di Michele Corti
(11.11.18)
Sono passati otto anni dalla prima legge regionale (veneta) sul km zero
e il parlamento si accinge a licenziare una normativa nazionale. Il
titolo del provvedimento è promettente (valorizzazione
e la promozione dei prodotti agricoli
e alimentari provenienti da filiera corta, a chilometro zero o utile),
il contenuto deludente. Innanzitutto va notato il ritardo con il quale
il livello nazionale recepisce le nuove istanze che provengono
dall'economia e dalla società. Le regioni, con tutti i limiti di una
istituzione "azzoppata", espressione di un federalismo largamente
incompleto, hanno mostrato una maggiore capacità di rispondere alle
nuove esigenze dell'agricoltura: è stato così con l'agriturismo.
Altrettanto
importante per il mondo agricolo la tanto attesa legge sull'agricoltura
contadina (o "piccola" o "famigliare" che dir si voglia). Mentre a Roma
si continua a discure sull'argomento, a distanza di ben dieci anni
dalle iniziative popolari sul tema (in parlamento sono stati presentati
nella precedente e nella corrente legislatura 3/4 disegni di legge in
materia riuniti in un unico testo nel dicembre 2017), la regione
Toscana ha emanato una sua, benché minimalista, legge in materia. Non
sfugge a nessuno che con i ritmi divenuti rapidissi dell'evoluzione
sociale 10-20 anni sono troppi per dare risposte in termini legislativi
alle nuove problematiche emergenti nella società. La legislazione di
livello statale potrebbe giustificarsi con i suoi ritardi se fornisse
una solida cornice ai provvedimenti regionali, se fornisse risposte
organiche in grado di armonizzare (non al ribasso) le linee regionali.
Nel caso del disegno di legge sul km 0 nulla di tutto ciò: si estende
al livello nazionale quanto previsto da leggi regionali intervenendo
solo su alcuni aspetti e introducendo previsioni piuttosto generiche e
dai prevedibili scarsi effetti.
Le
mani legate
In realtà, su qualsiasi materia di
carattere economico il legislatore regionale e nazionale ha le mani
legate dalla UE. Le
ferre norme liberiste a favore della "libera concorrenza" (leggasi a
favore della grande industria, delle multinazionali, dei paesi con una
struttura basata sulle grandi imprese), i divieti contro gli "aiuti di
stato" e qualsiasi protezionismo, accettati da un Italia
subalterna all'egemonia franco-tedesca (per la sola ragione che i
gruppi di potere hanno slegato i loro interessi da quelli del paese)
condannano gli stati membri all'impotenza. In nome della "libertà di
impresa", la libertà - per le grandi imprese - di espellere dal mercato
le piccole, libere di ... scomparire.
La
legge della regione veneto, che tentava con un certo coraggio di
forzare il quadro dell'eurocrazia, venne pesantemente ridimensionata:
guai a presentare un prodotto come "veneto" e a prevedere qualche forma
di preferenza nei suoi confronti, guai a istigare il senso di
appartenenza e di identità di un territorio esprimendolo anche
attraverso la sovranità e la tradizione alimentare (vedi l'articolo
di Ruralpini).
Solo chilometri?
Innanzitutto
ci si deve chiedere se è valido un criterio di "km 0" solo
chilometrico. Il testo del ddl all' art. 2 (definizioni) chiarisce che
vanno considerati a km 0 i prodotti agroalimentari provenienti da luoghi di produzione e
di trasformazione della materia prima o
delle materie prime agricole primarie utilizzate posti a una distanza
non superiore a 70
chilometri di raggio dal luogo di vendita o
dal luogo di consumo del servizio di ristorazione.
È evidente che una simile
previsione contraddice lo spirito del km 0 che è espressione sintetica
per indicare un prodotto del territorio. Se non c'è alcun paletto
sull'origine della materia prima trasformata la grande industria che
processa materie prime global provenienti dai quattro angoli del
pianeta
e che si trova a qualche decina di km da una grande città può smerciare
i suoi prodotti qualificandoli a km 0.
