti con i tanti vincoli che costringono questo "imprenditore" ad essere nulla di più di un piccolo ingranaggio eterodiretto dalle "centrali decisionali". Non parliamo del prezzo (che viene solo subito).

Ora a sganciarsi da tutto questo, a crearsi un piccolo mercato, un "circuito breve" ci vuole coraggio. Sinora gli incentivi hanno spinto gli allevatori verso un'unica direzione: produrre di più e comprare di più (mangimi, integratori, medicinali, trattrici agricole sovradimensionate, tecnologie di stalla, carri unifeed). Ben poco "accompagnamento" è stato realizzato per aiutare gli allevatori a gestire le "pubbliche relazioni", la "comunicazione", il piccolo marketing locale. Quindi molto spesso bisogna fare da soli, e non è facile. Però poi hai la soddisfazione che il prezzo lo fai tu e che lavorare per la qualità ti da soddisfazione economica e non solo.

Le agenzie del settore (sindacati, coop, centri di sperimentazione e assistenza tecnica) dovrebbero prima di tutto fare parecchia autocritica e poi avere il coraggio di cambiare rotta. Ma non si vedono segnali a proposito, anzi.

In questo contesto è la politica che deve recuperare gradi di libertà, emancipandosi dalla autoreferenzialità delle "agenzie". Queste ultime tutelano interessi consolidati e trascurano gli interessi diffusi, quelli del consumatore, quelli del territorio, quelli della stessa maggioramza di allevatori.  I "circuiti brevi" possono sorgere spontaneamente (come quando si realizza l'incontro tra i consumatori, singoli o riuniti in gruppi di acquisto e i produttori) ma possono essere anche aiutati dalle istituzioni locali se queste - come auspicabile - prendono l'iniziativa "saltando" le mediazioni corporative. Per conferire credibilità alle  politiche di "filiera corta" basterebbe che gli ospedali, le mense scolastiche avviassero, con il supporto delle amministrazioni locali, progetti di "km 0". Ma attenzione, anche il "km0" rischia di essere una facciata. Per essere una cosa seria si deve orientare la scelta dei prodotti "km0" nel senso dell'artigianalità, dell'osservanza di pratiche che comportino la valorizzazione di saperi tradizionali, della biodiversità, il rispetto dell'ambiente e del benessere animale, la salubrità dei prodotti, il non uso di OGM.

Se si crede in tutto questo si tratta di incentivare le autentiche filiere locali (uso dei foraggi locali e non di mangimi "globali", di razze autoctone a duplice attitudine in luogo di mucche-macchine-da-latte).

 

Cambiare le regole per gli allevamenti artigianali

 

Alla politica si deve chiedere anche si semplificare le regole per i piccoli allevamenti artigianali, di riconoscere che latte e latticini venduti direttamente e che non si "allontanano" molto dall'azienda, che non si confondono con altre produzioni e sono comunque facilmente rintracciabili possono essere sottoposti a regimi di controllo semplificati. Alla semplificazione delle norme igienico-sanitarie deve corrispondere anche un diverso trattamento fiscale rispetto agli allevamenti industriali e una maggiore flessibilità nelle autorizzazioni per piccoli interventi edilizi. La polarizzazione crescente tra zootecnia industriale e artigianale rende un farsa l'attuale inquadramento unico di chi ha 10 vacche da 4 tonnellate di latte all'anno e 1000 vacche da 12 tonnellate. Non distinguere le cose significa condannare la maggior parte delle campagne e delle montagne italiane ad essere "deserti zootecnici" con conseguente perdita di razze autocrone, autentici prodotti tradizionali di eccellenza (volano del turismo), implosione sociale di intere aree. Ma non c'è molto tempo da perdere. C'è la crisi ed è prossimo il 2015 (fine delle quote latte).

 

 

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Tabella. Annata 2007/2008: produzioni di latte e percentuale di vendite dirette nelle provincie alpine

 

 

 

Totale latte commercializzato

(migliaia di tonnellate)

% vendite dirette

Aosta

44,2

26,0

Sondrio

58,9

27,5

Bolzano

383,4

0,4

Trento

134

2,1

Belluno

46,3

3,7

Verbania

6,6

19,7


 


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