Non solo: non serve essere geografi
professionisti per comprendere che ci sono territori più o meno
"densi", che in pianura il "raggio in linea d'aria" ha un significato
diverso che in montagna. Anche qui il legislatore (o aspirante
tale) manifesta la sua scarsa sensibilità alle aree interne, alla
montagna. Lo capisce anche un bambino che 70 km sono penalizzanti per
un produttore di un'alta valle stretta che deve scendere in pianura a
fare i mercati, ma sono anche troppi in aree dense di aziende agricole
e laboratori di trasformazione agroialimentare (vedi certi distretti).
Il consumatore evoluto è in
grado di fare le
proprie considerazioni, il turista, il consumatore sprovveduto scambia
il prodotto per un genuino prodotto "nostrano". Un regalo all'industria
e uno schiaffo ai contadini. Nella stessa logica dei marchi di
certificazione europei, i prodotti IGP, il "prodotto di montagna" (dove
conta solo la quota altimetrica). Sono tutti specchiatti per le
allodole per ingannare (legalmente) il consumatore a vantaggio
dell'agroindustria e a danno dei produttori contadini e dei
trasformatori artigianali che
da essi si riforniscono di materie prime. Considerazioni simili valgono
per la filiera corta. Una filiera agroalimentare è definita "corta"
quando risulti caratterizzata
dall’assenza
di intermediari commerciali, ovvero composta da un solo intermediario
tra il produt
tore, singolo o associato in diverse forme di
aggregazione, e il consumatore finale. Coop, associaizoni
produttori, consorzi (spesso configurati come veri e propri gruppi
commerciali) non sono considerati intermediari. In soldoni il prodotto
di un'impresa alimentare esitato in un supermercato potrebbe fregiarsi
del marchio "filiera corta". Ma che senso ha? Il prodotto che arriva
nel negozietto di prossimità passando da un grossista è "filiera
lunga", quello dall'industria alla GDO è "corta". Così si penalizza
ancora di più il commercio tradizionale. Grandioso.
I vantaggi: ben poca cosa e di scarso
significato
La
"valorizzazione" dei prodotti a km 0 e "filiera corta" così definiti
avverrà con l'apposizione di apposito logo. Siccoma la maggior parte
dei prodotti agroalimentari consumati sono esitati nella GDO e sono
private label o comunque acquistati direttamente con contratti di
fornitura dalle imprese agroialimentari la maggior parte della
produzione in commercio potrebbe fregiarsi del logo. A cosa
serve? Quanto ai "mercati agricoli", di cui all’articolo 22 della
legge
28 luglio 2016, n. 154, è prevista la possibilità per i comuni di
riservare posti per i suddetti prodotti. Trattandosi di mercati
agricoli i produttori che partecipano ai mercatini hanno
già dei vincoli relativi all'origine del prodotto esitato. La norma
avrebbe un senso se si restringesse ai produttori che esitano solo
prodotti "km 70" o senza intermediazione. Così, invece, temendo
presente che la gran parte dei produttori che vendono nei mercatini non
proviene da oltre 70 km, il senso della norma è molto dubbio. Quanto
alla ristorazione va precisato che l'unico strumento per favorire i
prodotti "km 70" e "senza intermediazione" è rappresentato dalla
possibilità per gli enti pubblici che appaltano i servizi di
ristorazione collettiva, a parità di ogni altra condizione
contrattuale, possano preferire detti prodotti. Nulla viene
previsto per i servizi di ristorazione in generale mentre anche ad essa
si indirizzava la regione Veneto con la sua legge.
La
montagna ha partorito un topolino che, oltretutto, come tutte le norme
su certioficazioni di qualità, marchi e simili, sotto il dominio del
regime liberal-liberista eurocratico, penalizza le piccole produzioni
artigianali, realmente ancorate al territorio che - ancora una volta -
subiscono la concorrenza sleale di prodotti che tentano di cammuffarsi
da contadini, locali ecc.
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